Giurie

R.M. di MICHELE LAMON

venerdì, 24 Febbraio 2012

Comincia con una metempsicrisi, o più semplicemente: io mi reincarno, e tu?
Personaggi: i genitori di R.M.

 

Angela sarà un angelo e Lucio, per qualche tempo, un luccio. Ma nella vita terrena che volge al termine costituiscono una coppia sposata, del tutto umana, litigiosissima, con un figlio piccolo.
I gesti scomposti e la disattenzione durante l’ennesimo alterco stanno per essere loro fatali, in una piovosa sera di viaggio, di maggio.
Mentre la potente automobile, mal condotta per numerosi viscidi chilometri, vola giù dal viadotto incontro al fondovalle, i due, riuscendo a dominare il terrore, si riconciliano con una prontezza e una forza di spirito che commuoverebbero platee televisive, cinematografiche e persino teatrali (purtroppo non c’è nessuno ad ammirarli).
I tergicristalli del fuoristrada fuori strada gracidano ormai sui vetri asciutti, avendo la velocità di picchiata superato quella del rovescio, quando Angela e Lucio concludono spasmodicamente gli accordi sulla forma di esistenza a venire, per potersi reincontrare.

 

 

Tragico incidente sul viadotto
Personaggi: molti consumatori coinvolti, l’uomo con le sporte di plastica, la telegiornalista

 

Piove. Piove acqua, evapora acqua, piove acqua mescolata ad anidride, evapora acqua, piove acqua inglobante particolato, evapora solo acqua, piove zolfo dal paradiso, piovono piume bruciacchiate, piovono piccoli rami, piovono colombi mutilati, piovono locuste, rane pipistrelli e infine vampiri, a non finire in mezzo al copioso evaporare dell’acqua. I vampiri cercano di salvarsi aggrappandosi con le zanne alle grondaie, sfondano gli abbaini e le autobotti, agganciano i tronchi d’albero strappandosi al volo denti e unghie, lacerano i teloni, si impalano sugli ombrelli dei passanti, si impalano sulle punte delle ringhiere, si impilano sugli obelischi commemorativi, sui piloni, sui pennoni. Il sangue immortale è in piena, le strade sono arterie letteralmente, le piazze mortai dove pneumatici e suole impastano senza posa lungo le rotatorie. L’insidiosa poltiglia si autoalimenta favorendo cadute e slittamenti. Altra poltiglia sprizza dai mezzi cozzanti. A loro rischio, appiedati accattoni grufolano nel paciugo alla ricerca di parti vendibili al mercato degli organi. Come va signore? Dico a te, con le sporte di plastica. Sono pesanti? Io? Niente, niente, recupero qualche rene qualche cornea da barattare con vino e minestrone, ogni tanto ci scappa fuori un fegato, cervelli neanche uno, cuore se hai culo. Quel che non smercio cucino.

 

DA QUI A CENT’ANNI di ANNA MELIS

venerdì, 24 Febbraio 2012

Al paese ci sono nato come una taschedda di patate scaricata sull’uscio da Ines Todde il mercoledì pomeriggio che passava con la mercanzia, e che mamma si era scordata di avvisare che non voleva più niente.
Abitavamo in mezzo ai monti, in un paese oggi scomparso. Mamma non era tutta tutta isolana, i parenti di babbo erano del Nuorese. Io nacqui mentre Graziano era via. Quando tornò e mi vide, acconchigliato al seno di mamma come una capra che lecca il sale, mi guardò come poteva guardarmi dopo essere stato tredici mesi sul Supramonte appresso al gregge. Senza stupore e con l’animo aspro, l’ennesimo agnello partorito sull’erba. E sin da subito mise in chiaro che tra noi era lui il cane pastore.
Babbo non capì mai fino in fondo di che pasta fosse fatto Graziano, e per questa cosa mio fratello si dannò l’anima.
“Finiscila, Graziano, finiscila: che pari avere il demonio dentro” . Così gli diceva qualsiasi cosa facesse, e Graziano, che di babbo non aveva paura, rispondeva: “Sono io che sto dentro al demonio, non il demonio che sta dentro di me”. Babbo lo menava con facilità, e un po’ ci credeva a quelle parole, perché quella lingua aveva solo diec’anni, i diec’anni più chiacchierati da tutto su bighinadu, di cui mamma andava nascostamente fiera. Finchè un
giorno Graziano mise la testa a posto, e sostituì alla balentia la misericordia per il genitore. Ma questo avvenne a fatica, troppo tardi per annegare il fuoco che gli rosicava il petto ed estirpargli l’impertinenza di montare la vita come montava a cavallo: senza sella e strattonando le redini.

 

 

CAROLYNA di ROBERTO RISSO

venerdì, 24 Febbraio 2012

Incipit

Emanuele si considerava un buon incassatore, così gli piaceva descriversi quando parlava con amici e colleghi che stavano ad ascoltarlo con un sorriso indulgente appena accennato. ‘Un buon incassatore, ecco cosa sono, uno che riesce a prendersi scariche di pugni e resta in piedi, non spreca energie… poi, al momento buono, bam! Parto al contrattacco e assesto colpi che lasciano il segno.’ A queste parole di solito il sorriso di chi lo ascoltava si faceva ironico ma Emanuele non se ne accorgeva e annuiva con l’aria di uno che la sa lunga. Saper essere un buon incassatore, ecco il segreto per Emanuele Virgili, quarantun anni, basso, tarchiato, scuro di capelli, una calvizie insidiosa che lavorava in silenzio sulla parte alta della testa lasciandogli un’odiata linguetta di capelli radi nel centro della fronte. Diplomato alle magistrali, senza grandi ambizioni, nessun vero progetto per il futuro, viveva da solo in un alloggio in un palazzo enorme all’estrema periferia di Augusta, a due passi dalla Provinciale.

Non era un appassionato di box, nonostante l’amata storia dell’incassatore, anzi, la boxe non gli piaceva, aveva evitato perfino di farsi convincere a fare le lezioni gratuite di box thailandese che gli avevano offerto in palestra nel periodo in cui andava, anni prima, e neanche la guardava in televisione quando c’erano gli incontri dei pesi massimi. Niente. Emanuele amava senza follie il calcio, tifava per la squadra locale, l’Augusta F.C. che era in serie B, seguiva le partite, anche le amichevoli della Nazionale, e a volte il ciclismo, soprattutto se era il Giro d’Italia e la sua scorta di birra prometteva di non tradirlo. Aveva una mountain bike Atala del 1999 con ventun rapporti che usava per fare giri in campagna, soprattutto d’estate, e un abbonamento annuale ai mezzi pubblici di Augusta, tratta urbana, perchè non aveva mai preso la patente.

Per quarantun anni, sei mesi e dodici giorni le cose erano andate bene, Emanuele avrebbe detto ‘filate lisce’, la madre si era occupata di lui, l’aveva fatto studiare fino al diploma, con le lezioni private estive in vista dei puntualissimi ‘esami a settembre’, lo aveva tenuto in casa, servito, riverito e accudito fino ai trentacinque anni e poi aveva usato i risparmi di tutta la vita per comprargli i sessanta metri quadri al sesto piano del casermone in Via Settembrini 18 in cui Emanuele aveva vissuto da solo negli ultimi sei anni. Quando aveva venticinque anni era entrato come commesso al Supermercato Imic & Co e lì era rimasto per tutti quegli anni senza far carriera, senza grandi aumenti di stipendio e senza aver mai invitato al cinema nessuna delle cassiere come sua madre e qualche collega del reparto surgelati gli avevano suggerito di fare. Niente, le avventure sentimentali e le imprese amatorie di Emanuele si riducevano a un paio di rocambolesche avventure alle superiori, una storia con una donna matura che abitava nel suo palazzo al secondo piano e che era morta d’infarto l’estate dopo e una serie di rapporti mercenari.

Non era poi tanto difficile essere ‘dei buoni incassatori’ quando non c’era niente da incassare. Quanto ai problemi, ma Emanuele li chiamava puntualmente ‘colpi bassi’, si limitavano alle bollette da pagare, o alla vecchia che abitava di fianco e che si lamentava sempre per il volume del televisore e poi lei si addormentava davanti al suo che rimaneva acceso fino all’una o alle due di notte o ai malumori del capo reparto e perfino alla voce che era circolata con insistenza sospetta nel supermercato mesi prima secondo cui Emanuele, anzi Lele, come lo chiamavano tutti, diminutivo che non amava, fosse omosessuale. Anzi, frocio! come diceva quella scritta ignobile che era durata mesi sulla parete della casa di fronte all’ingresso principale del Supermercato.

Il primo vero colpo duro lo aveva incassato un mese prima, e con sua infinita sorpresa non era riuscito a incassarlo bene, tutt’altro, era finito dritto al tappeto. Certo, si era rialzato quasi subito ma lo smacco c’era e restava. Ora chissà fino a quando sarebbe durata questa storia, pensava Emanuele durante il lungo giro in bici che ora faceva tutti i pomeriggi.

Da un mese lo avevano messo in cassa integrazione e, altro colpo durissimo, sua madre era all’ospedale da quasi tre settimane per un infarto. Brutti, bruttissimi colpi anche per un ottimo ed esperto incassatore come Emanuele Virgili.

 

 

L’AMORE ASSENTE di EDUARDO SAVARESE

venerdì, 24 Febbraio 2012

Da quando Marcello è partito nella forza di pace, la nonna rimane sul suo filare di cartine con occhiate pensose ai rilievi che riproducono le montagne, scorgendo le insidie che, lo sa bene, le montagne di ogni paese da sempre nascondono. Gli occhi grigio – azzurri, allora, diventano fissi come un lago tra quelle montagne. Pensa a sé come Agar, col suo nome di ragazza, non più come yia yia e accende una sigaretta (fuma di nascosto e di rado), chiudendosi il seno grosso dentro lo scialletto multicolore dalle frange arancione, incrostate di polvere. Lo scialletto non lo lava quasi mai, Marcello da piccolo ci strusciava il viso e i capelli come un gatto ronfante.
Durante il primo anno di permanenza in missione, a Sofia premeva soltanto che suo figlio l’assicurasse su quando sarebbe ritornato. Agar spiava le telefonate e scuoteva la testa.
Affacciata alla sua stanza, dopo aver mandato Ciretta a fare la spesa – è lei a decidere cosa si mangia – osserva il via vai nel cortile dabbasso, gli imballaggi di lampadari di suo genero, suo genero che impartisce ordini e non alza mai il capo verso il piano di sopra, non parla del figlio, e a telefono, quando si sentivano, si raccomandava solo di non intrupparsi in imprese troppo eroiche.
Invece yia yia ha scritto al nipote lunghe lettere sconclusionate, nelle quali però chiedeva tutto, come fosse il clima, cosa mangiassero, se di giorno riuscissero a conoscere gli abitanti dei villaggi, com’era la gente afgana, se socievole o infida, come gli albanesi, oppure accogliente, come era stata lei e la sua famiglia con suo nonno, di non prendere freddo, di guardarsi le spalle dalle donne straniere che avrebbero voluto accalappiarlo. Mentre scriveva queste lettere, seppure le firmava yia yia, sorrideva un po’, o si incupiva, enormemente. Ritornava Agar, e quella in Afghanistan costituiva soltanto l’ennesima guerra di una serie indistinta tra i ricordi.

 

 

L’ETÁ LIRICA di LETIZIA PEZZALI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Esiste un Mario in ogni scuola mondiale? Una risposta non c’è, e non tanto perché la domanda sia complicata, quanto perché la domanda non interessa a nessuno, e se al mondo esiste una domanda, una qualunque, che non interessa a nessuno, è quasi scontato che non riceverà mai risposta. Ci sono infatti questioni che, pur interessando a molti, rimangono inevase, e allora non si capisce come mai quelle che interessano a pochi o a nessuno debbano trovare delle soluzioni. È anche un discorso di rispetto delle gerarchie fra le domande.
Si sa, invece, che in ogni scuola mondiale esiste una Beatrice. Questa è una verità di vita inconfutabile. Si sa anche che tale Beatrice è, sempre, femmina. O forse esistono anche delle Beatrici maschio, ma siccome Beatrice è la risposta a una domanda che interessa soprattutto agli individui di sesso maschile, o almeno alla maggioranza di quelli, è chiaro come tale risposta assuma, in prevalenza statistica, forme femminili. Messa in altri termini, il Beatrice maschio forse esiste, ma se esiste deve rappresentare la risposta a una domanda che interessa a pochi. Di nuovo, insomma, contano le gerarchie, o, se si desidera essere più pragmatici e meno lirici, conta il mercato.
Come descrivere, dunque, Beatrice? Usando termini puliti, possibilmente assoluti? E perché non relativi? Ad esempio si potrebbe dire che, se Marta è un essere accanto al quale sia possibile nutrire delle aspirazioni, Beatrice è, semplicemente, l’aspirazione pura. Se Marta è una persona che, anche avendo molto, desidera tutto, Beatrice è colei che ha tutto e non desidera niente. Anche le cose che Beatrice non possiede, in qualche modo possono rientrare, con un semplice schiocco di dita, nel novero delle ricchezze e delle proprietà di Beatrice. Anzi sono le cose stesse che Beatrice non possiede a far di tutto per rientrare nel novero delle ricchezze e delle proprietà di Beatrice.
La Beatrice che si trovava nel liceo di Mario non si chiamava proprio Beatrice, ma Beatriz, con la zeta alla fine. Beatriz Nadel. Nella fattispecie aveva i capelli castani, lunghi, ma non troppo, una Beatrice non ricorre mai agli eccessi. Aveva gli occhi verdi, nel senso che solo una persona che viva sugli alberi potrebbe pensare che essi possano essere di qualunque altro colore. Chiaramente il fatto di ingerire cibo, e in quali quantità, non aveva, su di lei, nessuna influenza in relazione alla forma del corpo. La quale forma rimaneva perfetta e conforme a determinate misure indiscutibili. Non erano, come si potrebbe pensare, misure che pre-esistevano a Beatriz. Non erano, insomma, misure conseguenti a un’aspirazione. Le misure di Beatriz erano, piuttosto, una conseguenza di Beatriz. Nasceva lei e in seguito nasceva il concetto di misura.
E così via.

 

 

LA VITA ACCANTO di MARIAPIA VELADIANO

venerdì, 24 Febbraio 2012

Una donna brutta non ha a disposizione nessun punto di vista superiore da cui poter raccontare la propria storia. Nessuna razionalità intatta con cui analizzarla. Non c’è prospettiva d’insieme. Non c’è oggettività. La si racconta dall’angolo in cui la vita ci ha strette, attraverso la fessura che la paura e la vergogna ci lasciano aperta giusto per respirare, giusto per non morire.
Una donna brutta non sa dire i propri desideri. Conosce solo quelli che può permettersi. Sinceramente non sa se un vestito rosso carminio, attillato, con il decollété bordato di velluto, le piacerebbe più di quello blu, elegante e del tutto anonimo che usa di solito quando va a teatro e sceglie sempre l’ultima fila e arriva all’ultimo minuto, appena prima che le luci si spengano, e sempre d’inverno perché il cappello e la sciarpa la nascondono meglio. Non sa nemmeno se le piacerebbe mangiare al ristorante o andare allo stadio o fare il cammino di Santiago di Compostella o nuotare in piscina o al mare. Il possibile di una donna brutta è così ristretto da strizzare il desiderio. Perché non si tratta solo di tenere conto della stagione, del tempo, del denaro come per tutti, si tratta di esistere sempre in punta di piedi, sul ciglio estremo del mondo.
Io sono brutta. Proprio brutta.
Non sono storpia, per cui non faccio nemmeno pietà. Ho tutti i pezzi al loro posto, però appena più in là, o più corti, o più lunghi, o più grandi di quello che ci si aspetta.

 

L’EREDITÁ DEI CORPI di MARCO PORRU

venerdì, 24 Febbraio 2012

Raniero si passò una mano sul petto, trovò un bozzo e lo palpeggiò, poi un altro e fece lo stesso. Le dita scivolarono decise più in basso ma, prima di infilarsi sotto l’elastico dei boxer, tornarono indietro di scatto e palparono ansiose l’area ombelicale. Eccolo il bozzo che avevano sfiorato prima. Ancora un po’ di palpeggi poi tornarono al petto. Uno e due. Poi di nuovo sul bozzo vicino all’ombelico. Tre.
Raniero si drizzò a sedere di scatto, come svegliato da un incubo. Si sfilò di dosso la maglia, la lanciò sul pavimento e chinò la testa verso il petto per scrutarlo. Non c’erano solo i due bubboni che a fatica, col sostegno della psicologa, cercava di accettare come ospiti indesiderati dentro il suo corpo, ma anche un terzo più grande, simile a quello che un anno fa gli era stato asportato dalla gola.
La dottoressa gli aveva detto che era grande quanto una noce di pesca e che, se non glielo avessero tolto, sarebbe potuto morire soffocato. Da allora Raniero percepiva il suo corpo come un terreno che il bastardo aveva invaso di mine antiuomo…
Il bastardo non lo lascerà mai, gli camminerà sempre sotto pelle, pronto a emergere quando lui meno se lo aspetta.

…..

Ora quel nuovo bubbone vicino all’ombelico avrebbe reso ancor più insopportabile l’estate che era alle porte e, più Raniero se lo palpava, più quello sembrava crescere sempre di più: sembrava una pallina da ping pong.
Raniero lo fissava terrorizzato, gli occhi quasi fuori dalle orbite e il viso grondante di sudore. …
Allungò la mano verso il primo cassetto del comò e lo aprì. Prese le forbicine per le unghie e, senza pensarci due volte, se le conficcò nel bubbone. Improvvisamente non aveva più paura, né gli faceva schifo, a dire il vero neppure sentiva dolore. Voleva ad ogni costo stritolare quel maledetto brufolo che lo aveva ingannato. Con rabbia strattonò le forbici dentro la carne, finché zampilli di sangue non gli inondarono l’addome, colando sui fianchi e imbrattando i petali blu che punteggiavano le lenzuola di cotone.

PARTIGIANO INVERNO di GIACOMO VERRI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Vigilia di Natale

Uscì.
La mattina del ventiquattro dicembre millenovecentoquarantatré i pensieri di Italo Trabucco erano numerosi come i sassi di via Monte Rosa che corre giù alla chiesa grande, dove le selci per i carri passano lunghe tra i ciottoli in terra, e visti tutti assieme sono mille schiene di rospo.
Le fantasie salivano come turgori d’una pozione di tomatiche, si facevano e sfacevano nell’inane petulanza dell’ebollizione, blub blub, le facce di Pietro e di Osella, il presepe, il Fenera, i nudi rami dell’inverno, don Bestia, gli uomini del Comitato, il ponte, il fiume, sant’Antonio, Leonardo e i suoi monti, gli alunni, nessuno prendeva fuoco nella mente, oh mai più!, gli spari a Varallo, il
plotone d’esecuzione, il tenente con la giacca chiarissima, le nubi di piombo, la neve a strisce pallidissima e la neve di rosa incarnato dopo la morte, Gesù, Maria, il crestanera, la casa dell’inverno,
l’odore del fico, l’abito blu, la Legione Tagliamento, l’Amilcare, la Caterina, gli occhi degli amici, i corpi abbandonati.
Se in cucina la stufa aveva dato un calore secco nella lana, adesso, per via, il vento scavava i vestiti: Italo colse tra i piedi i cogoli viscidi: l’aria di vetro lo spingeva alla piazza e l’incedere era quello dell’ubriaco che sa dove andare ma ci va come in un sogno. Sulla testa il cielo era tenuto tutto da nuvole stese lunghe come bave di dio. Avrebbe potuto fermarsi e sgranare gli occhi. Avrebbe potuto dire che non capiva più nulla ma non era vero.
Capiva molte cose: che era uscito per andare a vedere i corpi dei morti allineati lungo il muro della chiesa di Sant’Antonio. Capiva che faceva freddo, un freddo che tormentava le mani tagliandole,
e stordendolo lo cullava. Capiva, infine, che lui ci sarebbe stato ancora dopo quei morti, e voleva sapere cosa sarebbe stato in grado di pensare.