da Binario morto
… Quando arrivammo era pomeriggio pieno e assolato e l’estate non sembrava stare sul punto di agonizzare: ci eravamo riconnessi, stavamo di nuovo insieme e sembrava che i due mesi trascorsi senza Gimmi fossero stati solo una pausa, un intervallo nella nostra amicizia. Ma non era così semplice. Alla stazione una sorpresa: su una biciclettina rosa da bambina, tirata fuori dal garage dopo secoli di giacenza, c’era Michela. “Ragazzi, viene anche lei” disse Gimmi con una voce che non contemplava obiezioni, eppure ogni cellula del nostro corpo si ribellava a quella stortura, a quella forzatura: una femmina, quella femmina nel nostro gruppo, nel nostro clan in cui non avevamo fatto entrare Dino il figlio del giornalaio, lasciandolo come un imbecille tutto il pomeriggio alla stazione ad aspettarci, nonostante lui ci desse sempre i giornalacci che tanto ci piacevano. No. Quella non era una di noi. Indossava dei pantaloncini cortissimi, e rideva serena come un torrente e ci guardava come si guardano degli animaletti strani; si avvicinò a Gimmi e, davanti a noi, lo baciò tenendolo stretto sulle sue labbra per un tempo interminabile, facendo dentro e fuori dalla sua bocca con la linguetta trepidante e diventando rossa, sbuffante, ansimante di sensuale inesperienza. Gimmi pativa, godeva mentre noi guardavamo a terra contando i secondi che scorrevano lenti e cigolanti come quei vecchi treni che ogni tanto passavano e ci sentivamo appesi come burattini a un momento che non era il nostro, da cui eravamo esclusi e in cui facevamo solo la parte delle stupide comparse. Poi il bacio finì e la ragazza ci guardò, sempre sorridendo. Gimmi era fuori di testa, confusissimo, e gli si vedeva il pisello ritto dai pantaloncini molli. Era lei il capo, ora. “Andiamo” disse Michela, ed entrò nella stazione abbandonata passando per il buco che noi avevamo praticato nella recinzione anni addietro, incamminandosi sui binari senza sapere nemmeno la strada e soprattutto senza pisciarci sopra, che era il nostro modo abituale di iniziare le gite alla cava, la nostra inaugurazione quotidiana del viaggio. Stava profanando il nostro spazio e il nostro tempo, e visto che c’era una ragazza nessuno ebbe il coraggio di tirare fuori l’arnesino da poco coperto di peli e liberarsi. Era tutto strano, più strano ancora di quando Gimmi non era con noi. Ci incamminammo in fila indiana dietro il culetto preadolescenziale di Michela, dietro la sua schiena sottile e i capelli bruni che rimbalzavano sulle scapole al ritmo della pedalata. Anche quello era strano. Gimmi si mise subito dietro di lei e noi altri tre chiudevamo il corteo cercando di tenerci in contatto, di far finta di niente, di rimettere in moto la macchina magica dello stare insieme che proprio quel giorno non ne voleva sapere di partire. Ci lanciavamo occhiatacce torve e senza parlare si capiva che quella stronzetta la odiavamo, sopratutto perché era pure carina. Ma era una tipa tosta e nonostante non andasse in bici dai tempi delle elementari arrivò alla miniera fresca come una rosa; lo sforzo anzi le aveva infiammato le guance e imperlato la fronte e le cosce abbronzate di sudore, rendendola ancora più viva, più simile a una mela quasi matura sul punto di essere raccolta. Gettò la bici in terra e il cestino bianco che era appeso al manubrio si staccò e si ruppe, ma lei non ci fece caso correndo verso l’ingresso della cava inseguita da Gimmi che ormai non ci degnava più di uno sguardo. “E chi è quello zombie lì sopra?” Disse con voce squillante e chiara, dissacrando anche il busto per il quale tutti provavamo timore reverenziale. “Doveva essere un padre allucinante…non come te! Tu sarai un padre carinissimo” e sghignazzando passò una mano fra i capelli crespi e sudati di Gimmi, che si faceva manipolare come un gattino sorridendo come un idiota. “Che fate di bello, ragazzi, quando venite qui?…” nessuno ebbe il coraggio di dire “giochiamo a pallone e ci facciamo le pippe”, soprattutto Gimmi che tentò di salvarci assumendo l’atteggiamento indifferente che distingue gli adolescenti dai ragazzini: “Mah…parliamo…leggiamo…questo. Niente di speciale. La solita palla.” Questo ci offese. “Ho capito, ho capito…vi fate le seghe! E’ questo che fate brutti sporcaccioni eh? E ve le fate assieme, in allegra compagnia o avete almeno la decenza di nascondervi?” D’improvviso calò il gelo, Gimmi scoppiò in una risata imbarazzata, un po’ isterica, che non poteva che essere una conferma. “Anche tu, amore?…” lo guardava languida, e lui si scioglieva come un gelato caduto sull’asfalto: “no, no…che ti credi? Non sono mica un piscione come questi qui…” e via un’altro slinguazzamento di mezz’ora. Quando Michela ebbe capito che ci aveva abbastanza in pugno decise di spingersi oltre. Sapeva che nella miniera non eravamo mai entrati e moriva dalla voglia di vedere come fosse fatta, ma soprattutto di vedere le nostre facce terrorizzate dall’essere introdotti nella bocca dell’Ade, nel labirinto del minotauro. Dove morivano i Carusi. Ma la nostra folle Arianna non se ne sarebbe stata fuori ad aspettare: ci avrebbe condotti fino al ventre molle del mistero e poi ci avrebbe lasciati lì, senza filo rosso del cazzo né piantine. Chi ha meno paura è sempre quello che vince, se non muore. Sghignazzando si diresse verso l’ingresso monumentale della miniera, salutando il busto del marchese quando vi transitò sotto: “Ciao ciao bel soggetto…sono sicura che da giovane eri carino…fai il bravo che noi torniamo presto…”. Gimmi si girò per un secondo a guardarci prima di gettarsi all’inseguimento della sua ragazza, della sua vita che scendeva nelle viscere della terra. Il suo sguardo era implorante, diceva ho un terrore folle mi dispiace averla portata ci farà crepare tutti questa ma ora devo andare non posso fare brutta figura, non posso! Gli negammo il nostro appoggio, anche se ne aveva un disperato bisogno. Aveva portato una femmina fra noi. Non poteva passarla liscia così facilmente…
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