Giurie

L’AMORE ASSENTE di EDUARDO SAVARESE

venerdì, 24 Febbraio 2012

Da quando Marcello è partito nella forza di pace, la nonna rimane sul suo filare di cartine con occhiate pensose ai rilievi che riproducono le montagne, scorgendo le insidie che, lo sa bene, le montagne di ogni paese da sempre nascondono. Gli occhi grigio – azzurri, allora, diventano fissi come un lago tra quelle montagne. Pensa a sé come Agar, col suo nome di ragazza, non più come yia yia e accende una sigaretta (fuma di nascosto e di rado), chiudendosi il seno grosso dentro lo scialletto multicolore dalle frange arancione, incrostate di polvere. Lo scialletto non lo lava quasi mai, Marcello da piccolo ci strusciava il viso e i capelli come un gatto ronfante.
Durante il primo anno di permanenza in missione, a Sofia premeva soltanto che suo figlio l’assicurasse su quando sarebbe ritornato. Agar spiava le telefonate e scuoteva la testa.
Affacciata alla sua stanza, dopo aver mandato Ciretta a fare la spesa – è lei a decidere cosa si mangia – osserva il via vai nel cortile dabbasso, gli imballaggi di lampadari di suo genero, suo genero che impartisce ordini e non alza mai il capo verso il piano di sopra, non parla del figlio, e a telefono, quando si sentivano, si raccomandava solo di non intrupparsi in imprese troppo eroiche.
Invece yia yia ha scritto al nipote lunghe lettere sconclusionate, nelle quali però chiedeva tutto, come fosse il clima, cosa mangiassero, se di giorno riuscissero a conoscere gli abitanti dei villaggi, com’era la gente afgana, se socievole o infida, come gli albanesi, oppure accogliente, come era stata lei e la sua famiglia con suo nonno, di non prendere freddo, di guardarsi le spalle dalle donne straniere che avrebbero voluto accalappiarlo. Mentre scriveva queste lettere, seppure le firmava yia yia, sorrideva un po’, o si incupiva, enormemente. Ritornava Agar, e quella in Afghanistan costituiva soltanto l’ennesima guerra di una serie indistinta tra i ricordi.

 

 

L’ETÁ LIRICA di LETIZIA PEZZALI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Esiste un Mario in ogni scuola mondiale? Una risposta non c’è, e non tanto perché la domanda sia complicata, quanto perché la domanda non interessa a nessuno, e se al mondo esiste una domanda, una qualunque, che non interessa a nessuno, è quasi scontato che non riceverà mai risposta. Ci sono infatti questioni che, pur interessando a molti, rimangono inevase, e allora non si capisce come mai quelle che interessano a pochi o a nessuno debbano trovare delle soluzioni. È anche un discorso di rispetto delle gerarchie fra le domande.
Si sa, invece, che in ogni scuola mondiale esiste una Beatrice. Questa è una verità di vita inconfutabile. Si sa anche che tale Beatrice è, sempre, femmina. O forse esistono anche delle Beatrici maschio, ma siccome Beatrice è la risposta a una domanda che interessa soprattutto agli individui di sesso maschile, o almeno alla maggioranza di quelli, è chiaro come tale risposta assuma, in prevalenza statistica, forme femminili. Messa in altri termini, il Beatrice maschio forse esiste, ma se esiste deve rappresentare la risposta a una domanda che interessa a pochi. Di nuovo, insomma, contano le gerarchie, o, se si desidera essere più pragmatici e meno lirici, conta il mercato.
Come descrivere, dunque, Beatrice? Usando termini puliti, possibilmente assoluti? E perché non relativi? Ad esempio si potrebbe dire che, se Marta è un essere accanto al quale sia possibile nutrire delle aspirazioni, Beatrice è, semplicemente, l’aspirazione pura. Se Marta è una persona che, anche avendo molto, desidera tutto, Beatrice è colei che ha tutto e non desidera niente. Anche le cose che Beatrice non possiede, in qualche modo possono rientrare, con un semplice schiocco di dita, nel novero delle ricchezze e delle proprietà di Beatrice. Anzi sono le cose stesse che Beatrice non possiede a far di tutto per rientrare nel novero delle ricchezze e delle proprietà di Beatrice.
La Beatrice che si trovava nel liceo di Mario non si chiamava proprio Beatrice, ma Beatriz, con la zeta alla fine. Beatriz Nadel. Nella fattispecie aveva i capelli castani, lunghi, ma non troppo, una Beatrice non ricorre mai agli eccessi. Aveva gli occhi verdi, nel senso che solo una persona che viva sugli alberi potrebbe pensare che essi possano essere di qualunque altro colore. Chiaramente il fatto di ingerire cibo, e in quali quantità, non aveva, su di lei, nessuna influenza in relazione alla forma del corpo. La quale forma rimaneva perfetta e conforme a determinate misure indiscutibili. Non erano, come si potrebbe pensare, misure che pre-esistevano a Beatriz. Non erano, insomma, misure conseguenti a un’aspirazione. Le misure di Beatriz erano, piuttosto, una conseguenza di Beatriz. Nasceva lei e in seguito nasceva il concetto di misura.
E così via.

 

 

LA VITA ACCANTO di MARIAPIA VELADIANO

venerdì, 24 Febbraio 2012

Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. Nessuna razionalità intatta con cui analizzarla. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire.
Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi. Sinceramente non sa se un vestito rosso carminio, attillato, con il decollété bordato di velluto, le piacerebbe più di quello blu, elegante e del tutto anonimo che usa di solito quando va a teatro e sceglie sempre l’ultima fila e arriva all’ultimo minuto, appena prima che le luci si spengano, e sempre d’inverno perché il cappello e la sciarpa la nascondono meglio. Non sa nemmeno se le piacerebbe mangiare al ristorante o andare allo stadio o fare il cammino di Santiago di Compostella o nuotare in piscina o al mare. Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio. Perché non si tratta solo di tenere conto della stagione, del tempo, del denaro come per tutti, si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo.
Io sono brutta. Proprio brutta.
Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta.

 

L’EREDITÁ DEI CORPI di MARCO PORRU

venerdì, 24 Febbraio 2012

Raniero si passò una mano sul petto, trovò un bozzo e lo palpeggiò, poi un altro e fece lo stesso. Le dita scivolarono decise più in basso ma, prima di infilarsi sotto l’elastico dei boxer, tornarono indietro di scatto e palparono ansiose l’area ombelicale. Eccolo il bozzo che avevano sfiorato prima. Ancora un po’ di palpeggi poi tornarono al petto. Uno e due. Poi di nuovo sul bozzo vicino all’ombelico. Tre.
Raniero si drizzò a sedere di scatto, come svegliato da un incubo. Si sfilò di dosso la maglia, la lanciò sul pavimento e chinò la testa verso il petto per scrutarlo. Non c’erano solo i due bubboni che a fatica, col sostegno della psicologa, cercava di accettare come ospiti indesiderati dentro il suo corpo, ma anche un terzo più grande, simile a quello che un anno fa gli era stato asportato dalla gola.
La dottoressa gli aveva detto che era grande quanto una noce di pesca e che, se non glielo avessero tolto, sarebbe potuto morire soffocato. Da allora Raniero percepiva il suo corpo come un terreno che il bastardo aveva invaso di mine antiuomo…
Il bastardo non lo lascerà mai, gli camminerà sempre sotto pelle, pronto a emergere quando lui meno se lo aspetta.

…..

Ora quel nuovo bubbone vicino all’ombelico avrebbe reso ancor più insopportabile l’estate che era alle porte e, più Raniero se lo palpava, più quello sembrava crescere sempre di più: sembrava una pallina da ping pong.
Raniero lo fissava terrorizzato, gli occhi quasi fuori dalle orbite e il viso grondante di sudore. …
Allungò la mano verso il primo cassetto del comò e lo aprì. Prese le forbicine per le unghie e, senza pensarci due volte, se le conficcò nel bubbone. Improvvisamente non aveva più paura, né gli faceva schifo, a dire il vero neppure sentiva dolore. Voleva ad ogni costo stritolare quel maledetto brufolo che lo aveva ingannato. Con rabbia strattonò le forbici dentro la carne, finché zampilli di sangue non gli inondarono l’addome, colando sui fianchi e imbrattando i petali blu che punteggiavano le lenzuola di cotone.

PARTIGIANO INVERNO di GIACOMO VERRI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Vigilia di Natale

Uscì.
La mattina del ventiquattro dicembre millenovecentoquarantatré i pensieri di Italo Trabucco erano numerosi come i sassi di via Monte Rosa che corre giù alla chiesa grande, dove le selci per i carri passano lunghe tra i ciottoli in terra, e visti tutti assieme sono mille schiene di rospo.
Le fantasie salivano come turgori d’una pozione di tomatiche, si facevano e sfacevano nell’inane petulanza dell’ebollizione, blub blub, le facce di Pietro e di Osella, il presepe, il Fenera, i nudi rami dell’inverno, don Bestia, gli uomini del Comitato, il ponte, il fiume, sant’Antonio, Leonardo e i suoi monti, gli alunni, nessuno prendeva fuoco nella mente, oh mai più!, gli spari a Varallo, il
plotone d’esecuzione, il tenente con la giacca chiarissima, le nubi di piombo, la neve a strisce pallidissima e la neve di rosa incarnato dopo la morte, Gesù, Maria, il crestanera, la casa dell’inverno,
l’odore del fico, l’abito blu, la Legione Tagliamento, l’Amilcare, la Caterina, gli occhi degli amici, i corpi abbandonati.
Se in cucina la stufa aveva dato un calore secco nella lana, adesso, per via, il vento scavava i vestiti: Italo colse tra i piedi i cogoli viscidi: l’aria di vetro lo spingeva alla piazza e l’incedere era quello dell’ubriaco che sa dove andare ma ci va come in un sogno. Sulla testa il cielo era tenuto tutto da nuvole stese lunghe come bave di dio. Avrebbe potuto fermarsi e sgranare gli occhi. Avrebbe potuto dire che non capiva più nulla ma non era vero.
Capiva molte cose: che era uscito per andare a vedere i corpi dei morti allineati lungo il muro della chiesa di Sant’Antonio. Capiva che faceva freddo, un freddo che tormentava le mani tagliandole,
e stordendolo lo cullava. Capiva, infine, che lui ci sarebbe stato ancora dopo quei morti, e voleva sapere cosa sarebbe stato in grado di pensare.

 

PIPPE (racconti) di GIOVANNI VERGINEO

venerdì, 24 Febbraio 2012

da Binario morto

… Quando arrivammo era pomeriggio pieno e assolato e l’estate non sembrava stare sul punto di agonizzare: ci eravamo riconnessi, stavamo di nuovo insieme e sembrava che i due mesi trascorsi senza Gimmi fossero stati solo una pausa, un intervallo nella nostra amicizia. Ma non era così semplice. Alla stazione una sorpresa: su una biciclettina rosa da bambina, tirata fuori dal garage dopo secoli di giacenza, c’era Michela. “Ragazzi, viene anche lei” disse Gimmi con una voce che non contemplava obiezioni, eppure ogni cellula del nostro corpo si ribellava a quella stortura, a quella forzatura: una femmina, quella femmina nel nostro gruppo, nel nostro clan in cui non avevamo fatto entrare Dino il figlio del giornalaio, lasciandolo come un imbecille tutto il pomeriggio alla stazione ad aspettarci, nonostante lui ci desse sempre i giornalacci che tanto ci piacevano. No. Quella non era una di noi. Indossava dei pantaloncini cortissimi, e rideva serena come un torrente e ci guardava come si guardano degli animaletti strani; si avvicinò a Gimmi e, davanti a noi, lo baciò tenendolo stretto sulle sue labbra per un tempo interminabile, facendo dentro e fuori dalla sua bocca con la linguetta trepidante e diventando rossa, sbuffante, ansimante di sensuale inesperienza. Gimmi pativa, godeva mentre noi guardavamo a terra contando i secondi che scorrevano lenti e cigolanti come quei vecchi treni che ogni tanto passavano e ci sentivamo appesi come burattini a un momento che non era il nostro, da cui eravamo esclusi e in cui facevamo solo la parte delle stupide comparse. Poi il bacio finì e la ragazza ci guardò, sempre sorridendo. Gimmi era fuori di testa, confusissimo, e gli si vedeva il pisello ritto dai pantaloncini molli. Era lei il capo, ora. “Andiamo” disse Michela, ed entrò nella stazione abbandonata passando per il buco che noi avevamo praticato nella recinzione anni addietro, incamminandosi sui binari senza sapere nemmeno la strada e soprattutto senza pisciarci sopra, che era il nostro modo abituale di iniziare le gite alla cava, la nostra inaugurazione quotidiana del viaggio. Stava profanando il nostro spazio e il nostro tempo, e visto che c’era una ragazza nessuno ebbe il coraggio di tirare fuori l’arnesino da poco coperto di peli e liberarsi. Era tutto strano, più strano ancora di quando Gimmi non era con noi. Ci incamminammo in fila indiana dietro il culetto preadolescenziale di Michela, dietro la sua schiena sottile e i capelli bruni che rimbalzavano sulle scapole al ritmo della pedalata. Anche quello era strano. Gimmi si mise subito dietro di lei e noi altri tre chiudevamo il corteo cercando di tenerci in contatto, di far finta di niente, di rimettere in moto la macchina magica dello stare insieme che proprio quel giorno non ne voleva sapere di partire. Ci lanciavamo occhiatacce torve e senza parlare si capiva che quella stronzetta la odiavamo, sopratutto perché era pure carina. Ma era una tipa tosta e nonostante non andasse in bici dai tempi delle elementari arrivò alla miniera fresca come una rosa; lo sforzo anzi le aveva infiammato le guance e imperlato la fronte e le cosce abbronzate di sudore, rendendola ancora più viva, più simile a una mela quasi matura sul punto di essere raccolta. Gettò la bici in terra e il cestino bianco che era appeso al manubrio si staccò e si ruppe, ma lei non ci fece caso correndo verso l’ingresso della cava inseguita da Gimmi che ormai non ci degnava più di uno sguardo. “E chi è quello zombie lì sopra?” Disse con voce squillante e chiara, dissacrando anche il busto per il quale tutti provavamo timore reverenziale. “Doveva essere un padre allucinante…non come te! Tu sarai un padre carinissimo” e sghignazzando passò una mano fra i capelli crespi e sudati di Gimmi, che si faceva manipolare come un gattino sorridendo come un idiota. “Che fate di bello, ragazzi, quando venite qui?…” nessuno ebbe il coraggio di dire “giochiamo a pallone e ci facciamo le pippe”, soprattutto Gimmi che tentò di salvarci assumendo l’atteggiamento indifferente che distingue gli adolescenti dai ragazzini: “Mah…parliamo…leggiamo…questo. Niente di speciale. La solita palla.” Questo ci offese. “Ho capito, ho capito…vi fate le seghe! E’ questo che fate brutti sporcaccioni eh? E ve le fate assieme, in allegra compagnia o avete almeno la decenza di nascondervi?” D’improvviso calò il gelo, Gimmi scoppiò in una risata imbarazzata, un po’ isterica, che non poteva che essere una conferma. “Anche tu, amore?…” lo guardava languida, e lui si scioglieva come un gelato caduto sull’asfalto: “no, no…che ti credi? Non sono mica un piscione come questi qui…” e via un’altro slinguazzamento di mezz’ora. Quando Michela ebbe capito che ci aveva abbastanza in pugno decise di spingersi oltre. Sapeva che nella miniera non eravamo mai entrati e moriva dalla voglia di vedere come fosse fatta, ma soprattutto di vedere le nostre facce terrorizzate dall’essere introdotti nella bocca dell’Ade, nel labirinto del minotauro. Dove morivano i Carusi. Ma la nostra folle Arianna non se ne sarebbe stata fuori ad aspettare: ci avrebbe condotti fino al ventre molle del mistero e poi ci avrebbe lasciati lì, senza filo rosso del cazzo né piantine. Chi ha meno paura è sempre quello che vince, se non muore. Sghignazzando si diresse verso l’ingresso monumentale della miniera, salutando il busto del marchese quando vi transitò sotto: “Ciao ciao bel soggetto…sono sicura che da giovane eri carino…fai il bravo che noi torniamo presto…”. Gimmi si girò per un secondo a guardarci prima di gettarsi all’inseguimento della sua ragazza, della sua vita che scendeva nelle viscere della terra. Il suo sguardo era implorante, diceva ho un terrore folle mi dispiace averla portata ci farà crepare tutti questa ma ora devo andare non posso fare brutta figura, non posso! Gli negammo il nostro appoggio, anche se ne aveva un disperato bisogno. Aveva portato una femmina fra noi. Non poteva passarla liscia così facilmente…

 

LA NOTTE DEI BAMBINI COMETA di PIERPAOLO VETTORI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Incipit

In principio Dio creò il Big Bang che è tipo una bomba atomica che può distruggere anche Tokyo. Poi però vide che non andava bene per via delle radiazioni e allora creò vari dinosauri e i pianeti. Creò anche la terra con degli animali scarsi che non avevano l’evoluzione e il collo non gli si allungava. Non potendo raggiungere le foglie degli alberi morivano tutti e Dio doveva crearne sempre di nuovi.

Alla fine decise di rifare tutto da capo. Mandò un diluvio universale che annegò tutti i dinosauri a parte i mammuth che si congelarono in Siberia. Poi creò Adamo ed Eva per fare gli uomini. All’inizio erano solo homo sapiens. Meno male che Noè aveva salvato tutti gli animali, così si poté creare il Mondo. Durante il diluvio, questo Noè aveva costruito una barca che lui chiamava Arca, senza la b, e ci aveva fatto salire due animali per tipo. Non tutti riuscirono a infilarsi nella barca di Noè e così si estinsero come la tigre dai denti a sciabola.

Poi la storia andò avanti ma l’uomo, che non voleva obbedire ai comandi di Dio, si ribellava di continuo. Dio allora creò l’inferno e le malattie come quella che ha ucciso Miki.

La storia comprende i primitivi, gli antichi romani, i medievali e altri tipo i cowboys e gli indiani. Alla fine, tutti questi uomini dei secoli dei secoli fecero il signor Bruno e la signora Laura Vivaldi che sono il papà e la mamma del bambino di cui vi devo parlare.

Il bambino si chiama Zeno Vivaldi e il suo papà fa il fabbro. La mamma invece lavora dove fanno le televisioni Magnadyne. Dico queste cose perché siate sicuri che le cose che vi racconterò sono successe davvero. Le dico anche perché la gente crede che i bambini non sappiano niente, invece Zeno sapeva tante cose e me le ha insegnate tutte.

Io sono il suo migliore amico.

 Io, purtroppo, non esisto.

 

LE SORELLE SOFFICI di PIERPAOLO VETTORI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Mercoledì 24 marzo

Con le sue mani bianche e affusolate, la mamma ha cominciato a servire i pasticcini ad Anton reggendoli sulla punta di una minuscola forchetta.
– Vostro padre è molto malato. Mi occuperò io di lui da ora in poi, – ci ha detto Anton senza guardarci in faccia ma continuando a sorridere alla mamma. – Farò tutto il possibile ma dovete cominciare ad abituarvi al peggio. Capite?
Io e Cecilia siamo rimaste immobili. Le ho preso la mano da sotto il tavolo ed era fredda come quella di una morta.
– Papà potrebbe morire, – ha insistito la mamma tormentando una collanina di perle azzurre.
Noi siamo state zitte.
– Non vi importa? Non vi dispiace neanche un po’?
La mamma ci guardava coi suoi occhi belli e tristi.
– No, – abbiamo risposto all’unisono. Non vogliamo mostrarci deboli di fronte alla mamma. Non ci fidiamo di lei.
Gli occhi le si sono riempiti di lacrime grosse come mirtilli.
– Ho cercato di educarvi ma non ci sono riuscita, – ci ha detto pulendosi gli occhi lucidi con un tovagliolo bianco.
Anton ha allungato una mano verso di lei come per chiuderle le labbra.
– Non potevi, Olga. Loro sono…come dire?
– Avete preso da vostro padre, – ha concluso la mamma come se vomitasse una mela. – Dalla sua famiglia. La maledetta famiglia. I Soffici.
Io e Cecilia ci siamo guardate. Pensiamo di non aver preso da nessuno. Non abbiamo bisogno degli altri.
Anton ha sgranocchiato i pasticcini e ha continuato a lanciarci degli sguardi cattivi coi suoi occhietti rossi.
– I Soffici, – ha scandito come se pronunciasse una bestemmia. Poi ha alzato gli occhi al cielo e dalla pelliccia grigia ha estratto un libretto. Lo ha poggiato sulle ginocchia e ha cominciato a sussurrare qualcosa di incomprensibile.
Forse è un prete.
La mamma gli è andata vicino e gli ha accarezzato la testa. Noi abbiamo chiesto il permesso di tornare in camera nostra e ce lo hanno concesso. Abbiamo dato un bacio sulla guancia al nostro nuovo cugino e siamo andate via.

Speriamo che Anton muoia.
E’ malvagio e ha un odore cattivo.
Più tardi abbiamo acceso la televisione e abbiamo sentito le urla di papà che veniva portato in soffitta. Ci dispiace per lui ma non possiamo aiutarlo.
Abbiamo guardato un programma comico.