EUGENIO RASPI vive a Narni, dove è nato nel 1967. Per ventidue anni ha lavorato come tecnico specializzato nella più grande fabbrica di Terni, la Acciai Speciali. Dal 2014, al termine del rapporto di lavoro e in attesa di nuova occupazione, scrive storie.
Finalista al Premio Calvino XXIX con Inox.
COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:
“Arrivano in fabbrica già scazzati, varcano i cancelli rapidi o lenti a seconda se devono o non devono dare il cambio stabilito delle responsabilità e dall’inquadramento. La portineria dell’Acciai Speciali è un’acquasantiera dove tutti intingono le mani per abitudine, portano il cartellino di plastica sotto le testine della timbratrice, una processione in fila indiana, in religioso silenzio.” L’incipit di questo inusuale romanzo ci immette in medias res e, soprattutto, ci fa cogliere immediatamente l’atmosfera che si respira in fabbrica, non una fabbrica qualunque ma la cattedrale industriale di Terni, che è stata fino a tempi recenti uno dei maggiori produttori mondiali di acciai e che ha visto una complessa vicenda proprietaria, per finire nelle mani della multinazionale tedesca ThyssenKrupp (nel romanzo, con uno scarto rispetto alla realtà, la si fa acquisire, plausibilmente, da un gruppo russo). Naturalmente tutto ciò è stato accompagnato da una decimazione della forza lavoro. Terni in realtà non viene mai citata in Inox, ma sono citati con precisione i suoi luoghi, le sue strade, l’incombere dell’acciaieria che costituisce il fulcro tematico e narrativo del romanzo e, insieme, il suo fulcro psicologico ed esistenziale. Tutto questo, tra l’altro, dà vita a una strana, crudele, ironia: la contrapposizione tra la grandiosità materica dei complessi industriali e la fragilità del loro futuro produttivo come quello di coloro che vi lavorano.
Ciò che rende interessante e davvero originale il romanzo (anche rispetto ad Acciaio di Silvia Avallone, il cui focus è l’amicizia tra le due adolescenti Francesca e Anna) è la narrazione della vita in fabbrica (dentro la fabbrica, ma non solo, come diremo), in una fabbrica come l’acciaieria, tra altiforni, fuoco e rischio costante della vita al minimo errore, una fabbrica che è al centro di molte vite, presenza pervasiva che suscita amore e odio. Riuscito l’intreccio tra la vita delle due coppie di fratelli (anche se inizialmente può apparire un po’ schematico e programmatico il dualismo, nella coppia principale, tra Claudio, l’amministratore delegato, e Sergio, semplice operaio, per quanto con un “ruolo di capobranco”, p. 3), con le loro diverse posizioni, con i loro rapporti con la fabbrica, una fabbrica di oggi, in cui le lotte operaie mirano solo al mantenimento del posto di lavoro, in cui c’è molta diffidenza nei confronti della rappresentanza sindacale. Interessante è poi lo sviluppo delle vicende personali dei singoli personaggi, le cui scelte si intrecciano strettamente alla vita in fabbrica. La narrazione è centrata sui due mesi estivi con un epilogo alla vigilia di Natale. Dapprima un incidente in fabbrica, per fortuna senza gravi conseguenze fisiche per i lavoratori, porterà all’ingiusto spostamento di reparto di uno di loro (Giulio, fratello dell’opportunista Matteo − l’altra coppia di fratelli coprotagonista del romanzo) e al licenziamento da parte della cooperativa addetta alla pulizia di un indiano, Kumar, tra l’indifferenza di tutti. Poi le voci della vendita dello stabilimento ad un magnate russo si concretizzeranno, e si arriverà a una ristrutturazione e al taglio dell’organico.
Il pregio del testo consiste nel presentarci una realtà assai poco raccontata dalla narrativa italiana e nella capacità di cogliere il modo in cui operai, persone tra loro diverse, vivono all’interno di questa realtà, le loro storie all’esterno, la famiglia, i sogni di evasione, la centralità che questa fabbrica ha assunto per l’intera comunità. Molto riuscito è anche nell’ultima parte del romanzo il confrontarsi dei personaggi con la morte, sia quella del padre di Sergio e Claudio (nel corso di una manifestazione in difesa dell’occupazione), sia quella di Kumar, una delle tante − ma non per questo meno individuo − vittime predestinate del nostro sistema sociale.
La lingua, scabra e ricca di tecnicismi che arricchiscono la percezione dell’ambiente, non sempre risulta sintatticamente ed espressivamente fluida. Di certo, è congrua alla materia trattata. La narrazione segue un trend realistico, senza particolari guizzi o impennate stilistiche, a parte l’irrompere dell’io dell’autore nei brani in corsivo che aprono le varie sezioni temporali della vicenda, brani che sembrano denunciare una sorta di autobiografismo: “Lì dentro ormai non c’è più posto per me. È la classica storia d’amore che finisce in odio. E di odio io ne ho davvero tanto senza sapere contro chi rivolgerlo”, come si dice nella pagina di apertura.
UN BRANO PER APPREZZARLO:
“Incipit”
Arrivano in fabbrica già scazzati, varcano i cancelli rapidi o lenti a seconda se devono o non devono dare il cambio stabilito dalle responsabilità e dall’inquadramento. La portineria dell’Acciai Speciali è un’acquasantiera dove tutti intingono le mani per abitudine, portano il cartellino di plastica sotto le testine della timbratrice, una processione in fila indiana, in religioso silenzio. Trascinano i piedi fino allo spogliatoio per infilarli negli scarponi antinfortunistici, indossano la tuta e raggiungono i reparti come topi d’appartamento dopo il colpo. Prendono strade diverse e si dileguano dietro un angolo con la speranza di farla franca. Scamperanno anche stavolta alla noia che ti usura, all’obbligo che crea repulsione non appena raggiungi l’officina, la sala controllo, l’impianto di abbattimento fumi o di filtraggio di acque reflue in cui dovranno passare le prossime otto ore.
Sergio Asciutti è uno dei tanti dipendenti dell’Acciai Speciali, è caposquadra al Forno 3 e deve presentarsi in anticipo, un turno sfalsato di mezzora che ti costringe a entrare e uscire da solo…Le cifre in rosso dell’orologio segnano le cinque e zero sei. Albeggia eppure è già tardi. Mentre sua moglie Rita gli versava il caffè, le fette biscottate con la marmellata di ciliegie nel piatto, lui dal bagno borbottava sulla levataccia. Lei fra uno sbadiglio e l’altro cercava di tenere la ciocca castana dietro l’orecchio.
«Ecco la tua solita tiritera ogni volta che fai il primo turno. Come se non ci fossi abituato. Sarò stupida, ma non capisco perché devi entrare mezz’ora prima degli altri se lavorate insieme».
Dopo tanti anni lei non ha ancora presente come funziona lo stabilimento.
«Arrivo prima perché nei trenta minuti iniziali mi rendo conto di cosa ci aspetta e mi organizzo, così quando arrivano gli altri so già cosa gli devo comandare. Non è tanto complicato». Spiegato così è semplice, in realtà non è facile domarli. La sua qualifica di intermedio – non è un impiegato e nemmeno un operaio semplice – gli impone il ruolo di capobranco. «Mi sono rotto i coglioni di vederli arrivare uno dietro l’altro come zombi. Ma che gliela devo far venire io la voglia di lavorare?»
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