Al paese ci sono nato come una taschedda di patate scaricata sull’uscio da Ines Todde il mercoledì pomeriggio che passava con la mercanzia, e che mamma si era scordata di avvisare che non voleva più niente.
Abitavamo in mezzo ai monti, in un paese oggi scomparso. Mamma non era tutta tutta isolana, i parenti di babbo erano del Nuorese. Io nacqui mentre Graziano era via. Quando tornò e mi vide, acconchigliato al seno di mamma come una capra che lecca il sale, mi guardò come poteva guardarmi dopo essere stato tredici mesi sul Supramonte appresso al gregge. Senza stupore e con l’animo aspro, l’ennesimo agnello partorito sull’erba. E sin da subito mise in chiaro che tra noi era lui il cane pastore.
Babbo non capì mai fino in fondo di che pasta fosse fatto Graziano, e per questa cosa mio fratello si dannò l’anima.
“Finiscila, Graziano, finiscila: che pari avere il demonio dentro” . Così gli diceva qualsiasi cosa facesse, e Graziano, che di babbo non aveva paura, rispondeva: “Sono io che sto dentro al demonio, non il demonio che sta dentro di me”. Babbo lo menava con facilità, e un po’ ci credeva a quelle parole, perché quella lingua aveva solo diec’anni, i diec’anni più chiacchierati da tutto su bighinadu, di cui mamma andava nascostamente fiera. Finchè un
giorno Graziano mise la testa a posto, e sostituì alla balentia la misericordia per il genitore. Ma questo avvenne a fatica, troppo tardi per annegare il fuoco che gli rosicava il petto ed estirpargli l’impertinenza di montare la vita come montava a cavallo: senza sella e strattonando le redini.
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