Giurie

L’ANATRA SPOSA di MARTA CERONI

venerdì, 24 Febbraio 2012

Incipit

Per tutto l’autunno del settantasei il fiume non aveva fatto che gonfiarsi, espandersi nella piana delle boschine e ritrarsi succhiando via sabbia nel solco nuovo della corrente.
C’erano state due grosse piene, entrambe a novembre, e tutti i paesi lungo il Po avevano avuto le loro notti insonni. A San Benedetto il fiume aveva rotto l’argine comprensorio durante la seconda piena. Le statali 343 e 358 si buttavano dritte nel fiume e l’asfalto tracciava ormai delle vie subacquee da cui spuntavano ogni tanto i nudi cartelli stradali. Boretto era così diviso da Viadana, e Ragazzola da San Daniele. Poi, dopo settimane di pioggia, era tornato il sole e molti andavano a vedere gli allagamenti all’ora del tramonto, quando la luce stagnava rosa nei pioppeti e i casali uscivano dalle acque ferme in un abbandono silenzioso, come dal contagio di una peste sconfinata.
A Ghiarole, paese di golena, l’acqua era arrivata alle finestre del piano basso di ogni casa e i 622 abitanti erano stati ospitati da amici e parenti o avevano trovato una sistemazione nei due alberghi di Brescello, il “Don Camillo” e “I Platani”.
Al Don Camillo il salone del ristorante non era stato trasformato in un accampamento come ai Platani, dove tra corde, tende e panni stesi pareva di essere alla fiera. Nel salone del Don Camillo di tavoli ne avevano tenuti solo un paio, che erano stati montati uno sull’altro contro una parete. In cima ci avevano messo la televisione. Per il resto avevano lasciato solo delle sedie, messe tutte in fila come al cinema. Così la sera si guardava il telegiornale e si vedeva di altri posti inondati più a nord. Eppure in molti preferivano andare ai Platani a far baccano. Perché là si parlava, c’era aria di festa e qualche sera c’era stata persino la musica. Là l’orchestra che suonava d’estate al Lido aveva portato valzer e mazurche nel cortile ciottolato, anche se l’aria pizzicava, perché suonare al
chiuso, nel salone tra letti e armadi non si poteva.
I vecchi dicevano che sembrava di essere in tempo di guerra, quando non c’era municipio, non c’era scuola che non fossero abitati da decine di famiglie alla volta e anche Palazzo Bentivoglio a Gualtieri pareva un mercato. Adesso c’era chi non avrebbe voluto vedere finire il tempo dell’alluvione, perché tra balli, tressette e tombole qualcuno si era anche fidanzato.
Quella baraonda andò avanti fino ai Morti. Poi, tornati al paese, avevano lavorato tutti per mesi a spalare il pantano dalle stanze basse e a togliere via l’intonaco dai muri per farli respirare da parte a parte.
La domenica, specialmente, in tutto il paese risuonavano i rumori di attrezzi metallici contro il cemento e i mattoni. E nei cortiletti, tutti separati da reti alte quanto un uomo, c’era un gran movimento di badili, picconi e carriole. I cani – ce n’era uno per ogni cortile, così che quando
arrivava un forestiero tutto il paese ne era al corrente – se ne stavano accucciati in disparte, contro i muri o le fascine, o sotto i carri per scampare all’acquerugiola di quell’autunno miserabile.
C’era anche chi non era tornato al paese fino alla primavera seguente, e chi addirittura non s’ era visto mai più. Fanti, che possedeva quasi tutte le terre di Quadra Pazzaglia, era uno di quelli che non erano tornati. Nel voltare di due stagioni aveva perso tutto a Ghiarole: l’estate gli aveva
portato via la sua Adina, lasciandolo vedovo con un figlio in Francia e l’autunno, col fiume grosso nella golena, gli aveva mangiato le biolche da mettere a frumento e erba medica. Così in paese nessuno si era stupito quando si era venuto a sapere che Fanti era scappato a Belluno dalla
sorella. Invece ci fu da ridere quando saltò fuori che di lassù un bel giorno il vecchio Fanti aveva preso un treno per Arma di Taggia. Senza dire niente, perché ormai s’era fatto di poche parole, aveva ascoltato la sorella che gli comandava le cure elioterapiche. Ma nessuno se lo figurava Fanti
a sanare le ossa malconce con l’elioterapia, al sole aperto delle terrazze.
E anche se viveva una vita pacata, di quasi assenza nella noia dei mezzogiorni passati al sole e nei vagabondaggi sul lungomare se la stagione era piovosa, al paese si diceva che giocasse soldi a San Remo e spendesse tutti i guadagni per rincuorare una vedova di vent’anni più giovane.