Giurie

DA QUI A CENT’ANNI di ANNA MELIS

lunedì, 2 Aprile 2012

Da qui a cent’anni
Anna Melis
Frassinelli
finalista XXIV edizione

Barbagia, anni Cinquanta. La vita del piccolo Ninniu, nato nella numerosa famiglia Mele, scorre nell’ombra adorata e temuta di Graziano, il fratello balente, bello e disperato. Un eroe destinato a perdere, un bandito amato dalle donne, che conosce solo la vendetta e l’amore selvaggio, e della morte non ha nessuna paura. Neanche quando la famiglia rivale dei Corrias, con cui c’è una faida antica come le pietre nuragiche, decide di infliggere ai Mele la peggiore delle punizioni. (altro…)

INVERNO INFERNO di RICCARDO BATTAGLIA

venerdì, 24 Febbraio 2012

Prologo

 

Bach Mozart Beethoven.

La storia gira sulle triadi. La storia è fatta di triadi.

Lenin Stalin Mao. Baudelaire Rimbaud Verlaine. Il mondo vuole le triadi: banale dirlo, ma e cosi. Inferno purgatorio paradiso. Tonica caratteristica dominante. Kant Hegel Spinoza. Padre figlio spirito santo.

La vita – anche quella è fatta di triadi. Battesimo comunione cresima. Elementari medie superiori. Moglie marito amante. Sinistra centro destra. Sesso droga rock ’n’ roll. Sesso suino sciampagna. E via dicendo.

Perchè l’uno va bene, interessa, affascina nel suo isolamento solipsistico; ma non combina, non rotola, non interagisce, non crea frizioni, non innesca dinamiche dialettiche degne di nota.

Il due è piatto. Piattume. É l’uno che si specchia e si annulla simmetricamente in se stesso. Il due e la coppia. Bianco nero. Marito moglie. Tv pantofole. Superiore sottoposto. Ufficio casa. Casa chiesa.

Maschio femmina. M’ama non m’ama.

Il tre però è esattamente 2+1, che essendo (pur cosi vicini) opposti, antitetici e ineluttabilmente inconciliabili, messi insieme fanno un’entropia pazzesca. Simile a un legame chimico schizzato. Simile alla settima che Monteverdi osò per primo prendere di salto, facendo incazzare come bestie il papa e i suoi soci.

Col tre la giostra si muove. La dialettica riparte, le combinazioni si moltiplicano, i contrasti rinverdiscono e le gelosie si ravvivano. Il movimento si energizza, i rapporti intrinseci ed estrinsechi riprendono a turbinare con frizzante instabilità. Le alleanze si creano. Le maggioranze

fluttuano. L’effervescenza turbina.

 

Insomma, una gran botta di vita.

 

Non era questo però il caso della nostra triade, che pur condividendo con le altre diversi tratti caratteriali (inconcludenza, grandi ideali impraticabili, simpatie per le sostanze stupefacenti) e biografici (frequente disoccupazione, sottoccupazione, occupazione sottopagata, sottoccupazione sottopagata), non sarebbe mai comparsa su alcun testo scolastico. Anche se a suo modo e in altre circostanze storiche avrebbe potuto combinare qualcosa di buono per l’umanità. Ma questo è un altro discorso, e per ora lasciamolo.

Fatto sta che le energie creative della nostra triade oramai languivano. I cambiamenti sembravano non voler bussare più alle porte delle loro dimore spirituali. Insomma: come per chiunque si sia addentrato nei trenta già da un po’, incombeva il rischio della dolceamara routine esistenziale.

 

Quando – inatteso se pur banale, dolce se pur scontato – un cambiamento giunse.

Anzi, tre cambiamenti giunsero. Uno per ogni componente della nostra triade.

Del nostro trio.

Biffi Conficconi Pazzaglia.

 

 

LA CONTORSIONISTA RIDE (racconti) di ANTONIO G. BORTOLUZZI

venerdì, 24 Febbraio 2012

I TRE CORSARI

Le magliette a maniche corte erano stese sul tavolo della cucina come i corpi dei tre corsari prima di essere impiccati nella Plaza de Granada a Maracaybo: il Corsaro Rosso, il Corsaro Verde e il Corsaro Nero. A dir la verità la terza maglietta era blu scuro e non nera. Mia madre tagliava i fili colorati che sporgevano dalle maniche, e sistemava i colletti: si allontanava e guardava meglio, chiudeva uno dei tre bottoni e passava con la mano aperta sul davanti. Era proprio come se stesse componendo i corpi dei tre corsari.
– Vieni qua, provale – mi ha detto vedendomi impalato alla porta.
– Di chi sono? – le ho chiesto mentre indossavo la rossa.
– Me le ha portate Sonia, dalla fabbrica dove lavora.
La maglietta era un po’ lunga. Come la verde e la blu.
– Queste ti vanno bene anche l’anno prossimo.
– Le hai comprate?
– Me le ha regalate Sonia perché sono difettate.
– Ah.
– Questa ha il collo un po’ storto e questa la manica che tira in dentro, vedi?
– No.
– Ma indosso non ci si accorge. E sono cento per cento cotone – ha detto mia madre.
Non ricordavo l’ultima volta che avevamo acquistato qualcosa da vestire per me. Le maglie, i maglioni, le braghe che portavo, anche quando sembravano nuove, era solo perché erano state portate poco da mio fratello o dai miei cugini.
L’ultima cosa comprata apposta per me erano stati gli scarponcini marrone. Eravamo saliti a piedi su al negozio ed entrati nella penombra e in quell’odore forte e cattivo di scarpe nuove. Le scarpe erano dentro pile di scatole bianche tutte uguali. Prima di farmele provare la signora delle scarpe guardava il numero da lontano e poi metteva gli occhiali. Mia madre invece le chiedeva: Che nome hanno? Che voleva dire: quanto costano? Ogni volta che la signora delle scarpe diceva una cifra mia madre si stupiva, faceva Oeee, oppure diceva Maria Vergine, ma l’anno scorso non costavano così tanto. La signora delle scarpe diceva che era per via dell’inflazione.
Quando il prezzo era alto ma le scarpe le piacevano, mia madre me le faceva indossare e mi chiedeva: come te le senti? È sempre difficile sentirsi, quando te lo chiedono. Io sentivo solo l’odore del cuoio, della gomma, della patina da scarpe. Sentivo che costavano troppo; sentivo che non avevo più voglia di iniziare la scuola: faceva ancora caldo e non potevo pensare che avrei lasciato i sandali per gli scarponcini. Però toccava decidere. Rimanevo lì dritto in piedi a farmi tastare la punta delle scarpe perché sentissero fin dove arrivava il ditone. Mi facevano camminare sul tappetino verde, un passo e mezzo avanti e altrettanto indietro, perché il tappeto finiva subito. Gli scarponcini nuovi per la scuola erano duri come il legno e avevano dei forellini sulla tomaia che parevano ricami. Però non mi facevano un male insopportabile e allora dicevo che andavano bene. Era quasi l’ora di Zorro, e con un po’ di fortuna sarei riuscito a vederlo.

 

 

L’ANATRA SPOSA di MARTA CERONI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Incipit

Per tutto l’autunno del settantasei il fiume non aveva fatto che gonfiarsi, espandersi nella piana delle boschine e ritrarsi succhiando via sabbia nel solco nuovo della corrente.
C’erano state due grosse piene, entrambe a novembre, e tutti i paesi lungo il Po avevano avuto le loro notti insonni. A San Benedetto il fiume aveva rotto l’argine comprensorio durante la seconda piena. Le statali 343 e 358 si buttavano dritte nel fiume e l’asfalto tracciava ormai delle vie subacquee da cui spuntavano ogni tanto i nudi cartelli stradali. Boretto era così diviso da Viadana, e Ragazzola da San Daniele. Poi, dopo settimane di pioggia, era tornato il sole e molti andavano a vedere gli allagamenti all’ora del tramonto, quando la luce stagnava rosa nei pioppeti e i casali uscivano dalle acque ferme in un abbandono silenzioso, come dal contagio di una peste sconfinata.
A Ghiarole, paese di golena, l’acqua era arrivata alle finestre del piano basso di ogni casa e i 622 abitanti erano stati ospitati da amici e parenti o avevano trovato una sistemazione nei due alberghi di Brescello, il “Don Camillo” e “I Platani”.
Al Don Camillo il salone del ristorante non era stato trasformato in un accampamento come ai Platani, dove tra corde, tende e panni stesi pareva di essere alla fiera. Nel salone del Don Camillo di tavoli ne avevano tenuti solo un paio, che erano stati montati uno sull’altro contro una parete. In cima ci avevano messo la televisione. Per il resto avevano lasciato solo delle sedie, messe tutte in fila come al cinema. Così la sera si guardava il telegiornale e si vedeva di altri posti inondati più a nord. Eppure in molti preferivano andare ai Platani a far baccano. Perché là si parlava, c’era aria di festa e qualche sera c’era stata persino la musica. Là l’orchestra che suonava d’estate al Lido aveva portato valzer e mazurche nel cortile ciottolato, anche se l’aria pizzicava, perché suonare al
chiuso, nel salone tra letti e armadi non si poteva.
I vecchi dicevano che sembrava di essere in tempo di guerra, quando non c’era municipio, non c’era scuola che non fossero abitati da decine di famiglie alla volta e anche Palazzo Bentivoglio a Gualtieri pareva un mercato. Adesso c’era chi non avrebbe voluto vedere finire il tempo dell’alluvione, perché tra balli, tressette e tombole qualcuno si era anche fidanzato.
Quella baraonda andò avanti fino ai Morti. Poi, tornati al paese, avevano lavorato tutti per mesi a spalare il pantano dalle stanze basse e a togliere via l’intonaco dai muri per farli respirare da parte a parte.
La domenica, specialmente, in tutto il paese risuonavano i rumori di attrezzi metallici contro il cemento e i mattoni. E nei cortiletti, tutti separati da reti alte quanto un uomo, c’era un gran movimento di badili, picconi e carriole. I cani – ce n’era uno per ogni cortile, così che quando
arrivava un forestiero tutto il paese ne era al corrente – se ne stavano accucciati in disparte, contro i muri o le fascine, o sotto i carri per scampare all’acquerugiola di quell’autunno miserabile.
C’era anche chi non era tornato al paese fino alla primavera seguente, e chi addirittura non s’ era visto mai più. Fanti, che possedeva quasi tutte le terre di Quadra Pazzaglia, era uno di quelli che non erano tornati. Nel voltare di due stagioni aveva perso tutto a Ghiarole: l’estate gli aveva
portato via la sua Adina, lasciandolo vedovo con un figlio in Francia e l’autunno, col fiume grosso nella golena, gli aveva mangiato le biolche da mettere a frumento e erba medica. Così in paese nessuno si era stupito quando si era venuto a sapere che Fanti era scappato a Belluno dalla
sorella. Invece ci fu da ridere quando saltò fuori che di lassù un bel giorno il vecchio Fanti aveva preso un treno per Arma di Taggia. Senza dire niente, perché ormai s’era fatto di poche parole, aveva ascoltato la sorella che gli comandava le cure elioterapiche. Ma nessuno se lo figurava Fanti
a sanare le ossa malconce con l’elioterapia, al sole aperto delle terrazze.
E anche se viveva una vita pacata, di quasi assenza nella noia dei mezzogiorni passati al sole e nei vagabondaggi sul lungomare se la stagione era piovosa, al paese si diceva che giocasse soldi a San Remo e spendesse tutti i guadagni per rincuorare una vedova di vent’anni più giovane.

 

 

L’ESORDIENTE di SERGIO COMPAGNUCCI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Pensai:

Mi sa tanto che non sarà più come prima.

….

E pure mamma la pensava come me.

La trovai due ore più tardi che singhiozzava in cucina, a rimestare nella pentola con il cucchiaio di legno.

Era stato zio Carlo a darle la notizia. Io dopo che loro erano ripartiti in macchina ero tornato dagli altri tre.

«M’ha preso la Fiorentina.»

Gliel’avevo detto senza troppa enfasi, che non volevo sembrare quello che si dava le arie.

«Cazzo, Alberti’, la Fiorentina!» m’aveva fatto invece Michele ritirando le guance.

Sandro e Adriano non avevano detto niente. Cioè, congratulare si erano congratulati, ma con una pacca sulle spalle senza dire una parola.

Rientrando in casa, incontrai babbo in garage − passavo sempre dal ga­rage, perché mamma voleva che le scarpe da calcio le lasciassi lì.

A casa mia le smancerie non andavano proprio. Uno può pensare che non ci volessimo bene, ma non era per questo. Era un fatto d’abitudine. Quando la domenica mattina andavo in cucina per fare colazione e trovavo babbo già seduto che mangiava le fette biscottate con il miele, non gli dicevo “buongiorno, babbo, come stai?”, ma, che so, visto che il barattolo sul tavolo stava vicino a lui, “ba’, passami lo zucchero”. Oppure quando rientravo da scuola, verso l’una e quaranta, e vedevo mamma di spalle sopra i fornelli, le facevo “ma’, che c’è per pranzo che ci ho gli allenamenti?” Lei si girava con il coperchio della pentola in mano e anzi­ché dirmi “ciao, tesoro, com’è andata a scuola?”, mi faceva “Alberti’, perché non mangi un po’ di prosciutto intanto?” E a quel punto ci stava pure che mi risentivo: “Ma’, per favore eh, lo so io che devo mangiare!”

“Eh, lo sai tu, lo sai tu, ma non ci sei rimasto niente, non ti vedi?”

Insomma una cosa così. E infatti ogni volta che vedevo la pubblicità del Mulino Bianco restavo a bocca aperta per un quarto d’ora.

 

 

CACCIATORI DI FRODO di ALESSANDRO CINQUEGRANI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Incipit

E niente più pneumatici, niente smaltimento rifiuti, niente fiore all’occhiello dell’efficienza del florido Nordest, penso mentre percorro i binari della ferrovia, ora dovrei forse contare i passi dei binari della ferrovia che percorro, per dare il senso della mia efficienza, contano i passi quelli che hanno rabbia da vendere, psicolabili, psicopazzi, psicodeficienti che contano i passi per sembrare psicopazzi, ma io non conto i passi mentre percorro i binari della ferrovia, penso mentre percorro i binari della ferrovia, io mi porto al guinzaglio la mia nuvola, una manciata di metri cubi di acerbe espiazioni prese al guinzaglio e percorro i binari della ferrovia, dodici chilometri ho sentito dire, dodici chilometri suppergiù che devo percorrere dei binari della ferrovia per raggiungere la curva troppo stretta e dietro la curva trovare mia moglie sdraiata sui binari che aspetta che il treno venga a farle rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume. Dodici chilometri, dalla casa cantoniera dove siamo andati a stare dopo che è successo tutto, dopo che è finito tutto, che si è smesso di smaltire gomma di pneumatici ai margini della città con pochissime infrazioni al senso di efficienza del nostro florido Nordest, dodici chilometri. Di un binario morto. Mi chiedo ancora ogni volta, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia, se mia moglie, perché Elisa bene o male è ancora mia moglie, e certo che è mia moglie, porco cazzo, mi chiedo ogni dannata volta che percorro questi dodici chilometri di binario morto, ogni mattina, se mia moglie che ogni mattina esce di casa prima dell’alba, con la camicia da notte bianca di prima dell’alba, e percorre nel buio con la camicia da notte bianca mossa dal vento nella notte prima dell’alba e si sdraia con la camicia da notte sul binario morto della ferrovia e aspetta che il treno le faccia rotolare la testa giù dall’argine e nel fiume, mi chiedo se lo sappia che il binario è un binario morto, se lo sa che è uno degli scempi assurdi dell’Italia centralista di Roma e porcodio questo binario morto della ferrovia costruito dentro l’argine del fiume come costruire un grattacielo sulle sabbie mobili da stronzi, mi chiedo se lo sappia mentre aspetta ogni mattina il treno che le butti giù la testa dall’argine e nel fiume, se un fremito la scuota, se pompi il cuore nella testa come un 16, se sbatta se s’incazzi, o se sta zitto, sospeso sulla nuvola al guinzaglio di espiazioni troppo acerbe.

Non conto i passi, ci ho provato perdo il conto, non sono pazzo non lo so, ma passo sulle traversine attentamente come sulle strisce pedonali un altro pazzo, penso mentre percorro i dodici chilometri del binario morto della ferrovia, due ore di buon passo o poco più, e passo sulle traversine dei binari perché i sassi fanno male ai piedi, i sassi della massicciata così alta, nello scempio dell’Italia centralista di Roma del binario dentro l’argine del fiume, penso mentre vado a riprendere mia moglie, fatto con una massicciata così alta, contro le piene del fiume, per uno scempio centralista mafioso, che non ha senso, il fiume, il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il ventiquattro maggio.

 

 

E M’OSCURO IN UN MIO NIDO di MARCO GUALERSI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Un funerale
Incipit

Quella notte sarebbe passata dal villaggio, quella notte avremmo vegliato, quella notte l’avremmo vista anche noi.
Da qualche tempo si erano alzate sommesse delle voci tra le povere case di pastori e contadini. Le voci si erano rincorse per giorni, incerte. Non sembrava vero che avrebbe attraversato anche questo umile paesello.
Ma poi un pastore, una persona fidata, disse che un suo cugino, un macellaio di un paese distante due giorni di cammino, gli aveva assicurato che sarebbe passata anche da questo villaggio: due giorni prima era proprio al paese di questo macellaio. E si dirigeva da questa parte
Se la sua destinazione era, come si diceva, Granada, doveva per forza passare da qui.
Subito i paesani corsero a cercare conferme ed in breve non ci furono più dubbi: sarebbe passata dal villaggio, quella notte.
Quando il sole sarebbe tramontato, avremmo visto anche noi la regina Juana. La Pazza.

Era una notte bellissima, di fine aprile. Un tenue refolo del vento caldo di maggio si insinuava nella fresca aria notturna. Le fronde degli alberi fuori dal villaggio frusciavano lievi, c’era un silenzio carico d’attesa tra le case, un silenzio speciale che si insinuava sotto le sommesse chiacchiere dei paesani. Uno sterminato tappeto di stelle circondava la luna, quasi piena, grande e luminosa.
Non si era parlato d’altro, durante tutto il giorno. Anche ora le voci non si erano placate. Sulle strade polverose, sulle porte delle case, attorno ai tavoli, alle finestre, si creavano crocchi di persone che sottovoce, come se non volessero farsi udire da misteriose orecchie, raccontavano le storie che avevano sentite sulla nobile regina d’Aragona e Castiglia, Juana, la figlia di Isabel e Fernando, i Cattolici.
Alcuni raccontavano cupi che la regina era nata nello stesso istante in cui cento eretici, mori ed ebrei, venivano bruciati sul rogo, proprio sotto alla camera dove vide per la prima volta la luce. Raccontavano, questi paesani, che l’Infanta non pianse, e appena uscita dal reale grembo della nobile Isabel guardò con scuri occhi profondi color nocciola la madre, la fissò con muto e incomprensibile rimprovero. Si diceva che aveva una voglia a forma di croce infuocata sul petto, che non sopportasse la vista del fuoco e che fuggisse spaventata la luce.
Altri paesani sostenevano che crescendo fosse diventata una bambina solitaria e silenziosa, che guardasse tutti con quello sguardo perduto in chissà quali vuote profondità. Inspiegabili riflessi d’ambra brillavano a volte nei suoi occhi. Si diceva che la bambina parlasse con esseri invisibili, che guardasse eventi di mondi inconcepibili. La piccola Juana era una straniera. Nessuno, pareva, osava avvicinarsi a quella perduta lontananza. La balia, le serve, i suoi stessi augusti genitori voltavano la testa di fronte a quello sguardo bieco carico di nulla…