Da quando Marcello è partito nella forza di pace, la nonna rimane sul suo filare di cartine con occhiate pensose ai rilievi che riproducono le montagne, scorgendo le insidie che, lo sa bene, le montagne di ogni paese da sempre nascondono. Gli occhi grigio – azzurri, allora, diventano fissi come un lago tra quelle montagne. Pensa a sé come Agar, col suo nome di ragazza, non più come yia yia e accende una sigaretta (fuma di nascosto e di rado), chiudendosi il seno grosso dentro lo scialletto multicolore dalle frange arancione, incrostate di polvere. Lo scialletto non lo lava quasi mai, Marcello da piccolo ci strusciava il viso e i capelli come un gatto ronfante.
Durante il primo anno di permanenza in missione, a Sofia premeva soltanto che suo figlio l’assicurasse su quando sarebbe ritornato. Agar spiava le telefonate e scuoteva la testa.
Affacciata alla sua stanza, dopo aver mandato Ciretta a fare la spesa – è lei a decidere cosa si mangia – osserva il via vai nel cortile dabbasso, gli imballaggi di lampadari di suo genero, suo genero che impartisce ordini e non alza mai il capo verso il piano di sopra, non parla del figlio, e a telefono, quando si sentivano, si raccomandava solo di non intrupparsi in imprese troppo eroiche.
Invece yia yia ha scritto al nipote lunghe lettere sconclusionate, nelle quali però chiedeva tutto, come fosse il clima, cosa mangiassero, se di giorno riuscissero a conoscere gli abitanti dei villaggi, com’era la gente afgana, se socievole o infida, come gli albanesi, oppure accogliente, come era stata lei e la sua famiglia con suo nonno, di non prendere freddo, di guardarsi le spalle dalle donne straniere che avrebbero voluto accalappiarlo. Mentre scriveva queste lettere, seppure le firmava yia yia, sorrideva un po’, o si incupiva, enormemente. Ritornava Agar, e quella in Afghanistan costituiva soltanto l’ennesima guerra di una serie indistinta tra i ricordi.
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