Antologia finalisti XXVI

BREVE TRATTATO SULLE COINCIDENZE di DOMENICO DARA

giovedì, 25 Aprile 2013

Incipit

Il postino del paese era un uomo solitario, senza ambizione, che alla passione per i pensieri astrusi univa quella per le lettere d’amore. Le riconosceva senza aprirle, come se portassero impresso sulla busta l’impronta degli amanti. Ne aveva viste d’ogni tipo: eleganti, posticce, scritte dietro un volantino di campagna elettorale e su pezzi di carta igienica, sull’ultima pagina strappata di un romanzo o sulla carta del pane ancora sporca di farina. Le lettere d’amore che fanno diventare tutti poeti e che non fanno dormire, le lettere d’amore magiche che ripetono le stesse cose ma sempre con parole diverse, cesellate con cura come se l’imperfezione d’una lettera fosse più temibile del più temibile rivale. Le lettere d’amore che apriva più delicatamente, per ultime…
Tre ore e mezza prima della capitolazione di Colajizzu, il postino aveva ritirato e svuotato il sacco della posta per disporre le lettere secondo l’ordine di consegna. Di fronte a sé non c’era un munzìaddu di carta, ma un campionario di sentimenti umani: sogni irrealizzati, desideri inconfessati, promesse ritrattate, dichiarazioni sussurrate, ingiurie, ricordi, nostalgie, speranze: parole scritte in solitudine che attraverso di lui chicàvanu a destinazione, ed egli si inorgogliva di essere la fase finale e decisiva del compiersi di un destino…

Il postino di Girifalco era degno rappresentante di una categoria la cui lunga e decorosa storia risale addirittura a Ermete, argheifonte, deorum nuntium, figlio di Dio, messaggero occhio acuto e datore di beni, che calzando sandali belli e d’oro, sul mare andava simile a un gabbiano che caccia i pesci, portato dal vento, con in mano la verga che gli uomini affascina. Così il postino camminava per le vie della sua mappa quotidiana, e tra buongiorni, saluti ed ambasciate, pensava alla luna.

IL VENTRE DELLA REGINA di CARLO DE ROSSI

giovedì, 25 Aprile 2013

Incipit

Sembrerebbe banale dire che sono malato di immaginazione, ma questo è, una grave disabilità per chi deve vivere tra queste quattro forzature.
Da una settimana cerco di farmi dare un bacio da Patrizia ma lei non ha ancora inalato del tutto i miei vapori afrodisiaci, si vede da come è presa da se stessa, sarebbe un peccato non dare un vero lavoro alla sua lingua ossidata, e mi viene il dubbio di aver sbagliato copione. Eccomi qui ad arrotondare emozioni per non morire di noia. Sono vestito di nero, molto esistenzialista, e aspiro pigramente, rallentando parole che prima di cospargere di fumo misuro con controllata maniacalità. Dico ad esempio che domani mi metterò a graffiare i miei alibi, suona bene. Mi faccio chiamare Matteo, non ho un vero e proprio passato. Potrei raccontarvi di quando ero obiettore di coscienza o di quando Domenico ha cercato di portarmi a letto, oppure dei dieci anni di rapporto di coppia, ma che noia sarebbe. Non so come sia successo, forse la mattina del mio compleanno, fatto sta che il leone ha sentito il richiamo e si è messo a ruggire. Io e Confucio ci siamo stretti in un’alleanza soprasensibile e ci siamo guardati negli occhi. Non ricordo se fossero a mandorla, eppure li aveva ipnotici, e piano piano, sul display della mia mente assopita, oltre a scusarsi di essersi dimenticato i miei trentatrè anni, ha digitato PER ESSERE FELICI BISOGNA CAMBIARE SPESSO. Da quel giorno passeggio nudo per casa, se sono solo, oppure cambio colore a seconda delle donne su cui mi poso.

NOMI, COSE E CITTÀ di ANDREA D’URSO

giovedì, 25 Aprile 2013

Incipit + A Nizza

Marisa si chiamava la prima donna con cui sono stato. Con cui sono stato a pagamento, intendo. A pagamento… e non l’incontrario, intendo ancora…
Ci vedevamo sempre il pomeriggio. Le piaceva l’amore nel pomeriggio e le piaceva chiamarlo amore. Dopo il sesso, restavamo a letto a parlare. Cioè, lei parlava e io ascoltavo. Cioè, a volte ascoltavo, a volte fingevo di ascoltare, dipendeva dalla giornata…

L’ultima volta che sono stato a Nizza fu quattro anni fa. In pratica fui affittato per un weekend lungo…
Era giugno, a Nizza, e c’era ancora molta luce. Andai subito alla nostra vecchia casa nel centro storico. Le finestre della mia camera stavano ancora lì….
Le finestre della nostra camera, per essere esatti, in quanto la dividevo per l’appunto con mia sorella più grande. Riesco ancora a vederla questa cavolo di stanza. Un letto doppio che l’occupava quasi per intero e un armadio in noce che quando l’aprivi ti veniva giù di tutto. Fine. Per il resto l’anarchia o la legge del più forte, ovvero mia sorella. Il disordine e lo sporco convivevano pacificamente…
Il letto… non era solo un letto. Era tutto. Ci giocavamo, ci picchiavamo, ci mangiavamo, ci piangevamo, ci facevamo tutto, tranne quello che ci avrei fatto con una certa regolarità anni e anni dopo. Nel letto inoltre ci nascondevamo, soprattutto quando alla sera mia madre cominciava con le scenate di gelosia, mio padre cominciava a bere ed entrambi cominciavano a urlare.
Per un periodo ci ritiravamo semplicemente sotto le coperte, poi ci siamo stufati e abbiamo adottato altri stratagemmi, come mettere la musica al massimo, ma poi entrava mio padre che ci spezzava i dischi e allora ci mettevamo a giocare a nomi, cose e città. Un nome con la t, una città con la esse, dall’altra parte del muro botte, insulti e grida, ma noi pensavamo al nome con la t e alla città con la esse.

COME FOSSI SOLO di MARCO MAGINI

giovedì, 25 Aprile 2013

Il calcio d’inizio

Da giorni si parlava della partita. C’erano già stati disordini l’anno prima a Belgrado e la paura che la recente elezione di Tudjman avesse ulteriormente scaldato gli animi era davvero tanta. Non mi interessavo allora di politica e non sospettavo ancora che saremmo stati tutti costretti ad interessarcene di lì a poco. Cresciuta dopo la morte di Tito, la mia generazione era di gran lunga più interessata alla separazione dei Police che a quella della Repubblica Jugoslava. Federazione, confederazione….parole molto molto lontane dai nostri pensieri. Oggi mi viene in mente quel giorno perché fu quello in cui iniziò la mia presa di coscienza di ciò che stava realmente succedendo nel mio paese. Forse non lo capii in maniera consapevole, ma sentii chiaramente che qualcosa era ormai irrimediabilmente cambiato. Ricordo Boban con indosso la maglia della Dinamo Zagabria, girarsi, alzare la testa, prendere la rincorsa e saltare davanti al poliziotto colpendolo con un calcio sul viso. Di tutti i disordini che ebbero luogo quel giorno, dei celerini vestiti in tenuta anti sommossa, dei feriti stesi a terra, di tutto ciò io ricordo solo Boban e il suo calcio al volo. Mi sono spesso domandato se Boban fosse cosciente delle conseguenze del suo gesto, se si rendesse conto di quello che avrebbe significato. Probabilmente no. Quel calcio, trasmesso e ritrasmesso in televisione, avrebbe finito per prendere una vita propria, per diventare qualcosa di esterno all’autore stesso. Quel calcio imponeva che prendessimo una posizione, a quel calcio non si poteva rimanere indifferenti. Boban in quel momento diventava paladino della nazione croata, la decisione era tra stare dalla parte di Boban o dalla parte del poliziotto; decidere, come diceva Tujman, se la Croazia aveva davvero ragione di esistere o se, come già urlava Milosevic, la vecchia Jugoslavia dovesse andare avanti così com’ era.

CARTONGESSO di FRANCESCO MAINO

giovedì, 25 Aprile 2013

Il rinascimento dell’aperitivo

… lo spritz è la risposta, la nuova eucaristia, 1/3 vinello bianco amabile, 1/3 aperol ovvero campari, 1/3 selz, fettina di limone, ghiaccio, due euro, bevetene tutti, questo è il nuovo sangue arancione versato per la rimozione dei peccati…
… I trentacinque (35) bar d’Insaponata di Piave sono disperatamente popolati specialmente nei week-end da questi capannoidi e di queste femminine. Ogni categoria sociale ha il proprio bar, un bar del cazzo in cartongesso, cartongesso, penso, metà cartone, metà gesso, il cartone delle baracche, penso, da dove tutti proveniamo, il gesso che si sfarina come cocaina, penso, quella che tutti aspirano, il bar, il proprio porto franco, il proprio atollo, i propri disperati prosecchi, le disperate bollicine, i disperati vodka-tonic, i disperati spritz al Select, i vinelli più disperatamente strutturati, i rossi importanti anch’essi disperatamente soli…
… Il nuovo umanesimo è l’umanesimo della mescita, il rinascimento dell’aperitivo. Non è un caso che si dica l’arte di fare uno spritz. Che cosa dovrebbe d’altronde rimanere dopo la produzione medio-industriale in un’area d’ottantamila (80.000) parrocchiani senza niente attorno, solo asfalto, parcheggi e bar, senza un teatro nel raggio di cinquanta (50) chilometri? Rimane l’alcool. L’affermatività orgogliosa dell’alcoolismo da parte dei parrocchiani medesimi, dei capannoidi. S’ordinano giri e giri d’aperitivi, con disinvoltura, con facce millantatrici, auto-compiacenti, dissolute, giri e giri di birre da far rabbrividire una guardia-parco.
Questo è il paese delle cose che stanno morendo. No. Questo è il paese dei corpi. Un paese pieno di corpi. Corpi che si svegliano morti, escono morti di casa, tornano morti; corpi che parcheggiano, scendono, sputano, corpi che si salutano, sbadigliano, bestemmiano sempre, fatturano.

LA DONNA DELL’UOMO CHE GIRAVA IN TONDO di STEFANO PERRICONE

giovedì, 25 Aprile 2013

Incipit

Mia madre non era quel che si dice una donna dolce, non amava le persone dolci, le cose dolci, nulla che fosse dolce, neanche, che non lo so se c’entri, il miele, che io, da bambina, il miele non l’ho mai mangiato, non sapevo cosa fosse, quando la maestra ne parlava, che le maestre ne parlano, del miele, ci sono certe figure, sui libri, di api che fanno il miele, che sembra sia una delle cose più importanti del mondo, il miele, per me era una cosa sconosciuta, strana, come i cinesini, che ci sono anche quelli, sui libri per bambini, e somigliano un po’ ai funghi, ci si confonde, tra i cinesini e i funghi, una cosa strana, qualcuno dovrebbe provvedere, che il miele l’ho preso per la prima volta da ragazzina, a casa di un’amica, che la mamma dell’amica aveva preparato appunto del pane col miele, per merenda, ricordo che arrossii tutta, mi sembrava di fare una cosa sconveniente, mangiare il miele, mi sembrava di baciare un ragazzo, ero rossa come un peperone, mentre lo mangiavo… quando andavo a casa di quella mia amica, dicevo, me ne spalmavo un sacco sul pane, che la sua mamma doveva pensare che facessi la fame, a casa mia, poverina, diceva, e poi non concludeva il discorso, mi offriva altre cose, prosciutto, formaggi, uova, carne, pesce, pure il pesce, e di quello buono, e io no, rifiutavo, solo il miele volevo, un capriccio, un puntiglio, che poi tornavo a casa e mia madre mi chiedeva cos’avessi mangiato, dalla mia amica…
… stupita, attonita, come, diceva, ti hanno offerto solo pane e miele, e io allora, per dispetto, le dicevo che no, che c’erano mille cose, prosciutto, formaggio, uova, carne, pesce, pure il pesce, e di quello buono, ma io avevo voluto il miele, miele spalmato sul pane, e nient’altro. E lei cominciava a girare per casa congiungendo le mani, e diceva, Gesù, diceva, ma come, le hanno offerto prosciutto, formaggio, uova, carne, pesce, pure il pesce, e di quello buono, e questa stupida mangia il pane col miele…

I COSTRUTTORI DI PONTI di SIMONA RONDOLINI

giovedì, 25 Aprile 2013

Nell’azienda cunicola

Quando entrò nel nuovo reparto, la colpì il bianco. Bianche erano le piastrelle lucide che rivestivano le pareti, bianche le tute e le cuffie degli operai, bianchi i loro grembiuli di plastica. L’abbigliamento rendeva tutti pressoché uguali, uomini e donne… tutti erano silenziosi.
……
Laura si voltò verso sinistra e vide spuntare da dietro l’angolo del muro una lunga fila di pendagli appesi ai gambieri. Capì dagli occhi e dalla forma del corpo che erano i conigli, però morti e senza più la pelliccia. Senza più le lunghe orecchie il cranio spellato aveva una forma singolare, come implosa su se stessa. La luce forte che cadeva dal soffitto si rifletteva sulle nude carni violacee. La caporeparto assunse una posizione quasi sull’attenti poi, non appena uno di quei monconi le si parò davanti, con un movimento veloce e preciso dall’alto verso il basso, incise il ventre dell’animale con il coltello che teneva nella mano destra. Subito un agglomerato floscio di visceri bluastri si riversò fuori e rimase a pendere dalla carcassa vuota. “Velocità e precisione, non serve altro”…

Laura si disse che non aveva altra scelta che imparare a fare bene quel lavoro, perché farlo male lo avrebbe reso solo più difficile da sopportare. Velocità e precisione, aveva detto la donna, e aveva ragione. Guardandosi intorno, capì perché tutti gli operai erano muti, concentrati, rapidi nell’eseguire le mansioni loro affidate. Non era soltanto perché vi erano obbligati dal ritmo del meccanismo girevole. Era perché, se si fossero concessi di essere lenti o imprecisi, nelle maglie allentate di quell’ingranaggio di cui erano entrati a far parte si sarebbe infilato di tutto: domande senza risposta, nausea, vergogna, magari rabbia, magari disperazione. E, questo, nessuno di loro poteva permetterselo.
Quando finì il turno, la colpì il rosso. Era dovunque e sporcava tutto. Il bianco era stato un’illusione, durata pochissimo.

LE PIENE DI GRAZIA di CARMEN TOTARO

giovedì, 25 Aprile 2013

Maria Novella nel bosco

Convinta di non scaldarsi inizia il riscaldamento. Il caldo arriva in una forma tenue, come un’ovatta. Poi come un piumaggio arruffato, da pulcino. E un’onda tiepida si sprigiona da una specie di cratere interno al petto e rimescola il suo sangue, la fa pizzicare: dita, faccia, orecchie. L’onda passa attraverso il naso. La patina di muffa si asciuga e un odore dolciastro, di vegetazione marcescente investe l’olfatto. Pare un tripudio di vita, ma non lo è, è decomposizione. È qualcosa che infradicia i tronchi e le cortecce, che ammorba e appesantisce il fogliame. Un manto dal sembiante di muschio che non si stacca da dove ha attecchito e non fa mostra dell’esercito di larve e formiche al lavoro sotto le scorze. Nella sostanza: un sudario.
Maria Novella inizia a correre su un pezzo di sentiero che s’inoltra nel bosco. Quando le aggrada abbandona il sentiero e corre in mezzo ai cerri. Fende lo spazio tra loro, sterza di colpo. Fa girotondi intorno ai fusti più grossi col braccio teso. Finge di finire addosso ai cerri, frena. A un tratto le gira la testa e allora sono i fusti a mettersi in fila e a venirle addosso.
Maria Novella vede un muro di legno alto e grigio. Non rallenta. Si precipita sul muro come presa dalla smania giovanile dello schianto. Il muro ha solchi visibili e profondi che mano a mano si dilatano. Dai solchi, dai legni cavi, soffia un vento glaciale che respinge quel che osa andargli incontro. Ma niente da fare.
La parete di cerro è un’illusione atmosferica, uno scherzo della luce fioca, una superficie cangiante che basta toccare per scioglierla di colpo, per ridurla di dimensioni. Al momento decisivo, a un soffio dall’impatto, gli alberi rompono le righe, riprendono l’abituale distanza tra loro e sgombrano la via agli animali e agli umani di passaggio.