assaggi e critiche

ELISABETTA PIERINI e L’INTERRUTTORE DEI SOGNI

mercoledì, 29 Giugno 2016

ELISABETTA PIERINI

ELISABETTA PIERINI

ELISABETTA PIERINI, nata a Pesaro (1964), vive a Fermignano. Laureata in Chimica e Tecnologie Farmaceutiche, lavora all’Università di Urbino come assistente tecnico. Finalista al Calvino 27 col romanzo Notte, ha pubblicato un racconto sul Corriere della Sera. Ha partecipato a RicercaBo nel 2014 e al dibattito Donne di Penna, Terni 2016.

Finalista al Premio Calvino XXIX e vincitrice con L’interruttore dei sogni (ex aequo con Cesare  Sinatti).

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

L’interruttore dei sogni (titolo di cui vedremo poi il significato) ci tuffa in una delle tante periferie residenziali moderne fatte di villette quasi identiche tra loro dove famiglie mononucleari vivono una vita priva di disagi materiali, ma asfittica e sotterraneamente perturbata. È l’ideale di vita suburbano con le sue strade pulite e le sue linde casette che gli Usa hanno esportato in gran parte dell’Occidente. Ognuno conosce la vita degli altri e ne è curioso, e le amicizie e le relazioni sono condizionate e conformate dalla prossimità. La narrativa e il cinema americani ne hanno fatto un vero e proprio topos, talvolta con tocchi preter-reali come in Ira Levin o anche − e in tal caso con un marcato senso dell’horror − in Stephen King oppure ancora nel cinema di Tim Burton. Tocchi di cui l’autrice fa un uso sottile, appena accennato, e psicologicamente motivabile. La sua protagonista è una bimba di una decina di anni, un personaggio perfettamente delineato sin dallo splendido incipit: “Le bambole erano tutte in fila sullo scaffale della cameretta di Eva. Avevano capelli lunghi, occhi chiari, e sorridevano di nascosto quando Eva le guardava. Gli occhi di vetro mandavano lampi azzurrini che galleggiavano nell’aria come una risata… La signora, la bambola più vecchia, la scrutava con gli occhi severi, occhi che mandavano lampi taglienti. Era esigente con Eva, non sorrideva mai… Eva aveva quasi dieci anni, e ancora giocava con quelle bambole”. La sua famiglia è borghesemente disfunzionale (un colto padre assente, una ex fascinosa madre preda di una sua follia quotidiana). I suoi rapporti più veri e forti, e sono rapporti di parola, sono con le bambole (con “la signora”, in particolare, che le fa da super-ego), con l’immaginario fratello Loris, con un signore, anch’esso immaginario, dotato di una misteriosa valigia, con una gallina nera. Questo mondo si apre, appunto, grazie all’interruttore dei sogni. Aggiungiamo che Eva è un nome antifrastico: Eva è goffa e bruttina − ma è un seducente personaggio. Eva, va detto, ha anche un’amica reale, Laura, che la mantiene in contatto col mondo. Eva è nomade e la vediamo in continuazione percorrere le strade di quel mondo ristretto, avventurarsi nei piccoli giardini ordinati, o anche al di là del perimetro urbanizzato in un pratone dove in un camper vive un outsider (“il professore”), perfetto contraltare degli abitanti delle villette, un vistoso, seppur mite, elemento di disordine, che naturalmente finirà espunto per un crudele gioco di ragazzini. Attorno a Eva ruotano numerosi personaggi, perlopiù coppie, come i Bentivogli (i genitori di Eva), i Felici (i genitori di Laura), i Grossi (amici dei Felici), ma anche il single Nicola Piccoli, Ester (la consunta e materna amante di Aldo Bentivogli), e altri ancora. Gran parte della narrazione è loro dedicata: e l’abilità dell’autrice sta nel farne delle singolarità ben distinte e nitide, pur nel comune quadro suburbano. I vari nuclei familiari, già strutturalmente inconsistenti, finiranno con lo sfaldarsi. Le loro vicende, spesso grigie e anodine, ma non per questo meno produttrici di sofferenza, vengono saldamente tenute in mano dalla narratrice fino al loro umanamente triste, desolato scioglimento. Insomma, un quadro di ordinaria infelicità. Non comune è poi la capacità dell’autrice di rappresentare il mondo infantile e adolescenziale, con i suoi complessi rapporti che spesso sfuggono all’occhio adulto. La conclusione, con il sogno finale di Eva, è di nuovo molto bello: Eva con un playback rimette ogni cosa nel giusto ordine, ma “in una frazione di secondo tutto si disfece”.

La lingua è incisiva, moderna, non senza belle accensioni e correlazioni inedite: “Alma [la madre di Eva] era… stata una persona piena di fascino. Ora quello stesso fascino si accendeva a tratti come una lampadina difettosa”; “Camminava [Eva] buttando un piede in qua e uno in là. Non aveva nessuna percezione del proprio corpo nello spazio. Un grosso uovo senza occhi, senza gambe, senza orecchie: un grosso uovo di carne umana”. Il frequente uso dei cognomi, che potrebbe essere fastidioso, qui risponde a una precisa e realistica logica narrativa: è l’adeguata spia di rapporti sociali ingessati che aspirano alla correttezza. In generale: la parola giusta al posto giusto.

 

UN BRANO PER APPREZZARLA:

“Excipit”

Era notte fonda. Dalle tende scostate Eva vide il pallido cerchio della luna come un viso cancellato e senza espressione: un viso che le era familiare. Il corvo era vicino al suo letto, proprio sul comodino, e dormiva tenendo la testa sotto l’ala nera come sotto le lenzuola. Eva si mise a sedere sul letto e accarezzò il corvo che girò la testa e volò via. Un raggio di luce bianca entrava dalla finestra aperta, sfiorava i capelli della bambina che erano neri e lucidi come le ali del corvo. Eva stese il braccio, che si allungò a dismisura fino a toccare il cerchio diafano: splendeva grande fuori dalla finestra come un’enorme pupilla. In quel momento, tutto là fuori si illuminò: la via e le case, l’una dopo l’altra si accesero e cominciarono a girare su invisibili binari. Le sembrò di sentire una specie di cantilena fatta dal frinire dei grilli, dal miagolio dei gatti e dal canto di alcuni uccelli notturni. La via era piccola e ogni appartamento era come una casa di bambola. Ogni casa si poteva scoperchiare e aprire. A Eva sembrava una giostra meravigliosa, una giostra di case di bambola…

Ogni casa, a guardarla scoperchiata, era piena di polvere di luna, polvere di follia, una polvere grigia che faceva venire cattivi pensieri. Aprì ogni tetto, ripulì ogni cosa, cambiò di posto a ogni bambola. Prese il camper e lo portò indietro nel campo e liberò le galline dalle corde. Le galline si misero a razzolare nel campo.

Eva allargò le braccia e le sembrò di essere coperta di piume d’uccello. Le luci dei lampioni illuminavano la via come grandi zucche gialle: sbocciavano e si spegnevano e sbocciavano di nuovo…

La finestra era aperta e là fuori la sera spalancava la sua grande bocca nera per inghiottirla in un morso. Eva non aveva paura. Osservò le punte degli alberi tremare, contorcersi ma poteva alzarsi più in alto di loro senza difficoltà…

Eva si fece trasportare in alto dalle correnti fino alla pupilla bianca di luna. Si avvicinò all’occhio, lo pizzicò con il suo becco d’uccello e lo spense.

La via scomparve, una casa alla volta, una persona alla volta. In una frazione di secondo tutto si disfece.

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

Angelo Guglielmi

Angelo Guglielmi

Se pure fosse una favola – e come le favole ricca di dolcezza ma tinta di corrosiva asprezza – è il più deciso attacco alla realtà da me conosciuto (in letteratura) negli ultimi tempi. E per realtà non intendo solo le casette a schiera (di origine americana) e la tristezza di chi vi abita, ma insieme l’alienazione sociale, l’abolizione del tempo, il romanzo minimalista, il compiacimento della sociologia e anche la fiaba. Tutto questo viene fatto a pezzi e crolla in una catastrofe definitiva senza proroghe o remissione.

La costruzione del dettato narrativo mostra sapienza e equilibrio e dove più spesso la favola ha per implicito (o alluso) il riferimento realistico, qui le dimensioni (il favoloso e il realistico) sono presenti in alternanza creando un equilibrio che non le mette in contrasto ma ne rafforza le specificità.

Le parole sono scelte con ricchezza di vocaboli e senza mostrare ricercatezze fastidiose.

 

COSA NE HA DETTO PAOLA CAPRIOLO:

Paola Capriolo

Paola Capriolo

Nel variegato e interessante panorama delle opere finaliste selezionate dal comitato di lettura in questa edizione del Premio Calvino, ve ne sono due molto diverse per stile e intenzioni e tuttavia accomunate dal fatto di muoversi in una zona di confine nella quale si mescolano “realtà” e favola, narrazione naturalistica e invenzione fantastica. Si tratta de L’interruttore dei sogni di Elisabetta Pierini e di Branchia della giovanissima Martina Renata Prosperi, premiati dalla giuria rispettivamente con una vittoria ex aequo e con una menzione speciale.

LInterruttore dei sogni racconta la vita quotidiana in un moderno e anonimo sobborgo residenziale, con i suoi drammi esistenziali e psicologici che covano sotto la patina della normalità: casalinghe frustrate, coppie in crisi, adolescenti spietatamente immersi nella logica del branco … insomma, una materia che sembrerebbe addirittura predestinata alla forma del romanzo naturalistico; ma Elisabetta Pierini sfugge a questa ovvia soluzione grazie allo sguardo straniante di un personaggio, la piccola Eva, bambina “difficile”, intelligentissima e disadattata, dotata appunto di una sorta di “interruttore” mentale in grado di trasportarla (e il lettore con lei) in una dimensione fantastica, che è contemporaneamente evasione dal mondo e sua trasposizione nel linguaggio nitido ed esemplare della fiaba: una dimensione in cui le bambole parlano, le figure immaginarie convivono con quelle reali su un piano di assoluta parità e la profonda solitudine di Eva, trascurata da un padre assente e da una madre malata di nervi, incapace di integrarsi nell’ambiente dei coetanei, si trasforma in un fitto dialogo con ombre ora amiche, ora minacciose, la cui presenza sembra costituire l’unico antidoto a quel senso di vuoto che grava su di lei come su tutti gli abitanti del quartiere.

Osservata dal punto di vista di questo “altrove”, che entra continuamente in conflitto con la vita reale ma al tempo stesso la illumina di una luce inattesa, la quotidianità svela per così dire la propria ossatura, la nudità dei suoi significati o, più spesso, della sua insensatezza, in una riduzione all’essenziale che coinvolge anche lo stile, scabro e rigoroso, senza concessioni al superfluo; sino alla bellissima scena finale, una sorta di rêverie notturna, fiabesca e insieme disperata in cui Eva, dopo aver visto il proprio mondo di sogni crollare sotto i colpi della realtà, di nuovo riesce a librarsi in volo sulle ali dell’immaginazione e osserva dall’alto le monotone schiere di villette del suo quartiere come una serie di case di bambola, ne scoperchia i tetti, prova a risolvere i drammi e le contraddizioni che albergano cambiando di posto ai vari personaggi, per poi concludere il gioco spegnendo letteralmente la luce (quella della luna) e lasciando sprofondare quel triste microcosmo nel buio di una nullità irrimediabile: “La via scomparve, una casa alla volta, una persona alla volta. In una frazione di secondo tutto si disfece”.

È l’ultimo, rassegnato scatto dell’interruttore dei sogni, sul quale il romanzo si chiude smentendo, se ce ne fosse bisogno, il pregiudizio che vede nella fiaba un genere “consolatorio”.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

EUGENIO RASPI e INOX

mercoledì, 29 Giugno 2016

EUGENIO RASPI

EUGENIO RASPI

EUGENIO RASPI vive a Narni, dove è nato nel 1967. Per ventidue anni ha lavorato come tecnico specializzato nella più grande fabbrica di Terni, la Acciai Speciali. Dal 2014, al termine del rapporto di lavoro e in attesa di nuova occupazione, scrive storie.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Inox.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

“Arrivano in fabbrica già scazzati, varcano i cancelli rapidi o lenti a seconda se devono o non devono dare il cambio stabilito delle responsabilità e dall’inquadramento. La portineria dell’Acciai Speciali è un’acquasantiera dove tutti intingono le mani per abitudine, portano il cartellino di plastica sotto le testine della timbratrice, una processione in fila indiana, in religioso silenzio.” L’incipit di questo inusuale romanzo ci immette in medias res e, soprattutto, ci fa cogliere immediatamente l’atmosfera che si respira in fabbrica, non una fabbrica qualunque ma la cattedrale industriale di Terni, che è stata fino a tempi recenti uno dei maggiori produttori mondiali di acciai e che ha visto una complessa vicenda proprietaria, per finire nelle mani della multinazionale tedesca ThyssenKrupp (nel romanzo, con uno scarto rispetto alla realtà, la si fa acquisire, plausibilmente, da un gruppo russo). Naturalmente tutto ciò è stato accompagnato da una decimazione della forza lavoro. Terni in realtà non viene mai citata in Inox, ma sono citati con precisione i suoi luoghi, le sue strade, l’incombere dell’acciaieria che costituisce il fulcro tematico e narrativo del romanzo e, insieme, il suo fulcro psicologico ed esistenziale. Tutto questo, tra l’altro, dà vita a una strana, crudele, ironia: la contrapposizione tra la grandiosità materica dei complessi industriali e la fragilità del loro futuro produttivo come quello di coloro che vi lavorano.

Ciò che rende interessante e davvero originale il romanzo (anche rispetto ad Acciaio di Silvia Avallone, il cui focus è l’amicizia tra le due adolescenti Francesca e Anna) è la narrazione della vita in fabbrica (dentro la fabbrica, ma non solo, come diremo), in una fabbrica come l’acciaieria, tra altiforni, fuoco e rischio costante della vita al minimo errore, una fabbrica che è al centro di molte vite, presenza pervasiva che suscita amore e odio. Riuscito l’intreccio tra la vita delle due coppie di fratelli (anche se inizialmente può apparire un po’ schematico e programmatico il dualismo, nella coppia principale, tra Claudio, l’amministratore delegato, e Sergio, semplice operaio, per quanto con un “ruolo di capobranco”, p. 3), con le loro diverse posizioni, con i loro rapporti con la fabbrica, una fabbrica di oggi, in cui le lotte operaie mirano solo al mantenimento del posto di lavoro, in cui c’è molta diffidenza nei confronti della rappresentanza sindacale. Interessante è poi lo sviluppo delle vicende personali dei singoli personaggi, le cui scelte si intrecciano strettamente alla vita in fabbrica. La narrazione è centrata sui due mesi estivi con un epilogo alla vigilia di Natale. Dapprima un incidente in fabbrica, per fortuna senza gravi conseguenze fisiche per i lavoratori, porterà all’ingiusto spostamento di reparto di uno di loro (Giulio, fratello dell’opportunista Matteo − l’altra coppia di fratelli coprotagonista del romanzo) e al licenziamento da parte della cooperativa addetta alla pulizia di un indiano, Kumar, tra l’indifferenza di tutti. Poi le voci della vendita dello stabilimento ad un magnate russo si concretizzeranno, e si arriverà a una ristrutturazione e al taglio dell’organico.

Il pregio del testo consiste nel presentarci una realtà assai poco raccontata dalla narrativa italiana e nella capacità di cogliere il modo in cui operai, persone tra loro diverse, vivono all’interno di questa realtà, le loro storie all’esterno, la famiglia, i sogni di evasione, la centralità che questa fabbrica ha assunto per l’intera comunità. Molto riuscito è anche nell’ultima parte del romanzo il confrontarsi dei personaggi con la morte, sia quella del padre di Sergio e Claudio (nel corso di una manifestazione in difesa dell’occupazione), sia quella di Kumar, una delle tante − ma non per questo meno individuo − vittime predestinate del nostro sistema sociale.

La lingua, scabra e ricca di tecnicismi che arricchiscono la percezione dell’ambiente, non sempre risulta sintatticamente ed espressivamente fluida. Di certo, è congrua alla materia trattata. La narrazione segue un trend realistico, senza particolari guizzi o impennate stilistiche, a parte l’irrompere dell’io dell’autore nei brani in corsivo che aprono le varie sezioni temporali della vicenda, brani che sembrano denunciare una sorta di autobiografismo: “Lì dentro ormai non c’è più posto per me. È la classica storia d’amore che finisce in odio. E di odio io ne ho davvero tanto senza sapere contro chi rivolgerlo”, come si dice nella pagina di apertura.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Arrivano in fabbrica già scazzati, varcano i cancelli rapidi o lenti a seconda se devono o non devono dare il cambio stabilito dalle responsabilità e dall’inquadramento. La portineria dell’Acciai Speciali è un’acquasantiera dove tutti intingono le mani per abitudine, portano il cartellino di plastica sotto le testine della timbratrice, una processione in fila indiana, in religioso silenzio. Trascinano i piedi fino allo spogliatoio per infilarli negli scarponi antinfortunistici, indossano la tuta e raggiungono i reparti come topi d’appartamento dopo il colpo. Prendono strade diverse e si dileguano dietro un angolo con la speranza di farla franca. Scamperanno anche stavolta alla noia che ti usura, all’obbligo che crea repulsione non appena raggiungi l’officina, la sala controllo, l’impianto di abbattimento fumi o di filtraggio di acque reflue in cui dovranno passare le prossime otto ore.

Sergio Asciutti è uno dei tanti dipendenti dell’Acciai Speciali, è caposquadra al Forno 3 e deve presentarsi in anticipo, un turno sfalsato di mezzora che ti costringe a entrare e uscire da solo…Le cifre in rosso dell’orologio segnano le cinque e zero sei. Albeggia eppure è già tardi. Mentre sua moglie Rita gli versava il caffè, le fette biscottate con la marmellata di ciliegie nel piatto, lui dal bagno borbottava sulla levataccia. Lei fra uno sbadiglio e l’altro cercava di tenere la ciocca castana dietro l’orecchio.

«Ecco la tua solita tiritera ogni volta che fai il primo turno. Come se non ci fossi abituato. Sarò stupida, ma non capisco perché devi entrare mezz’ora prima degli altri se lavorate insieme».

Dopo tanti anni lei non ha ancora presente come funziona lo stabilimento.

«Arrivo prima perché nei trenta minuti iniziali mi rendo conto di cosa ci aspetta e mi organizzo, così quando arrivano gli altri so già cosa gli devo comandare. Non è tanto complicato». Spiegato così è semplice, in realtà non è facile domarli. La sua qualifica di intermedio – non è un impiegato e nemmeno un operaio semplice – gli impone il ruolo di capobranco. «Mi sono rotto i coglioni di vederli arrivare uno dietro l’altro come zombi. Ma che gliela devo far venire io la voglia di lavorare?»

 

GIUSEPPE IMBROGNO e IL PERTURBANTE

mercoledì, 29 Giugno 2016

GIUSEPPE IMBROGNO

GIUSEPPE IMBROGNO

GIUSEPPE IMBROGNO, 40 anni, laurea in filosofia. Oggi si divide tra la passione per la scrittura e il lavoro di progettista sociale, il tennis giocato e guardato, i classici russi, Carrère, Stephen King e le serie TV di David Simon. Vive e lavora a Milano.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Il perturbante

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Un romanzo inusuale, suggestivo e moderno, non senza un lieve tocco di misteriosità, il perturbante del titolo, appunto. Il tema è quello della sempre più perfetta tracciabilità delle nostre esistenze. Non c’è più bisogno della Stasi per spiare la vita degli altri. Non ce ne rendiamo conto, ci illudiamo che così non sia, e ciò non fa che accrescere il disprezzo di Lorenzo − l’algido data analyst, protagonista e narratore della vicenda – per l’uomo comune. Per non dire poi dell’induzione programmata dei nostri comportamenti, in particolare d’acquisto: come si sa, la teologia della merce e del consumo ha trionfato senza più ostacoli né remore…

Lorenzo ama osservare gli altri e fare ipotesi plausibili su di essi sulla base dei dati di cui dispone: a ciò è portato dalla professione e dall’indole: “Il mio esercizio è semplice. Il mio esercizio non ha bisogno di strumenti sofisticati o posti particolari… Può essere ovunque o anche da nessuna parte.” A un certo punto Sergio, un elegante manager cosmopolita, diventa la sua ossessione, un modello, anche, da imitare. Lorenzo vuole sapere tutto di lui, si specchia in lui. Con le sue stesse parole: “Questa storia si riduce alla fine a quella di un uomo, e di un altro uomo. Tu e io, Sergio, tu e io” (p. 99). E’ un’attrazione fatale, una fascinazione dai sottesi tratti omoerotici (e narcisistici): peraltro Lorenzo ha le sue (modeste e strumentali) storie di donne, come Sergio è felicemente sposato e felicemente traditore. La singolarità del romanzo sta nel percorso, ovvero negli step, che Lorenzo compie per ricostruire il profilo di Sergio, con i suoi gusti, i suoi hobby, i suoi viaggi, la sua vita sentimentale: per Lorenzo introdursi sotto copertura nei social è un gioco da ragazzi e così raccoglie le prime tracce di Sergio. Dopodiché attraverso la manomissione di badge, tessere, carte di credito, conti correnti, e frequentando la stessa palestra, gli stessi ristoranti, la stessa rete di supermercati, riesce a farsi un quadro completo del personaggio che insegue. L’autore è efficacissimo nel mettere in campo i mezzi che oggi permettono a quella che potremmo chiamare pirateria informatica, più o meno legale, di conoscere tutto di ogni individuo, in fatto di gusti, comportamenti, propensioni (ovvio, soprattutto alla spesa). Lorenzo si compiace della propria abilità di detective digitale fino a sentirsi un dio onnipotente che può intervenire sulla vita degli altri, modificandola, un dio-zelig, però, che vuole identificarsi col proprio oggetto del desiderio: brama persino di fare l’amore come Sergio e nel sonno invoca la sua donna col nome della moglie di Sergio. Alla fine il cerchio si chiude in modo sorprendente: in una città dell’est, Lorenzo finalmente incontrerà Sergio (immaginando il proprio trionfo), ma solo per scoprire che Sergio era stato in qualche modo il burattinaio della sua delirante e insieme lucida ricerca. E così Lorenzo finirà in una clinica svizzera dove già si trova un suo amico caduto in un’analoga trappola: entrambi hanno voluto superare il limite, per motivi diversi, intervenendo – in solitaria autonomia − nell’esistenza dei loro oggetti di osservazione. Sono diventati inaffidabili per i loro capi o, meglio, per il sistema dell’informazione. Sono venuti meno alla deontologia aziendale, alla deontologia del profitto.

Romanzo, come si è già accennato, che rifiuta di attardarsi sul passato, scritto in una lingua rapida, nervosa, precisa, con numerosi intarsi di neologismi tecnici e di marketing. E’ uno sguardo, quello che pervade il testo, da nouveau roman, tutto puntato sugli oggetti, sulle cose, che espunge qualsiasi fronzolo espressivo. L’autore ha saputo affrontare il non facile argomento attraverso una narrazione coinvolgente innanzitutto sul piano intellettuale, ma che finisce con l’esserlo anche sul piano emotivo. La realtà su cui egli ci affaccia perturba e dà le vertigini.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Il mio esercizio è semplice. Il mio esercizio non ha bisogno di strumenti sofisticati o posti particolari. Mi è sufficiente un luogo pubblico. Frequentato, non troppo affollato… Può essere ovunque e può essere anche da nessuna parte.

Oggi mi trovo all’ingresso di un centro commerciale, periferia sud di Milano. Perfettamente consapevole dei danni che il fumo provoca al sistema cardiovascolare e respiratorio, del comprovato aumento del rischio di tumori e di altre patologie letali, aspiro l’ultimo tiro della mia sigaretta, fin quasi al filtro. Poi ho un’esitazione, il grosso cestino di metallo è lontano un paio di metri. Non lo raggiungo. Getto il mozzicone a terra, lo schiaccio con la suola della scarpa. Non disponendo di statistiche precise in merito ritengo plausibile che il 33% delle mie sigarette concluda la sua breve esistenza in un cestino o in altro apposito contenitore. Le altre finiscono a terra, qualche volta in una pozzanghera…

Entro nel centro commerciale.

Mancano pochi giorni a Natale e non ho nessun impellente motivo per essere qui. Devo fare pochi acquisti, soltanto i regali socialmente necessari, confido che il tutto si possa risolvere nelle prossime due sere trascorse a casa davanti al pc. Spero di non incontrare nessun conoscente, sarebbe difficile spiegare le ragioni della mia presenza, anche chi ricorda a malapena il mio nome sa che detesto il Natale. Nel caso, potrei addurre una motivazione professionale… Nel nostro lavoro raramente ci capita di osservare donne e uomini durante i loro comportamenti di acquisto. Quelli che se ne occupano sono spioni, bassa manovalanza dice Normann, noi trattiamo informazioni di diverso genere, in tutt’altro contesto. Il pensiero che qualcuno, qui, ora, possa riconoscermi, salutarmi, mi rende un po’ nervoso e tuttavia decido di non venir meno ai miei propositi, guadagno la mia posizione preferita, raggiungo il piano superiore, una balconata di vetro, plexiglass e cemento, dalla quale si può osservare tutto. Sotto di me donne, uomini, vecchi, bambini e le loro modalità di consumo e di svago. Mi affaccio dalla balconata.

 

COSA NE HA DETTO NIVA LORENZINI:

NIVA LORENZINI

NIVA LORENZINI

Segnalato con menzione speciale dalla Giuria del Premio Calvino 2016, Il perturbante di Giuseppe Imbrogno affronta il tema della spersonalizzazione e clonazione di vite in un mondo, il nostro, sempre più dominato dal potere occulto della tecnologia, che consente di rendere tracciabili le esistenze attraverso l’accumulo e la registrazione computerizzata di dati e informazioni (“Alle informazioni – secondo un leitmotif del romanzo che potrebbe bene figurare come sottotitolo – non si può scappare, scampare”). Inquietante è da subito anche il titolo, che potrebbe di per sé valere come avvertenza al lettore, quasi una messa in guardia circa il contenuto delle pagine che si troverà a leggere.

Sia o no l’Unheimlich freudiano ad averlo suggerito, il “perturbante” si dà infatti, sulla soglia del racconto, come aggettivo sostantivato che indica smarrimento, perdita di contatto, senza che l’autore offra un qualche appiglio per agevolarne la decifrazione (si tratta di personaggio, evento, elemento del racconto? E chi perturba? Chi viene perturbato?). L’ambiguità invade con precisa intenzione l’intero testo fino dal suo avvio, che si articola su un elenco di microracconti, azioni, gesti, incontri ridotti a ritagli, quasi appunti di un vivere consegnato alla nuda registrazione di dati. Ne è complice la scrittura algida, anestetizzata, strutturalmente in linea con la professione del protagonista, un data analyst di nome Lorenzo che decide di applicare le proprie esperienze di tecnologia digitale a spiare le vite degli altri, alienate dal potere occulto che agisce in nome del dominio della merce e del consumo. Ne consegue una precisissima fenomenologia della spersonalizzazione, che riguarda le stesse descrizioni dei luoghi di una città metropolitana, anonima e frenetica, tra cui ci si muove senza contatto e senza dialogo, come subito si riscontra ad apertura di libro:

È giovedì sera, sono in Corso Buenos Aires, non ho niente da fare, niente da comprare. Cammino lentamente, guardo le vetrine, guardo le persone, camminano sul marciapiede, attraversano la strada, entrano ed escono dai bar, dagli store d’abbigliamento. C’è molta gente sul marciapiede, bisogna stare attenti per non urtare qualcuno, esserne urtati, e i negozi sono quasi tutti vuoti.

Il nuovo flâneur, che pare uscito da un quadro di Hopper con quel suo realismo allucinato e malato, non può abbandonarsi agli incontri casuali che affascinavano Baudelaire a passeggio per Parigi: cerca informazioni, registra dati, finalizza tutto a un progressivo riciclo, che lo porterà a identificarsi lungo il racconto con un elegante manager, Sergio, clonandone ossessivamente abitudini e scelte, fino a mangiare come lui, comperare come lui, fare palestra come lui, amare come lui. Va seguita pagina per pagina, riga per riga, la precisissima descrizione di questo percorso di autocastrazione e sovrapposizione, che espunge ogni particolare superfluo dal ritmo di una scrittura in levare, rapida, nervosa, attenta a registrare fino nei dettagli il flusso di eventi minimi che scorrono lungo un esistere eterodiretto. Un realismo di tipo nuovo si va così realizzando sulla pagina: nuovo anche rispetto ai modi del nouveau roman cui pure si potrebbe imparentare per la focalizzazione di oggetti, cose, esatte nella efficace resa descrittiva. Ma al nouveau roman interessava la resa fenomenologica del dato: qui è l’informazione, appunto, a sostituirlo, che depotenzia qualsiasi oggettività in vista di una colonizzazione non solo del sentire ma dello stesso esistere di cose e persone funzionali alle leggi del mercato (“noi produciamo informazioni” – “leggiamo informazioni” – è refrain ricorrente tra le pagine). In evidenza, a quel punto, può restare solo la superficie degli eventi, una superficie senza profondità, senza recuperi memoriali, dove diviene superfluo l’interrogarsi sul senso di ciò che accade e sulla stessa distinzione tra realtà e finzione. Si legge a p. 43 del romanzo:

Sprecare il tempo o addirittura sprecare la propria esistenza sono frasi e concetti che vengono utilizzati unicamente da chi non ha capito come funziona il mondo, quelli che pensano che ci sia in noi qualcosa come un potenziale da realizzare. La realtà dura e deresponsabilizzante è che ci sono solo informazioni da produrre e raccogliere, infinite in un tempo finito, per cui, di fatto, nulla e nessuno si può mai realizzare.

Ma se si arriva nei pressi di quella domanda sul senso dell’esistere, può capitare all’incubo freddo che pervade la trama di trovarsi a un passo dallo svelamento. Certo la realtà su cui il romanzo ci affaccia “perturba e dà le vertigini”, come concludeva la scheda approntata dal Comitato di Lettura per la presentazione del romanzo, richiamandosi a quel titolo che, di pagina in pagina, resta appuntato come un’insegna sul peregrinare anonimo di personaggi in transito tra supermercati, ristoranti, palestre, sale di cinematografo, i non-luoghi dello spazio urbano che si percorre in perfetto isolamento. Ma poi lo sviluppo diegetico, attentamente controllato e pilotato, trascina con sé l’attesa di uno svelamento cui si accennava, che sfocia alla fine in un colpo di scena, punto di arrivo per molti aspetti inatteso della quête che non espunge richiami alla grande tradizione del romanzo modernista europeo, tra cliniche svizzere e sanatori che esorcizzano, da Thomas Mann in poi, le problematiche del progresso, attualizzando insieme l’alienazione dell’Homo faber di Max Frisch verso esiti da terzo millennio. E in una clinica svizzera, per l’appunto, finisce Lorenzo, punito, con la complicità e la responsabilità del suo stesso alter-ego, quel Sergio in cui si era pienamente identificato per aver travalicato le regole del suo incarico, interferendo nella vita del suo oggetto di osservazione. Non ammette deroghe la deontologia del mercato: questa, da ultimo, la morale della favola.

MARTINA RENATA PROSPERI e BRANCHIA

mercoledì, 29 Giugno 2016

MARTINA RENATA PROSPERI

MARTINA RENATA PROSPERI

MARTINA RENATA PROSPERI (1992) è cresciuta tra la provincia di Milano e il borgo lunigianese di cui è originaria. Laureatasi a Venezia in Lingue, culture e società dell’Asia Orientale, si divide ora fra l’Italia e Taiwan, ultimando gli studi magistrali con una traduzione di leggende aborigene.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Branchia.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Un testo di grande interesse, scritto con compiuta maestria stilistica (come già di per sé rivela la sinossi redatta dall’autrice), giocato su due tavoli diversi ma funzionalmente correlati. Da una parte Branchia (che non ha polmoni e vive in una vasca) con il piccolo mondo della piscina che gli ruota attorno; dall’altra Ginevra che ha avuto la pesante eredità di organizzare e completare gli appunti di Jacob, suo compagno di liceo morto di recente (e Luca la aiuta nell’impresa): perché Branchia è un personaggio letterario, ideato da Jacob, e con lui lo sono i gemelli Gabriel e Giulia e la loro madre Marie, l’allenatore, lo psicologo, ecc.

Una struttura complessa e di complessa gestione (i personaggi, sia nella dimensione “reale” che nella dimensione “finzionale” sono numerosissimi), volta a raccontare due simmetrici amori impossibili (quello di Branchia per Giulia, gravemente cardiopatica, e quello di Ginevra e Luca) e, soprattutto, ad affrontare una serie di rilevanti nodi problematici, come l’anoressia e il rapporto con il corpo (o, meglio, con l’imperfezione e i limiti del corpo), la malattia, le relazioni conflittuali e ambigue tra fratelli, la difficoltà di gestire il proprio essere madre.

È un mondo affascinante, quello costruito dall’autrice, prevalentemente acquatico (piscina, pioggia, mare) in entrambe le dimensioni, e questo tratto contribuisce a unirle sottilmente, sotto traccia.

Il tavolo più realistico, quello sul quale giocano Ginevra e Luca, ha momenti di grande scrittura. In particolare i capitoli 8 e 10 meritano di essere segnalati, ricchi come sono di brani ottimamente calibrati: esemplare, tra gli altri, il cambio di tema coordinato con la canzone trasmessa dalla radio. Quello più magico della piscina è costellato di rapidissime descrizioni che fanno percepire l’odore del cloro: un gran senso della luce rifratta, come già nel primo capitolo quando Ginevra si irrita con la madre che cucina quasi al buio. Molto bello tutto il piccolo mondo acquatico, e lo stesso va detto dei suoi confini: gli spogliatoi, le tribune…

Branchia che cresce, che diventa adulto, che sogna di fare il coreografo di rutilanti spettacoli di nuoto sincronizzato, è un personaggio struggente, con la sua solitudine, la sua diversità, la sua umana curiosità e il suo bisogno di amore e di amicizia, con il suo stesso ambiguo oscillare tra bene e male, tra bisogno di amore e di vendetta. Anche l’altro personaggio centrale, questa volta nella dimensione “reale”, Ginevra è assai ben tratteggiato, con le sue insicurezze, le sue ostinazioni, il suo rifiuto dell’ovvio. Respinge Luca (si oppone quasi con ribrezzo al suo tentativo di bacio) senza un perché sentimentale ma con un saldo perché psicologico: per Ginevra “il corpo è un ostacolo”, è quasi anoressica − “lo stomaco è l’inferno che porto dentro”.

Alla lingua, fatta di suggestioni e di sparsi guizzi liricizzanti, si accompagna un abile montaggio alternato delle due storie che compongono la trama, con cambi continui di focalizzazione nelle singole scene e tra un paragrafo e l’altro. Da questo, oltre che dallo stile, si intuisce che chi scrive è una lettrice attenta di Virginia Woolf, cui si rende peraltro più di un omaggio (come, in filigrana, con «la stanza di Jacob»). La struttura rincorre così la simultaneità; la lingua invece le voci, le luci, i riflessi e le superfici.

Quanto al titolo ricorda certo quello del romanzo di Ammaniti, Branchie, cui forse l’autrice per qualche verso si è ispirata, ma gli sviluppi e i temi sono tutt’altri e decisamente originali.

 

UN BRANO PER APPREZZARLA:

“Branchia e Marie”

L’acqua vibrò, e il corpo di Marie cadde nella vasca, e Branchia lo vide, e il corpo iniziò ad affondare…

La camicia bianca si era gonfiata, una nuvola di lino… La sua pelle era trasparente, si vedevano le vene vicino alle orecchie, e filamenti d’anima sotto le palpebre. E una catenina d’oro, tra le efelidi del collo. E un reggiseno rosa chiaro, o forse azzurro, con margini ricamati che non stringevano più. Perché l’acqua libera, pensò Branchia, l’acqua scioglie. E nell’acqua Marie sembrava un’altra creatura, svincolata dalla vita…

Branchia nuotò piano. Come un delfino, le passò a fianco. La osservò lateralmente, con un solo occhio…

Il corpo di Marie affondava. Creava un vuoto, trascinava nel vuoto.

E come per le pietre, come per le grotte, come per le conchiglie disabitate, c’era una linea sottile tra la bellezza di Marie e la sua presenza. Quel corpo c’era, quel corpo affondava, quel corpo si slacciava dalla vita, perché era meraviglioso.

C’era una linea sottile tra il volerlo toccare e il volerlo salvare.

Sarebbe meraviglioso, pensò Branchia, spogliarla con le carezze, guardarla dormire sott’acqua, riempirmi gli occhi della sua pelle morbida, dei suoi capelli lunghi, che spostandosi disegnano segni, e poi abbracciarla, e averla con me, solo per me…

Il corpo di Marie percosse dolcemente le mattonelle azzurre.

A Branchia sarebbe bastato lasciarla, su quel fondo. Lasciarla andare, ad abitare il suo mondo, fatto d’immaginazione, di persone che possedevano sia le branchie sia i polmoni, di incantesimi fatali, snocciolati al crepuscolo o all’aurora, quando la luce sulla vetrata trasmetteva spettacoli da altrove.

Branchia nuotò accanto a Marie, nuotò sopra i suoi jeans. Li sentì, ruvidi, contro il suo sesso duro. Nuotò nella nuvola di lino, vicino ai capelli castani, che si alzavano a ciocche, e si aprivano a ventagli, in filamenti di marrone. Le mani. Le mani di Marie erano già lontane…

Branchia pensò che quelle dita non avrebbero più potuto accarezzare, né disegnare, né seguire le parole sul libro delle fiabe, né portare il vassoio con la merenda, e un sorriso sopra, e una promessa: quella unica e imperdibile, di una madre.

 

COSA NE HA DETTO PAOLA CAPRIOLO:

Paola Capriolo

Paola Capriolo

Nel variegato e interessante panorama delle opere finaliste selezionate dal comitato di lettura in questa edizione del Premio Calvino, ve ne sono due molto diverse per stile e intenzioni e tuttavia accomunate dal fatto di muoversi in una zona di confine nella quale si mescolano “realtà” e favola narrazione naturalistica e invenzione fantastica. Si tratta de L’interruttore dei sogni di Elisabetta Pierini e di Branchia della giovanissima Martina Renata Prosperi, premiati dalla giuria rispettivamente con una vittoria ex aequo e con una menzione speciale.

Branchia è un libro di grande fascino, e anche di grande complessità. Il fascino è dato in primo luogo dallo stile: una prosa poetica, ritmata da un sapiente gioco di ripetizioni; la forza delle immagini, che sorprendono e al tempo stesso colpiscono il lettore per la loro insospettata esattezza, come avviene appunto per le autentiche immagini della poesia. Credo che Martina Renata Prosperi possieda davvero quel dono che Gottfried Benn definiva “rapporto primario con la parola”, un istinto quasi tattile, rabdomantico, che fa di lei una scrittrice nata; e che possieda, soprattutto, una straordinaria capacità di guardare le cose: di coglierle nella loro realtà e insieme di sottoporle a una metamorfosi, a una trasfigurazione espressiva che ne amplifica i significati come in un’eco o in un gioco di riverberi e costituisce, molto più degli elementi antinaturalistici presenti nella trama, il vero aspetto “fantastico” della sua scrittura.

La complessità è appunto quella della trama: una costruzione ambiziosa, che intreccia diversi piani narrativi e sovverte con ardite mescolanze la scansione temporale. Il romanzo si apre con una scena apparentemente naturalistica: una donna, Marie, che si affaccenda ai fornelli della sua cucina, l’arrivo del figlio adolescente Gabriel, il dialogo tra i due nel quale si allude a un’altra figlia, Giulia, e anche a uno strano ragazzo di nome Branchia: una creatura senza polmoni, che vive immersa nell’acqua della piscina dove Marie lavora come insegnante di nuoto. Nel secondo capitolo scopriamo che Marie, i suoi figli, il misterioso Branchia, sono semplicemente i personaggi di una storia che altri due personaggi, Ginevra e Luca, appartenenti al cosiddetto mondo reale, stanno cercando di scrivere basandosi sugli appunti lasciati da un ex-compagno di liceo scomparso tragicamente.

Un metaromanzo, dunque; ma credo che questa etichetta renda solo in parte il senso profondo del libro. Parlerei piuttosto di un romanzo di formazione, che ha come protagonista la ventenne Ginevra, incerta sulla scelta dell’università e tormentata da un rapporto conflittuale con il proprio corpo (ma più essenzialmente con il tempo, con la caducità), e il cui percorso si riflette come in uno specchio ora deformante, ora rivelatore, nella storia che la ragazza stessa va elaborando di pari passo con la sua vita quotidiana.

Potremmo dire che il romanzo narra la vicenda parallela di due nascite: quella impossibile di Branchia, che non potendo respirare è destinato a rimanere per sempre nell’acqua, evidente metafora del grembo, del liquido amniotico, e quella travagliata di Ginevra come scrittrice (perché il Bildungsroman, qui come in tanti casi illustri, ha in fondo come oggetto la scoperta di una vocazione letteraria). Del suo faticoso divenire, Branchia rappresenta l’incarnazione fiabesca e pateticamente negativa; una sorta di alter ego, in un libro nel quale i personaggi sono tutti, in una certa misura, alter ego gli uni degli altri su diversi piani di realtà, o di irrealtà, a gradi diversi di quella “malattia” di fondo che li accomuna e che potremmo forse definire come incapacità di vivere.

Ma viene spontaneo sospettare che il gioco di specchi non finisca qui; che a questo gioco orizzontale di rimandi di cui sono innervate le pagine di Branchia si aggiunga un asse verticale, perpendicolare, tra la protagonista e l’autrice. Ginevra, dice a un certo punto il suo amico, è una che “non può mai essere solo Ginevra, che deve sempre trovare qualche metafora di sé, come se il suo legame con il resto fosse evidente e imprescindibile, e quasi cromatico – corporeo, si direbbe – prima ancora che intellettuale” (202). Se la prima parte di questa descrizione si attaglia forse a qualsiasi scrittore, la seconda mi sembra una consapevole definizione del modo peculiare in cui la scrittrice Martina Renata Prosperi vive il proprio rapporto con il mondo attraverso la parola.

ALESSANDRO CALABRESE e T-TRINZ

mercoledì, 29 Giugno 2016

ALESSANDRO CALABRESE

ALESSANDRO CALABRESE

ALESSANDRO CALABRESE, nato a Carpi nel 1991, sta conseguendo la laurea magistrale in Italianistica e Scienze Linguistiche a Bologna. Lavora come allenatore di rugby in una scuola media e stagionalmente nell’azienda agricola di famiglia. La scrittura da sempre è per lui una valvola di sfogo rispetto alla teoria letteraria.

Finalista al Premio Calvino XXIX con T-Trinz.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Con T-Trinz ci troviamo in un genere ampiamente praticato dalla narrativa contemporanea, quello delle bande urbane giovanili. Ciò che distingue e fa emergere tra gli altri questo romanzo è la scrittura dalla straordinaria valenza ritmica, che segmenta l’azione in brevi scatti nervosi e sembra voler incarnare quel “presente lucido e immediato” (p. 28) che per i Thanatos, i ragazzi del T-Trinz è l’unica dimensione sensata. Storia ben costruita, ben condotta, con un’apertura accattivante sulla scena di massima tensione e il rimbalzo veloce al flashback. Sembra esserci un senso del tempo e del montaggio decisamente cinematografico, in particolare in certe sequenze di rapidi stacchi che inseguono contemporaneamente le vicende di più personaggi.

L’azione si svolge fondamentalmente al T-Trinz, un edificio abbandonato che l’amministrazione locale non ha immesso, per incuria, nei suoi programmi di riqualificazione ambientale e urbana. Lasciato andare in malora nella periferia imprecisata di una cittadina dell’Emilia (luogo topico di tanti romanzi analoghi), è la roccaforte della compagnia del Biondo, l’unico liceale del gruppo, al quale deve il suo nome: “T”, per “Thanatos”, è la loro iniziale, un capriccio classicheggiante anche se ampiamente riciclato nelle culture metropolitane, e “Trinz” sta più o meno per tranquillo nel gergo dei giovani dei dintorni. Insomma T-Trinz è la vera casa dei Thanatos, lontano dal controllo delle loro famiglie spesso disfunzionali, un luogo dove possono rilassarsi a modo loro.

I Thanatos sono Mimmo, Ste, Alle, Dada, Golia, Macco, Cris e naturalmente il Biondo. Adolescenti in attesa di nulla nel tempo senza scuola fra agosto e settembre, a metà degli anni zero del duemila. Le canne al parco, i giochi a rotta di collo con lo skate o la bici, le bravate, le prove di teppismo con destrezza fra le auto parcheggiate. Attorno a loro ruotano gli altri gruppi, i punk, i metal, i dark, in una topografia delle appartenenze disegnata fra i prati e i muretti del periferico parco cittadino. Sullo sfondo la musica, che cuce ogni capitolo del racconto al verso di una canzone rock o metal, la musica che suonano e ascoltano diversi i personaggi. Delle loro vite annidate nell’indifferenza e perennemente affacciate sui guai il racconto ci consegna ritratti credibili, perché abitati da ambivalenze e paure, e talora perfino struggenti (Mimmo inghiottito dal caos, con gli affondi lancinanti sul suo inferno domestico). Il capobanda, il Biondo, che scopriremo identificarsi almeno in parte con il narratore (e ci sta benissimo quella inaspettata uscita in prima persona a p. 60, che ha appunto tutta l’impertinenza del personaggio) è il legante della compagnia e l’anima della storia: regge l’una e l’altra perché a differenza di quasi tutti gli altri ha un suo codice, semplice ma non rudimentale, e sceglie un finale che è insieme il congedo da una stagione che si chiude e la sua estrema celebrazione. Il Biondo ha costruito un mito e lo distrugge, quando percepisce che esso ha perso di senso. Le fiamme bruciano l’edificio e bruciano, insieme, almeno così si vorrebbe, il ricordo. Il Biondo è una sorta di grande Gatsby metropolitano, lucido nella costruzione di un sogno, nel quale lo chic, il glamour sono sostituiti dalla desolazione dei nostri tempi (bellissimo, in proposito, è il pezzo sulla noia a p. 28: “I Thanatos… ci sguazzano nella noia… non hanno problemi di tedio. Basta rimanere privi di progetti per il futuro… Basta essere semplici e farsi poche domande”).

Non del tutto persuasiva risulta l’ideologia dell’eroe, ovvero degli uomini “veri” e degli uomini “finti”, che il narratore riflette sul Biondo (p. 126 e altre). C’è troppa ambigua identificazione, sia pur finzionale, tra narratore e protagonista. E qui il narratore sembra cadere in un’apologia dell’eroe solitario, del giustiziere che fa giustizia a suo modo, tanto diffusa nei romanzi di genere, che rischia di porsi come un’apologia di lui stesso.

La scrittura, come si è già accennato, è rapida, pertinente, con un ricorso controllato a termini di gergo quali “giolla”, “cinno”, “porro”, “poser”.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Il Biondo era fermo immobile. Aveva sedici anni ed era fermo immobile. Avvertiva quel tremolio alle gambe, ma non aveva paura. Era concentrato a rallentare i battiti del cuore. E mentre pensava, il tempo avanzava lento.

Qualcuno gli aveva insegnato che era tutta una questione di testa, la paura. Si trattava di una scelta. Per eseguire un buon placcaggio, o per romperne uno, per avanzare verso la linea di meta senza eseguire deviazioni inutili, per non perdere terreno di gioco, era necessaria, prima ancora della tecnica, la volontà; spezzare l’impatto emotivo del contatto, eliminare il blocco affettivo che ci spinge a evitare ciò che potrebbe costituire dolore fisico; agire, operare una scelta, e farlo nel minor tempo possibile.

Dunque, se un uomo corre verso di te a gran velocità tu non devi scegliere di fermarti, non rallentare. Se deciderai di avere paura rimarrai bloccato e l’uomo ti travolgerà e sentirai dolore. Se scapperai, lui ti raggiungerà e tu avrai perso terreno e sentirai dolore. Se avanzerai verso di lui, invece, avrai scelto di non avere paura, avrai scelto bene. Spezzerai il blocco emotivo e con ogni probabilità non sentirai dolore…

 

Ora hai scelto di non avere paura e stai correndo forte perché, fanculo, se mi vieni addosso non starò qui ad aspettarti. E una volta operata la scelta, quando il tempo scorrerà più lento, allora avrai modo di massimizzare le tue prospettive future: evitare l’uomo? Scontrarti e misurarti con lui? Andare più forte e tentare di abbatterlo? Fare in modo che sia lui a provare paura e a bloccarsi?

Il Biondo stava fermo, pensava a tutto questo e, quando il cuore fu calmo, vide finalmente davanti a sé le possibilità che sono concesse a chi non ha paura, a chi ha scelto di correre. Ma innanzi a sé non aveva la linea di meta, ma la canna della pistola che Sandro, il tossico, gli puntava contro.

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

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Angelo Guglielmi

Notevole capacità di scrittura, frasi brevi e veloci seguendo i ritmi della musica rock.

Banda di sedicenni che forse come altre, ma più decisamente, si definisce non tanto per un’operatività delinquenziale quanto per affermazione esistenziale. Più che qualche atto di vandalismo, il massimo della loro trasgressività è occupare l’ex direzione delle tranvie milanesi e lì chiudersi al riparo dalla curiosità degli altri (gli “uomini finti”) a vivere la loro vita diversa. E lì si picchiano, corrono, giocano a rugby, gareggiano e sono loro stessi i protagonisti e i terminali delle loro scelte violente. Il loro capo è il Biondo, un bel ragazzo con quel tanto di divinità (e divinazione) che caratterizza gli eroi classici.

Straordinario e definitivo il capitolo della festa in Villa dove per il tradimento di un amico finalmente i Thanatos si scontrano con la banda dei Punk, si innesca una serie di inaudite violenze e la situazione precipita definitivamente.

Ma il momento preciso della deflagrazione è quando il Biondo di fronte alla mira di una pistola scopre di avere paura. A questo punto prende corpo in lui la consapevolezza che tutto il mondo è uguale, non ci sono differenze, e la diversità perseguita dalla banda di cui è capo va in frantumi. Se è così, i Thanatos non hanno ragione di esistere e la loro sede appartata deve essere distrutta. Il romanzo finisce così con lo spettacolare incendio di T-Trinz, con la sua polverizzazione, cui gli ultimi dei Thanatos e il Biondo assistono con superbia, ma anche con malinconia, da una lontana terrazza.

ALESSANDRO PIEROZZI e LA SERRATA

mercoledì, 29 Giugno 2016

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ALESSANDRO PIEROZZI

ALESSANDRO PIEROZZI (Roma, 1941), di famiglia operaia, a ventun anni entra in fabbrica. Militante della Fiom CGIL, nel 1974 viene chiamato a far parte della segreteria della Fiom provinciale di Roma, per poi passare al Regionale. Conclude il suo iter sindacale a Pomezia. Nel 2001 va in pensione. Da sempre amante dei libri e lettore accanito, si dedica alla scrittura.

Finalista al Premio Calvino XXIX con La serrata.

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Opera popolare, potremmo dire neo-neorealista, animata da un empito felicemente romanzesco che non si preoccupa di nascondersi o travestirsi da qualcos’altro, La serrata rimanda nel titolo alla chiusura di una fabbrica metalmeccanica della capitale, l’O.M.A., a cui sono legati i destini di molti personaggi del libro, ma è ambientata prevalentemente nel caseggiato di via Rossellini numero due, lotto sessantanove, nel quartiere romano di Testaccio, e ha per protagonisti i suoi abitanti nell’immediato secondo dopoguerra (la vicenda principale si svolge nel 1949, l’anno successivo alle elezioni del 18 aprile 1948 che segnarono il trionfo della DC, all’attentato a Togliatti, anno in cui era ministro dell’Interno Mario Scelba con la sua famigerata celere).

Se vogliamo trovare un ascendente, un ispiratore, lo potremmo individuare in Pratolini e nelle sue Cronache di poveri amanti, cui del resto allude piuttosto esplicitamente la sinossi dell’autore facendo l’occhiolino alle parole che introducono l’omonimo film di Carlo Lizzani. Altre allusioni all’epoca venate di ironia (allusioni che stemperano la mimesi neorealistica) percorrono il romanzo. Basti pensare alla scelta di collocare l’azione nel caseggiato di una immaginaria (allora, e al Testaccio) via Rossellini, con rimando al regista di Roma città aperta, altra canonica opera di quell’aura.

Pur non mancando di aspetti drammatici, l’atmosfera del romanzo è fondamentalmente da soap opera (ovviamente popolaresca) o, per avvalersi di un paragone congruente con quegli anni, da fotoromanzo. Così si spiegano i molti tratti che, di primo acchito, possono parere eccessivi della narrazione: donne tutte bellissime, colpi di fulmine irresistibili come una cannonata in rete (Marcellino Solara, detto Schizzo, per Rosalba), passioni e tradimenti, comunisti dallo sguardo di ghiaccio. Gli stereotipi in tale genere sono inevitabili e necessari. Ma pur in questa cornice l’autore sa creare caratteri memorabili, tutti quelli cui sono dedicate le diverse sezioni del libro (Giovanna, Vergilio, Rosalba, Anna e Primo), ed altri ancora come l’innocente marito di Rosalba, Romano Caputi detto Ercolino, o, invece, il violento senza remissione marito di Giovanna, Antonio Pellicciari. Ma il personaggio che campeggia su tutti è quello di Giovanna, che fin dall’inizio entra mirabilmente, sontuosamente, in scena: “Litigiosa. Prepotente. Aggressiva. Così era Giovanna. Sempre pronta a fare a botte. In fontana, in terrazza, in cortile”. Un carattere a tutto tondo, non privo di tragicità, un’atleta mancata, che si scatena a giocare a pallone con i ragazzini, ma che accetta con dignità e ostinazione, ruoli che non sarebbero suoi, quelli di madre, di moglie, di lavandaia: è la regina del palazzo, dotata di un suo acuminato senso della giustizia. L’ambiente poi del lotto sessantanove e di tutto il rione è descritto tanto vividamente e minuziosamente da far pensare che l’autore del romanzo abbia vissuto davvero in un autentico caseggiato popolare romano del dopoguerra, in cui il fulcro delle relazioni e dei contrasti tra donne era nei lavatoi posti nel cortile (oppure anche in terrazza, con suggestivo rimando a Una giornata particolare di Scola), come per gli uomini che lavoravano era la fabbrica e, per gli altri, il bar.

Un romanzo, insomma, assolutamente godibile, sorretto da un stile adeguato, dotato di un buon ritmo (alternando abilmente comico e melodramma), anche quando, talora, ricorre a una prosa ricercata, lievemente desueta. Ma non mancano le ombre, dovute, in linea di massima a una proiezione non ben controllata sul secondo dopoguerra di linguaggi, situazioni, costumi successivi. Soprattutto poco plausibile è il pezzo sull’occupazione della fabbrica che chiude il romanzo: tutto sembra qui rimandare a situazioni degli anni settanta, a partire dalle linee di montaggio che al tempo non esistevano, ai troppo liberi costumi sessuali di operai e operaie (eccessivamente numerose in una fabbrica metalmeccanica, pur se si è nel dopoguerra), per non parlare dell’improbabile donna ingegnere e sindacalista. Altro appunto va alla terminologia usata nel dialogo fra donne di p. 13: “frigida” e “mi bagno tutta” non sono certo espressioni d’epoca. Nulla, comunque, di inemendabile.

Detto questo, si ribadiscono la tenuta e la capacità di coinvolgimento del testo, che per la sua coralità e il suo impianto può forse avvicinarsi al ciclo dell’Amica geniale.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Litigiosa. Prepotente. Aggressiva. Così era Giovanna. Sempre pronta a fare a botte. In fontana, in terrazza, in cortile. Se nel lotto Sessantanove di via Rossellini numero due, a Testaccio, si accendeva una lite, si alzavano voci, si scatenava una zuffa, la gran parte delle persone diceva, è quella matta di Giovanna. Non sempre, ma spesso ci azzeccavano.

Il marito, Antonio Pellicciari, la menava. Di brutto. Lo sapevano tutti. Tre quattro volte l’aveva mandata all’ospedale. A parte qualche distinguo, come quello di Anna e Primo – è un delinquente – in via Rossellini numero due – un migliaio di abitanti, quattordici scale – sostenevano comprensivi che non c’era altro modo per tenerla al suo posto. Di mestiere Giovanna faceva la lavandaia, e aveva due figli. Due maschi, Vittorio e Valerio. Di loro non è che se ne curasse granché. A loro pensava la nonna, la sora Elvira, la madre del marito.

Giovanna in ogni stagione indossava una vestaglia poco sotto il ginocchio, e un paio di zoccoli. D’inverno sulla vestaglia portava un maglione fatto in casa, e ai piedi un paio di calzettoni da uomo. Dalla vita sottile di Giovanna, stretta da una cintola di stoffa, scendevano fianchi snelli conclusi da due glutei rotondi come meloncini. Specialmente d’estate, la vestaglietta di flanella ne rilevava senza difficoltà il gioco dei muscoli che il suo andare scattante accentuava. Stranamente avevano poco di erotico…

Giovanna si muoveva su gambe smisurate, e il collo inarcava da spalle grandi ed eleganti dal quale la testa, lievemente piegando a sinistra, guardava intorno senza guardare. Molto più alta della media, si muoveva con una tale grazia coordinata che l’altezza notevole le scivolava d’addosso, e allo sguardo rimaneva soltanto l’impressione di un’armonia nervosa e un po’ selvaggia, come quelle puledre che si vedono al cinema o al circo, e che ti facevano sembrare sempre pericolosamente pronte allo scarto. Con la differenza che Giovanna altroché se scartava, ricordano Anna e Primo. Per questo non era simpatica. Alle donne perché la sentivano estranea. Agli uomini perché sterile di ogni messaggio di disponibilità sessuale. A tutti e due perché era prepotente e sfacciata. Sboccata, con mani e lingua sempre pronte.

CESARE SINATTI e LA SPLENDENTE

mercoledì, 29 Giugno 2016

CESARE SINATTI

CESARE SINATTI, nato a Fano nel 1991, si laurea in filosofia a Bologna nel 2013 con una tesi sull’immortalità dell’anima nel Fedone. Attualmente sta terminando il corso magistrale in Scienze Filosofiche nella stessa università. Ha trascorso un anno di studi all’Università di Chicago.

Finalista al Premio Calvino XXIX e vincitore con La splendente (ex aequo con Elisabetta Pierini).

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Prova straordinaria di un giovane autore che rivela una conoscenza profonda della mitologia, dell’epica e della tragedia greca. Ciò che sorprende in questo inusuale romanzo è la capacità di far rivivere in maniera originale personaggi che sembravano per sempre fissati in una certa icona, in un profilo marmoreo, come Elena, “la Splendente” del titolo, come Achille, Ulisse, come Paride, come Patroclo, Agamennone, Menelao, come Penelope e Clitemnestra o di riprenderne altri meno noti come Palamede o Epipola (un’antesignana di Clorinda). Far rivivere e rimodellare, pur tenendo conto delle fonti anche meno note (tra cui Ditti Cretese, Darete di Frigia, Quinto Smirneo probabilmente, e tanti tanti altri). Con una scelta personale forte, l’autore sceglie episodi dall’epos omerico e extraomerico, alcuni anche poco noti ma documentati, e li cuce con libertà e rigore in una ricostruzione di affascinante bellezza. I caratteri dei personaggi – i nomi eccellenti del mito, e altri poco rimasti più che citazioni nelle biblioteche classiche – vengono ricostruiti in termini di grande freschezza, con un’originalità mai forzata e invece psicologicamente (e miticamente) coerente. I fatti, o quelli che possiamo definire tali secondo la tradizione, vengono rispettati. Cambia l’interpretazione, il punto di vista, e così vediamo un Achille emotivo e timoroso di morire, pur nel suo desiderio di gloria, dominato dalla protettrice figura di Patroclo (capovolgendo l’interpretazione shakespeariana del Troilo e Cressida), un Ulisse, sì astuto, ma amante soprattutto della pacifica vita familiare e del lavoro nei frutteti di Itaca, un amletico e umbratile Menelao, un Paride dallo sguardo di scorpione, una torva Clitemnestra – soprattutto, però, una donna svuotata, − invidiosa della sorella Elena, un’Elena remota e insieme dolce col prescelto Menelao, un algido Palamede, perfetta eminenza grigia di Agamennone (forse, quest’ultimo, il più somigliante all’immagine omerica). La Splendente è, come si è già accennato, Elena, creatura indecifrabile presente nella reggia di Sparta e poi inseguita da Menelao prima a Troia e poi in Africa (la celebre versione per cui Paride avrebbe avuto accanto a sé un mero fantasma) senza che il lettore goda di maggiori certezze, e fino a una conclusione struggente e poetica. La costruzione delle scene raggiunge anch’essa un alto livello, grazie a un approccio profondo e visionario. La scena dei due Atridi alla ricerca del tempio diruto prima della partenza per Troia è un buon esempio: l’autore riesce a rendere il lettore partecipe del silenzio dei boschi insieme spiazzante e numinoso, a immergerlo nel mistero di un qualche senso da trovare, a farlo raggelare alla profanazione di Agamennone. Così come le mura (titaniche, archetipiche) di Troia, dietro le quali gli eroi ragazzini precocemente invecchiati ravvisano l’indefinita minacciosità degli “altri”, sono realmente il confine del mondo. Tanto più che dietro il narrato c’è l’eco potente di ciò che resta accennato di sfuggita o solo alluso, le storie di un mondo assai più antico, il magma di un passato dove l’evocazione di mostri o giganti mantiene un’autenticità e una forza che riconosciamo dentro di noi.

Questa nuova declinazione di una materia classica ha il pregio di farla tornare vivente (un’operazione che può ricordare quella di Christa Wolf, con le dovute differenze ovviamente, soprattutto di focus, che nella Wolf è puntato sulla condizione della donna e sul nesso guerra/maschio) e di potere, attraverso di essa, toccare in maniera universalizzante i grandi temi della violenza e della morte cui fanno da contraltare la bellezza, l’amore soprattutto domestico e l’amicizia. La lingua è accurata, incisiva, non senza qualche contenuta scintilla lirica. Va ancora sottolineata la grande capacità compositiva dell’autore che mette in campo decine di personaggi, tutti ben individuati, dei quali non perde mai le fila, dando sostanza a un complesso, variegato e mosso manufatto. Lo ribadiamo: non siamo di fronte a una gratuita opera erudita − e lo diciamo senza alcuno sprezzo per l’erudizione −, ma a un’opera che sa parlare di oggi in maniera obliqua e, quindi, tanto più efficace. La narrazione sa insomma valorizzare la dimensione paradigmatica del mito, ovvero della “parola importante”, in riferimento alle nostre profondità interiori: dove l’epos di morte e di vita, di orrore e di bellezza mantiene, al netto da ogni banalità retorica, una forza viva che ci parla dentro. A partire dal dare voce alle nostre delusioni e solitudini, alle paure e sofferenze di cui gli eroi si fanno portavoce.

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Elena e Clitemnestra”

Era seduta sulla radice nodosa di un ulivo e strappava i petali di un fiore. Lanciava alla sorella occhiate nervose, chinata tra i fiori e le erbe selvatiche. Avevano visi così simili. I lineamenti scolpiti con cura, come dalla mano di un artigiano meticoloso e preciso alla ricerca di una forma perfetta, il naso ricordava quello delle statue di Artemide ed Atena. La bocca giovane e piena formava in entrambe una curva impercettibile verso il basso, rivelando una concentrazione segreta attorno a qualche pensiero ricorrente.

Lei sapeva bene quale fosse il proprio. Era la grazia, l’incanto senza pecche della sua gemella. Aveva solo otto anni, come lei, ma possedeva qualcosa in più, anche se avevano lo stesso viso, lo stesso corpo. Lo stesso uovo le aveva messe al mondo, ma a Elena aveva fatto il dono della luce. Aveva il sole tra i riccioli biondi come il croco, un chiarore stellare negli occhi azzurri. Le minuscole pupille nere erano incapaci di dilatarsi, come se tutta la luce fosse già nelle sue iridi celesti, irraggiate da lampi di smeraldo.

Tutta la chiarezza era andata a sua sorella. Clitemnestra aveva capelli neri e radi, non si avvolgevano in riccioli perfetti ma crescevano crespi, come i fili male intrecciati di qualche lana grezza. Rifiutava di farli crescere lunghi come quelli splendenti di Elena, per vergogna. I suoi occhi castani, così comuni, non avevano alcuna luce e la sua pelle aveva imperfezioni, piccoli nei e macchie appena visibili, dove quella bianca, marmorea di Elena non ne aveva alcuna…

La detestava… La gente di Sparta le guardava con occhi diversi. Per Elena c’era solo meraviglia e rapimento. Si era diffusa dalle bocche dei servi la storia del cigno e di sua madre Leda, ed Elena era stata da tutti riconosciuta come figlia del padre degli dei. Clitemnestra l’aveva vista camminare a braccia aperte nella pioggia, nei boati dei temporali estivi, accogliendo le gocce sul suo viso immobile, e aveva creduto che Elena parlasse con suo padre.

Per lei gli dei erano muti. Non aveva mai udito una voce, nei templi, in risposta alle preghiere e ai sacrifici e se ne vergognava. Le sembrava di non essere parte di quel mondo mutevole, dove gli dei camminavano con gli uomini, il mondo di storie e miti da cui proveniva sua sorella.

COSA NE HA DETTO CHRISTIAN RAIMO:

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Christian Raimo

Il libro di Cesare Sinatti, La splendente, è qualcosa di veramente inedito nel panorama editoriale italiano: una rilettura dell’epica classica in un romanzo solenne ma al tempo stesso capace di secolarizzare il mito, di rendere umani i semidei, e di escludere l’elemento divino, il Fato, di “tagliare il cielo”. È una lettura che fa impressione per la documentazione, l’acribia della ricostruzione delle storie omeriche e del resto dell’immaginario antico, che non rende La splendente un libro derivativo o erudito, né un’opera semplificante: il romanzo si snoda piuttosto come un romanzo di guerra che riflette come un paradigma antelitteram tutte le storie di conflitti che sono state narrate dalla guerra di Troia in avanti.

La maturità poetica e stilistica di Sinatti fa sì che non ci sia un compiacimento né postmoderno né bellettristico, e che anche la lezione di un Calasso o di un Baricco siano state assimilate insieme a quella delle serie tv che si sono cimentate con l’epica. Con un’ispirazione che verrebbe da dire nicciana, dove dalla contrapposizione tra apollineo e dionisiaco scaturisce una trasvalutazione dei valori: la possibilità di narrare una generazione di semi-dei oltre-uomini che sono tali perché “umani troppo umani”.

ADIL BELLAFQIH e BARATRO

mercoledì, 29 Giugno 2016

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ADIL BELLAFQIH

ADIL BELLAFQIH è nato nel 1991 a Sassuolo dove vive. Si è laureato su Stephen King, con una tesi disciplinarmente trasversale. Sta frequentando il corso di laurea magistrale in Filosofia a Parma. Ha pubblicato diversi racconti in occasione di vari concorsi letterari e ha tutta l’intenzione di vivere della sua scrittura.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Baratro.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

La vicenda è ambientata in un’Italia ormai desertificata dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali in un anno imprecisato del XXI secolo. Gli Stati Uniti d’Europa hanno da poco sostituito le scuole pubbliche con “centri di impiego preliminare” e chiunque non sappia o non voglia adeguarsi ai “principi del Mercato, della Crescita e della Finanza” o sia sospettato di ordire piani sovversivi contro di essi viene sottoposto a una procedura riabilitante nel CRIL (Centro di rieducazione alla democrazia e al libero mercato), una sorta di cattedrale nel nulla. Si tratta di un’idea di notevole capacità e qualità visionarie. Naturalmente la lingua che si parla nel CRIL è una neolingua orwelliana: qui democrazia significa libertà, e libertà significa unicamente libertà di perseguire con ogni mezzo il profitto (l’elemosina o l’aiuto disinteressato in questo quadro sono, non c’è bisogno di dirlo, disvalori). Gli ospiti del centro – ingegnosamente immaginato dall’autore – sono sottoposti ad esercizi in vista del suo fine rieducativo: dispongono di denaro (grazie a contratti a tempo determinato) con cui giocare al gioco del profitto (ma ogni mezzo è lecito purché non si infranga il dogma del mercato). In questo gioco c’è chi vince e c’è chi perde, c’è chi sale e c’è chi scende (anche fisicamente, finendo nei sotterranei dell’edificio). Il cuore del Centro sono i punti commerciali dove ognuno può acquistare ciò che desidera o è indotto a desiderare. Massima importanza per il controllo dei comportamenti degli educandi sono i mezzi informatici, che garantiscono la totale panotticità del sistema. In questo universo parallelo finisce, quasi per caso, il famoso hacker Zombi 243. È lui il protagonista attorno al quale si annodano tutte le complesse vicende della trama e attorno a cui ruotano tutti i personaggi, singolarmente individuati. Egli mira semplicemente a sopravvivere, lavorerà per la struttura di comando nel Reparto Mobilitazione Informatica, accetterà di fare l’infiltrato presso il gruppo di sovversivi (i Trumlin), ma poi affascinato dalla personalità del loro capo, Leo, passerà dalla loro parte, si innamorerà di Wolf, dimenticando la moglie… Le cose, naturalmente, non sono così semplici come appaiono e la congiura dei Trumlin è destinata inevitabilmente a fallire (si rivelerà come nient’altro che uno stress test): Leo riuscirà, comunque, per pochi minuti a incitare le masse degli educandi alla rivolta, alla giustizia e alla vera libertà. Peccato che per libertà gli educandi intendano quella di appropriarsi delle bramate merci. Conclusione amara. Tutto finirà in un massacro degli illusi rivoltosi, e qui finisce la prima parte del romanzo (“Età dei giganti” ed “Età degli eroi”). Nella seconda parte (Età degli uomini” e “Diluvio – Tempo di libertà”), Max (ovvero Zombi 243), fortunosamente salvatosi, da classico antieroe/giustiziere, compirà la sua vendetta solitaria fino alla distruzione del CRIL e al rocambolesco salvataggio dell’amata Wolf.

Baratro può essere definito un testo distopico o lo si può ascrivere direttamente alla fantascienza: come spesso nei testi di genere sussistono elementi che evocano l’uno e l’altro aspetto senza imporre etichette esclusive. Tanto più che le fonti dirette o indirette sembrano tante e varie (da Claudio Vergnani a Italo Bonera, dal Pasolini nero al Titus di Julie Taymor). Fonti comunque utilizzate in termini mai ovvi o imitativi nella costruzione complessa di un grande affresco; e per quanto fantasie distopiche non manchino nell’odierna narrativa di genere italiana, il giovane autore mostra una notevolissima autonomia e originalità. In sostanza si tratta di una prova persuasiva.

Le psicologie dei personaggi sono definite con cura, e alcune figure appaiono molto belle – quelle di Wolf e di Leo, la stessa Beatrice King; il protagonista Max ha connotazioni meno scontate di quanto si sarebbe potuto attendere dall’immaginario sull’hacker. I dialoghi sono ben condotti, cosa non facile. Certo si tratta di un quadro nero, disincantato, ma l’autore riesce a non esaurire le soluzioni – per quanto estreme – nell’effetto facile, e mostra un ottimo controllo delle suggestioni di volta in volta evocate (l’atroce, il grottesco…). Dove poi graffia con brillante intelligenza è nel grande affresco politico-economico, mai scontato o banale, in chiave di intrigante macchina per pensare.

Lo stile piano vede il ricorso a buone soluzioni narrative (la descrizione onirica dell’accecamento del protagonista, l’aggancio tra conclusioni e inizi dei vari paragrafi), e la mole di oltre cinquecento pagine è gestita con abilità: il testo corre fluido e incalzante. Sicuramente più compatta appare la prima parte, fino alla tentata rivolta, mentre nella seconda alcuni episodi avrebbero potuto essere alleggeriti (la tavolata carnevalesca) o tagliati (la scena burattinesca degli intellettuali, per esempio): la tendenza ad allargarsi è probabilmente normale data l’età dell’autore e le consuetudini della narrativa di genere, anche se può naturalmente auspicarsi un maggiore controllo nello scrivere “per sottrazione”.

Comunque tutto traghetta verso un finale consono, e in fondo atteso. Dove gli aspetti di improbabilità – le eliminazioni finali, incrociate e compulsive dei personaggi apparsi in scena, la soluzione della macchina del tempo – non risultano spiacevolmente incongrui. E in particolare la conclusione conciliante della macchina del tempo che permetterebbe alla giovane incinta di salvarsi dall’esplosione potrebbe appartenere in realtà al mondo tutto interiore di fantasie del protagonista morente.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Il sogno di Max, ovvero l’hacker Zombi 243”

Elisa è appoggiata allo stipite della porta e lo fissa…

Max è seduto alla sua scrivania, arroccato dietro i quattro monitor allineati sul ripiano pieno di blocchi di appunti, cifrari e dispositivi di monitoraggio. Lì dietro c’è tutto quel che gli serve per manipolare la cascata di zero e uno che compongono il magico mondo dell’informatica. Una logica dicotomica tanto semplice quanto pericolosa: destra o sinistra, giusto o sbagliato, niente vie di mezzo.

«Devo lavorare», dice a Elisa continuando a digitare … sulla tastiera. Ci sono stringhe di codice davanti a lui, numeri e simboli che nella sua mente formano immagini, connessioni, ma tutto si riduce sempre a zero e a uno.

«Te lo sei scordato?» chiede Elisa incrociando le braccia sotto il seno.

Max si volta per guardarla e si accorge di non essere nel suo corpo. Almeno, lui non è lo stesso Max seduto alla scrivania. Vede coi suoi occhi, ma allo stesso tempo vede fuori di sé. Sta sognando…

«Cosa mi sono scordato?» chiede il Max seduto alla scrivania. Alla luce dei monitor il suo volto appare scavato …, i suoi occhi infossati…

«Che non tutto è nero o bianco, che non ci sono solo buoni e cattivi, che non c’è solo giusto o sbagliato. Che non ci sei solo tu. È logica fuzzy».

«Non ho tempo per questo. Io ho bisogno di farlo, lo capisci?»

… lui la logica fuzzy la conosceva eccome… C’erano teorie che …proponevano un tipo di approccio sfumato: tra il caldo e il freddo c’era il tiepido, … tra lo zero e l’uno c’erano un’infinità di possibilità intermedie. La realtà era sfumata, precaria, ma se lo era la realtà “vera”, perché doveva esserlo anche quella virtuale?

I pensieri gli si solidificano davanti. Può vederli scorrere tra lui ed Elisa, lo attraversano senza lasciare residui. Lì dentro, nel profondo dell’incubo, tutto è pensiero.

«Io ho bisogno che tutto sia zero e che tutto sia uno», dice il Max asserragliato dietro i monitor. Si è fatto gobbo e scuro e rachitico. «Ho bisogno di una realtà che funzioni. Devo farla funzionare…»

«È il mondo che non funziona!» urla… «io lo faccio funzionare!»

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

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Angelo Guglielmi

Baratro andrebbe rivisto nella scrittura, ma possiede un’eccezionale forza visionaria che gli consente di parlare della situazione politica ed economica in cui vive il mondo occidentale senza ricorrere ai facili toni accusatori e di denuncia.

L’idea di raccogliere i renitenti allo stile di vita occidentale in un centro dove si insegna loro che libertà=mercato e democrazia=capitale mi sembra geniale. E geniale mi pare anche l’idea di collocare i renitenti sequestrati in un edificio che sorge in una zona desertica (in modo da rendere difficile la fuga), ma lussuoso come un albergo a cinque stelle. Qui gli ospiti, preliminarmente muniti di una certa quantità di denaro da spendere in un fornitissimo supermercato, vengono stimolati a trafficare e a comprare, a fare scambi e a rubare, possono anche ottenere prestiti (ma a tassi usurari). Possono vincere o perdere. I più perdono e di giorno in giorno i loro alloggi diventano sempre più grigi, sporchi, cadenti. Un piccolo gruppo costituito dai più consapevoli decide di ribellarsi con l’aiuto dell’abilissimo hacker Zombi 243. Ma la direzione non ha difficoltà a vincere e sterminare i sovversivi. L’hacker però sopravvive, sia pur provato e quasi cieco. A questo punto non gli rimane che la vendetta e con la sua sapienza informatica riuscirà alla fine a distruggere il centro di rieducazione.

Il romanzo appartiene chiaramente al genere fantascientifico di tipo orwelliano con evidenti richiami al nostro presente. Il testo è sovrabbondante, va asciugato e rivisto, ma rivela un autore capace di tenere in equilibrio una struttura complessa con personaggi fascinosi e psicologicamente credibili. È giovanissimo e certamente meritevole di riconoscimento.