Cirmolo
…Quando zeta e suo padre entrarono, ebbero a trovarsi di fronte ad un laboratorio
ordinato. Il banco da lavoro, le sgorbie, i succhielli, gli scalpelli, i pialletti, le punte
(qualsiasi punta), i martelli eccetera, tutti accuratamente alloggiati.
E poi la sega a nastro, la levigatrice, il trapano a colonna. In quello stanzone si
lavorava il legno. Sopra uno scrittoio filze simmetriche di fogli, gran parte dei quali
riportanti accurati esplosi di ghiere e leveraggi, infilzati con le puntine al muro proprio
sopra, presso un pannello di sughero.
Sul piano da lavoro un mucchietto di estrusioni, ma raccolte a cumulo come di chi ha
passato la mano aperta a conca e ha spinto/radunato tutto in un punto preciso.
Un uomo anziano, oltre la sessantina, col camice da lavoro impeccabile e gli occhiali
appesi al collo con un cordino, stava seduto presso un fornello vegliando intento a una
pentola nella quale cuoceva qualcosa di biancastro.
Il papà salutò il maestro Piatti. Questi si alzò, infilò gli occhiali e disse buongiorno.
Mentre lo diceva, con la coda dell’occhio impercettibilmente seguiva la cottura sul
fuoco.
Sto facendo andare la colla. Deve andare lenta lenta eh’ disse.
‘Eccoci. Qua in questa stanza si fanno i modelli’ disse a sua volta il papà facendo la
presentazione.
Zeta tacque.
‘Lo sai cos’è un modello?’ gli chiese il maestro Piatti prima di qualsiasi altra cosa.
Agli occhi di zeta quell’uomo era buffo; come tutte le persone anziane gli appariva di
forma tonda, tranne la voce, che in quel momento era dura, oltre che laconica. Ma il
maestro Piatti non aveva nulla di tondo, nella realtà.
Se zeta non fosse stato in quel momento un ragazzino spaesato – e quindi
momentaneamente ammainata la consueta facoltà di osservazione – si sarebbe subito
reso conto che si trovava nel luogo deputato di quell’anziano dall’apparenza così
linda/precisa, nel suo regno fatto di legno.
Lì tutto funzionava al regime di rotazione di un motore passo passo. Comunque zeta
disse che no, non lo sapeva cos’erano i modelli.
‘Ossignur, non lo sa!’ replicò con stupore il maestro Piatti battendo le mani ad una
platea immaginaria.
Ma il papà fu pronto. ‘Certo, adesso non lo sa, ma impara in fretta. E’ qui apposta, non
è vero?’.
E ancora con questa mano sulla spalla, anzi, ora con la mano sul collo. Ma che
voleva? Ma che era tutta questa benevolenza? si chiedeva zeta.
‘Ad ogni buon conto’ disse il maestro Piatti rientrando, non senza fatica, dallo stupore
precedente ‘qua lavoriamo per la meccanica: facciamo modelli in legno di parti appunto
meccaniche, di pressofusioni, di componenti di motori. Li facciamo col legno. La vedi
quella pentola? Ci sto facendo scaldare la colla che serve per incollare certe parti.
Altre invece le ricaviamo dal pieno. Qua la colla la faccio io; solo io…’.
Il papà intervenne. Disse che aveva da fare e che ormai la cosa era intesa, che non
voleva togliere altro tempo al maestro Piatti al suo lavoro, che con zeta ci si vedeva
quella sera a casa. Andò via.
‘Alura sümiòt, quanti anni hai?’ chiese il maestro Piatti una volta rimasti soli.
‘Quindici’ rispose zeta.
La risposta pare soddisfare i criteri d’ingresso e la messa a fuoco del soggetto.
‘A quindici anni ero già a bottega da tre’ disse il maestro Piatti guardando un punto
fuori dalla finestra. Dentro entrava un bel sole di stagione che cavava bene i toni caldi
del legno del pavimento, dei banchi e delle lavorazioni.
‘El mè papà mi aveva messo a imparare il mestiere del magnano’ continuò ‘Poi,
quando avevo i tuoi anni, con uno del mio paese siamo venuti in città. Andavamo a
riparare i tetti cui ciòd e cunt’el màrtel. Da mattina a sera; stavamo fuori anche quando
pioveva. Hai capito… anche quando pioveva, bei stüpid, no?’.
Zeta ritenne opportuno non rispondere nulla. Del resto, che cos’avrebbe dovuto dire?
Era attratto piuttosto dagli attrezzi; avrebbe voluto che il maestro Piatti subito glieli
descrivesse. Avrebbe voluto chiedere.
Il sentore della colla, che sembrava di broda di verdura, ma dolciastra, con un fondo
gommoso/limaccioso d’erba, ristagnava per la stanza. Il maestro Piatti aprì la finestra e
andò a vigilare la cottura. In quel mentre si spalancò la porta ed entrò un uomo.
Aveva i capelli cortissimi, gli occhi gialli, il naso rotto. Alto e dinoccolato nella tuta da
lavoro, era ricoperto di polline e minuscole infiorescenze gialle.
Venne subito apostrofato. ‘Se te fà, sacrament?! Guarda com’è conciato’.
L’uomo parlò, rivelando denti guasti e voce da dentro il secchio. ‘Ho dormito un pù sota
a l’àlber’. Il maestro Piatti finse di trasecolare. Si mise a cantare beffardo. ‘E’
primaveraaaa’.
Poi si fece serio. ‘Va giò a lavass, va’.
L’uomo uscì e prese di corsa per i gradini. Il maestro scosse la testa e spense il
fornello a spirito da sotto la pentola della colla.
‘Chi è quel signore?’ chiese timidamente zeta.
‘Signore, ah! Se ch’el lì l’è un sìgnur mi sunt’el papa de Roma’ rispose il maestro Piatti.
Ci fu silenzio. La pentola della colla venne poggiata accuratamente su una piastra
rialzata di ferro. ‘Quello lì è il Lallo: lavora qui come me e te, ma l’è pegg de mi e ti trà
insema’ riprese, ma già un poco ridendo, come preda di un’indulgenza che si prendeva
via la disapprovazione per codesta disdicevole condotta. ‘Ma adesso vieni un po’ qua a
aiutarmi con questa colla’…
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