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Elisabetta Pierini

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – settembre 2016 (con Sinatti) – INEDITO

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Elisabetta Pierini, classe ’64, vive a Fermignano e lavora presso l’università di Urbino come assistente tecnico chimico analitico. Estranea al mondo dei social network, madre di quattro figli, amante della bicicletta e divoratrice di libri, Elisabetta è senza dubbio un’esploratrice appassionata dell’animo umano. Il suo genuino interesse per la psicologia e per le tortuose pieghe della psiche pervade ogni pagina del suo romanzo, intitolato quasi fiabescamente L’interruttore dei sogni. Vincitrice della 29° edizione del Premio Italo Calvino in ex aequo con Cesare Sinatti, la Pierini ha dimostrato di sapersi addentrare con sensibilità e cognizione di causa nei tormenti di una famiglia disfunzionale e traballante, attraverso lo sguardo limpido e sognatore di una bambina come tante, eppure unica nel suo modo di affrontare la quotidiana infelicità.

 

1) Per parlare del tuo romanzo forse dobbiamo partire dall’ambientazione: perché hai scelto proprio un’anonima periferia urbana?

Ho pensato a un luogo senza volto, senza personalità, con case uguali come sono le zone residenziali dei paesi e delle piccole città in cui vivo, fatte di case a schiera con un giardino minuscolo, uguali alle altre per metratura e forma. Cambia solo il colore da una schiera all’altra. Queste case sembrano sancire un’esigenza di uguaglianza socio-economica che fa risaltare per contrapposizione la diversità della famiglia di Eva, la bambina della mia storia. Infatti, oltre alla ricchezza che sancisce il ceto sociale, esiste anche una ricchezza affettiva. E la malattia mentale, determinando l’impossibilità di stabilire legami, rappresenta lo zero assoluto in questa diversa scala di misura.

 

2) In questo “luogo senza volto” vive appunto Eva, la piccola protagonista del romanzo. È stato difficile immedesimarti in una bambina di dieci anni?

Ho quattro figli (il più piccolo di loro ha nove anni), ognuno con tutta una serie di amici che hanno frequentato e frequentano casa mia. Ma anche prima di avere figli, cioè prima di sposarmi, tenevo gruppi in parrocchia. In genere i miei romanzi non sono pensati a tavolino, direi piuttosto che nascono dal nulla. Sono partita dal primo capitolo, da lì piano piano si è materializzato il resto. Di solito faccio una prima stesura, che poi cambio completamente. Un romanzo è per me come un’arrampicata su una parete liscia di roccia. Ogni volta cerco nuovi appigli e non so mai quale strada prenderà la storia. In genere ci capisco qualcosa dopo due o tre stesure e a quel punto inizio a lavorarci usando anche la testa, cioè ragionando sui passaggi. In un primo momento invece la testa non mi serve. Perciò spiegare perché scrivo quello che scrivo non è facile. È vero che alcuni personaggi vengono da persone che conosco, però di solito faccio un frullato della realtà umana con cui sono o sono stata in contatto e ne riassemblo i frammenti. I fatti invece li invento quasi sempre. Non riesco a pianificare una storia a tavolino, non è nella mia natura e nemmeno riuscirei a scrivere un romanzo autobiografico. Non potrei farlo anche perché ho pochissimi ricordi. Ma soprattutto non mi interessa percorrere un’autostrada di scrittura, preferisco le strade bianche.

 

3) Sia Eva che sua madre Alma hanno un rapporto a tratti “falsato” con la realtà: quali sono le differenze tra il modo adulto e il modo infantile di rapportarsi con l’immaginario? E cos’è “l’interruttore dei sogni”?

La malattia mentale di Alma taglia il rapporto con la realtà di netto, rende impossibile un rapporto empatico e affettivo con le persone impedendo ogni comunicazione non verbale. La comunicazione verbale resta legata alla capacità della bambina di aderire alle allucinazioni e ai disturbi dell’ideazione della madre. Ma inseguire un rapporto dove non c’è possibilità di empatia è come inseguire un’altra illusione. I rapporti di Eva con il fratello immaginario e con “l’uomo con la valigia” sono rapporti più veri e ricchi di quello che ha con la madre. La bambola chiamata “la signora” è invece una proiezione della madre; ci racconta come la bambina vorrebbe che fosse sua madre, se riuscisse a occuparsi di lei. Pure questa proiezione però, come la madre vera, è incapace d’affetto. Così Eva, per compensazione, ha sviluppato una forte capacità di empatia, dovuta anche alla necessità di occuparsi dei suoi genitori. È piuttosto comune che in famiglie fortemente disturbate ci sia un ribaltamento dei ruoli e che i figli, anche molto piccoli, siano iper-responsabilizzati e “chiamati” a occuparsi dei genitori. Nell’immaginario infantile il sogno consiste nella fantasticheria a occhi aperti, un metodo veloce per evadere dalla realtà; nell’adulto il sogno a occhi aperti è sostituito dal desiderio. Mentre il sogno a occhi aperti serve al bambino a sopportare la realtà, il desiderio ha in sé l’esigenza del cambiamento, del sovvertimento, e spesso è illusorio. Mentre il bambino mette in atto strategie protettive, spesso l’adulto si suggestiona e si autoinganna. “L’interruttore dei sogni” è la capacità di chiamare il sogno in soccorso quando la realtà è insopportabile. È il fiammifero della piccola fiammiferaia che trasfigura le cose e crea l’oasi nel deserto. Il sogno di Eva è soprattutto un salvagente. Il fatto che sia un salvagente può far venire in mente che la bambina annegherà prima o poi, ma qualcuno potrebbe arrivare in tempo a salvarla. Il sogno fa sopravvivere, al momento presente. Poi non sta più al sogno fare il resto.

 

4) Quella di Eva potrebbe essere considerata una “storia di un confine”: racconta il confine tra la periferia e la città o tra la periferia e la campagna, il confine tra reale e irreale, il confine tra infanzia e adolescenza, il confine tra felicità e infelicità. Cos’è per te il confine?

“Confine”, “limite”… Sono parole che invitano all’oltre, al passo in più. Mi fanno pensare a quando si credeva che la Terra fosse piatta e che il mare finisse all’improvviso nel nulla. Quei pochi metri tra il mare e il nulla sono uno spazio ricchissimo. Il romanzo che sto completando ora è tutto scritto nella zona di confine. Del resto il confine tra reale e irreale è tracciato con il pennarello indelebile solo per chi è rigorosamente non credente e ha un approccio alla realtà mediato dai cinque sensi. Ma ci sono troppe cose non spiegabili con i cinque sensi e l’universo è pieno di mistero. Il mondo stesso degli affetti non passa soltanto per i cinque sensi. Mio padre, il giorno prima di morire, era perfettamente lucido e parlava con tutti noi delle solite cose, ma allo stesso tempo vedeva anche il fratello già morto, che gli ha spiegato per filo e per segno cosa c’è di là. Mio padre ci ha detto di avere capito tutto e di essere tranquillo. Eppure lui non era un credente ed era una persona molto razionale. E di sicuro non sapeva che sarebbe morto il giorno dopo.

 

5) Qual è il tuo personale “interruttore dei sogni”?

La lettura e la scrittura sono sicuramente un modo rapido per passare da un mondo all’altro. Io però non ho perso la capacità infantile di fare sogni a occhi aperti, lo ammetto con un po’ di vergogna.

 

6) Parlaci del tuo rapporto con la scrittura: hai avuto altre esperienze prima del Premio Italo Calvino?

 

La scrittura è sempre stata per me il Salvagente. È la stanza mentale che si trova nel punto di frontiera, sul confine tra felicità e infelicità, tra realtà e irrealtà, tra l’infanzia, l’adolescenza e l’età adulta. È una stanza situata in una zona sospesa, in una zona pericolosa che in qualche modo riesce sempre ad ammortizzare miracolosamente gli urti con la vita e con la realtà, soprattutto quando la realtà si fa soffocante e ci fa vedere solo il muro di fronte. Se la Terra fosse davvero piatta, la scrittura sarebbe la stanza costruita nel punto esatto in cui finisce il mare, il punto esatto dove oltre non c’è più niente.

Tra le esperienze precedenti al PIC posso citarne due: RicercaBo è stata la mia prima incursione nel mondo letterario e Donne di Penna è stata l’occasione per rompere il ghiaccio e provare a parlare in pubblico di un mio romanzo. Ho sudato freddo in tutti e due i casi, ma sono state due belle esperienze, certo per me faticose.

 

7) E poi è arrivato il Premio Italo Calvino. Hai partecipato a più di un’edizione: raccontaci il tuo lungo percorso.

Ho mandato ben cinque manoscritti al PIC, perché desideravo confrontarmi con qualcuno del mestiere che potesse darmi un’idea della validità e dei punti deboli del mio lavoro. Le prime schede mi sono state utili per capire come correggere il tiro. Non ho rapporti con l’ambiente letterario e volevo dei consigli veri, professionali. Del resto con gli editori è impossibile parlare, ricevono troppi manoscritti. Ho smesso quasi subito di rivolgermi a loro, credo che solo Moresco sia riuscito a farsi rispondere da un editore.

Penso che la mia soddisfazione più grande sia stata la finale della 27° edizione del PIC, ottenuta con il manoscritto intitolato Notte. Quando Mario Marchetti (oggi presidente dei Premio) mi ha telefonato, stavo guidando e ho rischiato di andare fuori strada per l’emozione. La vittoria della 29° edizione poi è stata del tutto inaspettata; man mano che chiamavano i finalisti e il mio nome non arrivava, mi cresceva dentro la paura. Non so perché in quel momento mi ha preso il panico, mentre la volta precedente ero al settimo cielo. A casa poi ho letto i giudizi di Angelo Guglielmi e di Paola Capriolo, e ho pensato che anche se non dovessi mai trovare un editore, potrebbe benissimo bastarmi la soddisfazione delle parole gentili che mi hanno dedicato.

 

8) Cosa è cambiato dopo il PIC?

Per ora non ci sono stati né contratti né progetti, se non quello di cercare un editore per L’interruttore dei sogni e per Notte, che ho riscritto e a cui sono molto legata. Mi è stato detto che una casa editrice importante aveva prenotato “L’interruttore dei sogni” nei primi giorni dopo la premiazione, ma poi hanno cambiato idea. L’entusiasmo dell’editor di quella casa editrice per il mio romanzo mi ha fatto comunque molto piacere, anche se non ha portato a risultati concreti. Speriamo che prima o poi un altro editore si faccia avanti.

 

9) Tu sei cambiata dopo la vittoria?

Sono sempre io, incorreggibile. Non basta una vittoria a cambiarmi, anche se l’apprezzamento del Premio Italo Calvino per il mio lavoro ha significato moltissimo per me. Ero in un periodo della mia vita in cui avevo un estremo bisogno che qualcosa mi andasse bene. Io leggo molto, credo che sarei in grado di farmi un’idea della qualità di un romanzo anche dalla lettura di poche pagine. Ma su quello che scrivo io, navigo al buio. In genere non mi fido molto del mio giudizio. Mi fido solo se è negativo.

Comunque sarò sempre grata al PIC per la fiducia che mi è stata dimostrata. Il Premio è gestito da persone che conoscono alla perfezione il mondo letterario e sono tutti molto scrupolosi nel lavoro di selezione. Loro non guardano solo a ciò che è commerciale e a cui possono trovare facilmente un editore. Credo che ormai sia impossibile arrivare a una casa editrice senza il tramite di un concorso importante, soprattutto se non si scrive esattamente in linea con il gusto attuale. Certo, in tutto ci vuole anche la fortuna.

 

10) In chiusura te la senti di dedicare un pensiero a Cesare Sinatti, vincitore come te della 29° edizione del PIC?

Cesare è poco più grande dei miei figli; è un ragazzo intelligente e determinato che sta puntando molto sulla sua formazione culturale. Non posso dire di conoscerlo bene, spero che avremo modo di frequentarci e di frequentare insieme il mondo letterario. Lo vedo un po’ come il mio opposto. Lui quando inizia a scrivere deve avere tutto il progetto pronto e anche negli studi mi pare che abbia le idee molto chiare. Io invece sono il tipo che cammina sempre nel buio, che spesso non ha idea di dove andrà e cosa farà, guidata soltanto dalla luce fioca di una candela. Gli auguro di avere successo e di vivere tante esperienze interessanti.


 

 

Martina Renata Prosperi

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – novembre 2016  – INEDITO

Illustrazione di Davide Lorenzon

Può succedere a chiunque, in qua e là nella vita, d’imbattersi in persone particolari, persone che magari non fanno nulla di eccezionale, eppure sanno rendere speciale tutto ciò che fanno.

Martina, a soli ventiquattro anni, è senza dubbio una persona così.

Lunigianese per nascita e milanese d’adozione, ha scelto di dedicarsi alle lingue e alle culture dell’Asia orientale, approfondite e vissute attraverso svariati viaggi che l’hanno portata a vivere per un intero anno a Taiwan.

Ma la sua inesauribile passione non si limita certo allo studio: Martina coltiva mille interessi diversi, tra i quali la scrittura riveste un ruolo di primo piano. Lei scrive da sempre, fin da bambina. E si sente.

Il romanzo con cui ha partecipato alla ventinovesima edizione del PIC, intitolato semplicemente Branchia, ha infatti ottenuto una meritatissima menzione speciale della giuria. Il suo testo, affascinante e profondo, dimostra una rara conoscenza dell’animo umano, sostenuta da una sensibilità talmente matura da spiazzare il lettore.

Branchia, sospeso tra realtà e fantasia, sa incantare e stupire, perché ci racconta con intensità toccante ciò che si agita al di sotto della superficie.

 

1) Fin dalle prime pagine sono rimasta colpita dalla varietà delle tue conoscenze: botanica, religione, filosofia, medicina, psicologia, zoologia, musica… E chi più ne ha, più ne metta. Perciò mi viene da chiederti: chi è Martina Renata Prosperi?

Una persona curiosa. Durante l’infanzia sono stata molto indecisa su cosa fare “da grande”; ho avuto voglia di diventare mille cose diverse, dal carabiniere alla biologa, dall’astronomo alla ballerina. Non esisteva una professione che non mi incuriosisse almeno un po’. Alla fine ho scelto di studiare le lingue, che sono strumenti per ascoltare le infinite esperienze altrui. E ho scelto di provare a scrivere, che è un modo per essere a mia volta ascoltata – o per ascoltare me stessa –, per passare parola, per dialogare.

 

2) Possiamo definire Branchia un metaromanzo? Può essere letto come “un romanzo nel romanzo”, oppure no?

In realtà non si tratta di “un romanzo nel romanzo”, ma di un romanzo che si sdoppia, quasi fosse una creatura dotata d’ombra o un’immagine leggermente fuori fuoco. Ginevra e Luca, due dei protagonisti, si trovano infatti a raccontare una storia che non “possiedono”, nel senso che non l’hanno inventata né voluta loro, una storia (quella di Branchia, appunto) che gli viene affidata per caso – anzi, per fortuna. Ma i personaggi di questa storia – e fra loro c’è appunto il “ragazzo con le branchie” – sono figure tanto vere (e tanto fittizie) quanto quelle dei loro apprendisti scrittori e delle persone “reali” cui si ispirano. Le due trame – e i personaggi che si muovono all’interno di esse – non vanno intese come “contenitore” e “contenuto”, perché sono intrecciate in un rapporto di compresenza. Branchia non va letto come una combinazione di scatole cinesi che ammicca alla logica del lettore, ma come un gioco di specchi e di riflessi incongruenti.

 

3) Una delle possibili chiavi di lettura poggia le basi sul tema della diversità: Branchia, Giulia, Alessia, Ginevra… Che sia per le condizioni fisiche o che sia per lo stato psicologico in cui si trovano, in qualche modo i tuoi personaggi sono tutti dei “diversi”. E tutti, nessuno escluso, portano avanti la loro lotta quotidiana.

In effetti non avevo mai pensato alla “diversità” dei miei personaggi in quanto tale. Voglio dire, ogni “diversità” è diversa dall’altra, e del resto non credo che al mondo esistano persone non-diverse: il contrario di diverso è uguale, ma uguale a chi? Branchia non ha i polmoni, Giulia e Alessia hanno un cuore difettoso, Ginevra ha uno stomaco riluttante, ma le figure che si occupano di loro non sono meno imperfette, o se preferisci, “diverse”: lo psicologo di Branchia, la madre di Giulia e Gabriel, Luca e Ginevra, non sono più liberi – né più felici – del paziente, dei figli o dell’amica che vorrebbero aiutare. La domanda da porsi, forse, non è “chi è diverso?”, bensì “chi è libero?”.

 

4) Questa domanda forse ti sembrerà un po’ strana, ma devo fartela: cosa rappresentano per te le tartarughe? Spuntano fuori di continuo, tra le pagine del tuo romanzo.

Le tartarughe, come il “ragazzo con le branchie”, sono l’incarnazione dell’irrazionale. Sono un dato di fatto (la vita è di per sé assurda: l’intento delle tartarughe che depongono le uova è utopistico, istintivo, seguito senza logica – e senza amore) ma sono anche una preghiera: la preghiera che quell’esistenza possa comunque iniziare, che il senso si possa costruire, che l’amore si possa volere. In Branchia le tartarughe sono i ricordi di una favola che Marie ha ascoltato da bambina, ma sono anche i talismani di legno che Giulia e Gabriel ricevono in dono da un musicista di strada. Sono simbolo di longevità e di lungimiranza, di pazienza, di forza. Sono la capacità di spingersi oltre, di attraversare gli oceani del dolore, ma anche di lasciarsi catturare – nella lunga traversata – da una rete dorata di luce, di inattesa e fuggevole gioia.

“Quando le tartarughe depongono le uova, non depongono mille vite. Depongono mille possibilità.”

 

5) Tra tutti i tuoi personaggi, qual è quello che ti somiglia di più?

Branchia, non ho dubbi. Branchia che abita nel mondo, eppure è separato dal mondo. Branchia che osserva gli altri vivere, ma senza trovare il modo di partecipare alla vita. Branchia, che è lo specchio nel quale ogni personaggio si guarda riflesso. Branchia che somiglia a tutti e a nessuno. Branchia che vorrebbe appartenere. Branchia che invidia l’amore. Branchia che libera, e che uccide. Branchia che inizia da me – proprio mentre nuoto come lui, nel grembo freddo e azzurro di una piscina – e che da me si separa, incarnando estremismi e trasgressioni che non mi appartengono ma che ho vissuto attraverso la sua storia, come un percorso di espiazione e di catarsi.

 

6) Come è nato questo romanzo? E perché hai deciso di mandarlo al Premio Italo Calvino?

Il romanzo è nato da un’immagine-simbolo: quella del ragazzo con le branchie. L’immagine dell’imperfetto, del prigioniero, dell’orfano che non appartiene a nessuno, a cui non spetta alcun rifugio né alcuna legittimazione a esistere. L’idea ha cominciato ad abitarmi fra la fine del liceo e il primo anno di università, mentre finivo di scrivere un altro lungo manoscritto, che è stato un po’ la palestra dei miei esperimenti. Nell’estate fra il primo e il secondo anno di università ho frequentato un corso di scrittura narrativa; a settembre ho iniziato a scrivere. Ho scritto tutte le mattine – a volte soltanto per mezz’ora, altre volte per un’ora o due – prima di uscire di casa e iniziare la mia vita “vera”, compresi i periodi di esami, lauree, partenze, Pasqua, Natale e Capodanno. In certi giorni mettevo insieme una frase, un paragrafo, una pagina. In altri giorni invece non riuscivo a scrivere nulla, oppure cancellavo la parte scritta il giorno prima. Sono andata avanti così per tre anni. Alla fine ho deciso di inviare il testo al Calvino perché desideravo un riscontro, e perché Giulia desiderava vivere.

 

7) Cosa ti aspettavi dal PIC e cosa ha significato per te partecipare?

Mi aspettavo una lettura, una scheda di valutazione, un incoraggiamento o un gesto di diniego. Dato il numero dei partecipanti, non mi aspettavo certo di arrivare in finale, anche se naturalmente ci speravo. Volevo scoprire se la mia scrittura avesse un qualche valore. Quando Marchetti mi chiamò, io non risposi; mi trovavo a Taiwan ed era quasi notte, non sapevo chi fosse al di là della cornetta e non volevo accollargli il costo di un’internazionale. Me lo disse mio padre, poco più tardi, su Skype: “Ha chiamato un signore del Premio Calvino…”.

Confesso: cominciai a ballare in giro per la stanza.

 

8) Sei davvero sicura di voler vedere pubblicato questo romanzo?

Certamente, mi piacerebbe. Non tanto, o non solo, per “vederlo pubblicato”, quanto per avere l’opportunità di lavorarci con altre persone, per imparare dal lavoro di editing. Pubblicare Branchia sarebbe per me un punto di partenza, la dimostrazione che le mie parole possono arrivare agli altri e portare loro quell’amicizia che io stessa chiedo alle mie letture. In fondo, per avere qualcosa da dire bisogna anche avere qualcuno a cui dirlo; Branchia è un biglietto in bottiglia che affido al mare. Forse andrà perso, ma mi piace pensare che qualcuno, trovandolo, potrebbe sentirsi fortunato e potrebbe fermarsi a raccoglierlo, per leggerlo.

 

9) Promettici che scriverai ancora.…

Per ora non ho mai smesso. Che si tratti di poesia, di racconti o di progetti con più ampio respiro, scrivere è per me un’attività di igiene quotidiana, il mio modo di dare ordine alle cose, per relativizzare le difficoltà della vita “vera”. Inoltre, l’idea a cui sto attualmente lavorando ha pure lo scopo d’iniziarmi a un nuovo aspetto dello scrivere: sto imparando che la scrittura può essere un percorso conoscitivo, perché non è sempre vero che si scrive di ciò che si sa, ma si scrive anche di ciò che ci rende curiosi, vigili, vivi.


 

Eugenio Raspi

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

Eugenio raspi è nato a Narni, all’alba del fatidico ’68.

È un uomo pacato, sempre disponibile, riservato, molto legato al lavoro e alle abitudini quotidiane della sua cittadina. Vive nella casa di famiglia che ha ristrutturato e possiede un orto e un giardino che non cura, ma che – giura – renderà stupendi quando il percorso della sua esistenza si sarà assestato.

E c’è da credergli, se intende farlo con la medesima costanza che ha speso nella costruzione del suo primo romanzo.

Sembra strano sentir parlare di assestamento a quasi cinquant’anni d’età, ma Eugenio lo fa con ragione: dopo vent’anni di lavoro, è stato licenziato dall’acciaieria a cui ha dedicato tanta parte della sua vita e ora fa molta fatica a trovare una collocazione che sia in grado di valorizzare la sua lunga esperienza lavorativa.

Ma nulla va sprecato, se non ci si lascia vincere; così lui si è messo a scrivere, a raccontare quello che ha visto e quello che ha imparato in fabbrica. Ne è venuto fuori Inox, un romanzo che sa farsi leggere e che, a leggerlo davvero, ci mostra una realtà posta sotto gli occhi di tutti e che forse, proprio per questo, non sappiamo guardare come dovremmo.

 

1) Tu hai lavorato per più di vent’anni in un’acciaieria simile a quella del romanzo, in un ambiente sociale e lavorativo molto simile a quello del romanzo; nel tuo testo che rapporto c’è tra autobiografismo e finzione narrativa?

Inox non è un romanzo autobiografico. Ciò nonostante, i personaggi rispecchiano tante figure che ho conosciuto nell’ambiente lavorativo, valutate da un punto di vista sia professionale che umano; in effetti c’è qualcosa di me nel personaggio di Sergio Asciutti, ma solo perché sono stato anch’io caposquadra, non certo perché ho un fratello che è amministratore delegato di una grande azienda. Spero che Inox sia apprezzato per avere una trama fittizia che si basa su fatti che possiamo considerare reali, il tutto senza l’utilizzo di filtri. Dato che ho vissuto direttamente la fabbrica e le lotte per il mantenimento del posto di lavoro, ho cercato di rendere il lettore un osservatore privilegiato, calandolo in un contesto che tanti vedono ma pochi conoscono davvero. L’immaginazione, nel mio testo, risiede nel processo di scomposizione e ricomposizione di tante vite, fornendo loro quella dignità letteraria che trasforma le persone in personaggi. Ho cercato di creare uno stretto legame tra il linguaggio tecnico – descrittivo dei processi e degli impianti – e quello narrativo; reinvento la fabbrica accostandola a un immaginario che vive al di fuori del perimetro dello stabilimento. Faccio un esempio: nell’incipit paragono l’ingresso in fabbrica di un operaio a quello di un fedele in chiesa, stessi dubbi che derivano dal ripetere gesti e atti che man mano perdono di profondità. Ciò accade se in entrambi – operaio e fedele – si va perdendo la “fede” in colui che sta in alto: credere in ciò che si fa – o ti dicono di fare – è alle fondamenta della struttura sociale dell’uomo, sia riferito alla concretezza di un’organizzazione aziendale che alla sacralità di un rito religioso.

 

2) Raccontare senza dire: non è facile come sembra. Tu non scrivi mai il nome della città in cui hai ambientato il racconto, ma la descrivi e la lasci intuire, a partire dal nome e cognome dell’acciaieria.

È un vezzo che dapprima ho utilizzato per sentirmi più libero nelle descrizioni; in seguito mi sono accorto che questo tipo di approccio dava un più ampio spessore alla fabbrica e alla città che, grazie ai contorni sfuocati, risaltavano ancor più. Non volevo che Inox si presentasse come il solito libro che parla di una realtà locale escludendone altre. I temi che affronto sono priorità di tanti territori; da Nord a Sud, in Italia gli operai parlano lingue diverse – molto spesso anche differenti dall’italiano – ma nutrono sentimenti che si possono riunificare nel comune desiderio del diritto al lavoro e della dignità nel ricoprire il proprio posto e la propria mansione. Le acciaierie di Terni che descrivo sono le tante fabbriche e le tante città che soffrono la crisi; il chiaro riferimento alla “mia” fabbrica e alla “mia” città viene fuori “a distanza”; non sottolinearlo fin da subito innalza entrambe a simbolo. O almeno spero che ciò accada, proporzionalmente all’efficacia del mio romanzo nel raccontare il particolare mondo del lavoro che ho vissuto. Credo che le descrizioni puntuali e vivide costituiscano un pregio del mio scritto. La forza descrittiva dell’ambiente in cui si muovono i miei personaggi è stata una nota di pregio che mi è arrivata direttamente dai lettori del Premio Italo Calvino, non solo attraverso il riconoscimento acquisito: con alcuni di loro ho avuto il piacere di discuterne dopo la finale, raccogliendo i loro apprezzamenti. Sono stati loro, in effetti, a identificare in questa caratteristica uno dei punti di forza del mio romanzo.

 

3) Cos’è la fabbrica? Più nello specifico: cos’è “Acciai Speciali”?

L’ho raccontata in Inox come meglio ho potuto. Sia la generica fabbrica, quale contenitore che trasforma i materiali utilizzando il lavoro delle persone allo scopo di ottenere un prodotto, sia la “Acciai Speciali”, che partendo dagli scarti di rottami ferrosi riproduce lamiere luccicanti che vanno sparpagliandosi per il nostro paese, raggiungendo ogni persona, di qualsiasi estrazione sociale o zona geografica; molti, in modo inconsapevole, lo toccano concretamente con mano, l’acciaio che esce dalle pagine del mio Inox. Mi sono focalizzato nel cuore produttivo dello stabilimento, i forni, con l’acciaio liquido che viene fuso e rilavorato. Io ho vissuto altre realtà, attigue a quelle che narro e non meno strategiche. Sono stati anni di pane e acciaio, in cui ho accumulato esperienza sul campo, confrontandomi con i vari livelli delle maestranze; sono partito dal basso e nel romanzo ho voluto mantenere questo livello di osservazione, l’ho ritenuto il più efficace. Nel mio libro c’è descritto un paese popolato da tremila anime che notte e giorno si apprestano a svolgere le loro funzioni, che devono porre da parte, una volta varcati i cancelli dello stabilimento, il loro essere persone con differenti problematiche o aspirazioni per assoggettarsi a ciò che la fabbrica ti chiede: fare e non pensare. Me lo sono sentito ripetere più volte in tanti anni, fino a che, una volta uscito da quella realtà, ho deciso che “pensare di fare” è alla base della riuscita di qualsivoglia progetto che si vuol portare a compimento. In questo caso specifico, si è trattato del mio romanzo.

 

4) La realtà operaia di oggi: il passaggio dalle lotte per i diritti dei lavoratori alle lotte per il mantenimento del posto di lavoro, tra nuove tecnologie e rischio costante di acquisizioni. E i sindacati? Quanto sei stato fedele alla realtà nel tuo romanzo?

La sincerità è alla base di tutto. Sono stato fedele alla mia idea di fabbrica e di ciò che vi ruota attorno, l’ho esposta senza dubbi o incertezze, schierandomi dalla parte di chi affronta le otto ore lavorative con lo sguardo su di un forno, dove si realizza materialmente il prodotto. Leggendo le pagine di Inox il lettore si farà la sua idea, il mio intento è di stimolare la riflessione e, perché no, un eventuale confronto o discussione, perché altri potrebbero avere una visione differente dalla mia, a partire dal ruolo dei sindacati, a mio avviso rimasti per proprie colpe – ma non solo – a margine del processo di mutazione che ha subìto la grande industria italiana, sempre più in mano a organizzazioni globali che non hanno altro da salvaguardare se non i rendiconti o i dividendi dei loro soci finanziatori.

Ognuno, dopotutto, sceglie il proprio punto di vista, anche se poi conta la realtà dei fatti. Uscendo dal contesto, se io e te fossimo davanti allo stesso acquario, ma su due lati opposti, fissi in un punto, ti provocherei dicendo che i fatti sono i pesci che nuotano e che noi osserviamo. Se i pesci fossero immobili, ognuno di noi due vedrebbe solo il lato esposto verso di sé. Se ci chiedessero di descriverli, riporteremmo ciò che osserviamo, nulla può assicurarci che il lato che ciascuno vede sia identico a quello di chi sta dall’altra parte della vasca di vetro, io potrei osservare il lato malsano e tu quello sano. Stesso pesce, diversa visione. È quasi un paradosso, perché i pesci non restano fermi, nuotano e si spostano, offrendoci nel tempo la possibilità del confronto. Quindi, ritornando alla domanda, la percezione della realtà che racconto è avvalorata dal lungo tempo di osservazione. In fabbrica ci ho vissuto ventuno anni, credo di essermi fatto un’idea ben chiara dei vari pesci – personaggi – che la popolano, e come tale l’ho voluta trasmettere al lettore.

 

5) Tra tutte le storie che tu – come tutti – ti porti dentro, hai scelto di scrivere proprio questa. Perché?

Volevo dare voce alla fabbrica, una sorta di omaggio alla sacralità del lavoro. Sapevo di certo cosa non volevo scrivere: niente che legasse il mio romanzo a morti dolorose di operai sul posto di lavoro, accostamenti troppo netti con persone che hanno subito vicende giudiziarie, pure eclatanti. Volevo raccontare una realtà che non si ciba della voglia di attualità e di cronaca da pomeriggio in TV, ma del sentimento che accompagna persone normali alle prese con decisioni che possono far perdere il lavoro o costretta ad accettare compromessi che magari non ti annientano, però ti fanno perdere la fiducia nelle regole del vivere civile. Perché l’ho scritto? Il passato di ognuno di noi nasconde rabbia, amore, odio, rimpianto. Inox fa parte del mio passato perché l’ho scritto due anni fa, ma è anche è il mio presente perché è uscito in questi giorni in libreria. E spero sia pure alla base delle mie prospettive future, quindi dentro ci sono tutti i sentimenti appena elencati che mi legano al mio trascorso. Mi è costato anni di scritture, di attese silenziose, per poi ottenere i primi riconoscimenti. Potranno confermarlo i lettori se davvero è valsa la pena attendere tutto questo tempo.

 

6) Tu, questo romanzo e il Premio Italo Calvino: raccontaci i momenti salienti del percorso. E detto tra i denti: c’è qualcuno tra i tuoi conoscenti a cui oggi vorresti “sbattere in faccia” il tuo Inox?

È doveroso ringraziare le persone che hanno creduto in me, nella mia storia, nel modo in cui l’ho voluta raccontare. Lo scrittore Giovanni Cocco (con La Caduta, edito da Nutrimenti, è stato finalista al Campiello nel 2013) è stato in assoluto il primo a leggere Inox, a valutarlo e a indirizzarmi nella giusta direzione, sia per quanto riguarda il testo, sia per i consigli sulla strada da scegliere per vederlo accettato e valorizzato. Devo ai suoi suggerimenti la mia partecipazione al Premio Italo Calvino. Ne conoscevo già la fama, e proprio per questo ne ero intimorito. Non ero pronto a sentirmi dire “no”, volevo aspettare. È stato lui a incoraggiarmi, portandomi a credere nella bontà del giudizio che sarebbe uscito dal Comitato di lettura. Ha avuto ragione in pieno.

Non posso negare che il giorno della finale ero soddisfatto di essere uno dei nove, ma allo stesso tempo speravo nel massimo; nell’attesa di conoscere il piazzamento, mi sono però concesso di dare una sbirciata alle parole di giudizio sul testo, la famosa scheda di valutazione, mentre il presidente Mario Marchetti ci informava su come si sarebbe svolta la cerimonia. Ne sono rimasto soddisfatto, allora come oggi, mi ha aiutato a rendere il mio lavoro ancora più incisivo. Vedere il proprio nome legato al Calvino è una conquista che nessuno potrà mai togliermi. Ci provassero!

A stretto giro di posta è arrivato il momento di veder crescere il mio “figlioccio”, di fargli muovere i primi passi nel mondo letterario. È accaduto per merito di Corrado Melluso, della Baldini&Castoldi, ha creduto fermamente e da subito nel romanzo, elogiandone contenuti ed esposizione. Nelle pagine finali del libro lo ringrazio, dicendo che le mie parole erano al buio e lui le ha portate alla luce. Ecco, se banalmente paragoniamo la pubblicazione a una nascita, Inox ha me come padre, ma per quanto riguarda i medici in sala parto ne ho da indicare due: Giovanni e Corrado.

Ps: i romanzi non si sbattono in faccia a chicchessia, meno che mai il proprio. Però non nascondo che, dopo aver subito scelte ingiuste, saprei individuare qualcuno che si meriterebbe un sonoro “richiamo” alla correttezza.

 

7) L’esperienza della pubblicazione: cosa hai imparato del mondo dei libri?

Che bisogna avere pazienza. La pubblicazione necessita di tempo. In fabbrica, mia unica (seppur pregnante) esperienza lavorativa, i ritmi sono sempre stati sostenuti. Nell’universo letterario gli orologi battono un tempo tutto loro. Dopo dieci giorni dall’uscita di Inox mi sembra che ogni cosa si stia svolgendo al rallentatore. Meglio così, forse, perché la lentezza rende ancora più apprezzabile ogni emozione – una buona recensione, un articolo che mi riguarda o le semplici parole di chi incontro e sta leggendo o ha letto il romanzo – mi donano una gioia molto diversa da quella provata grazie ai piccoli traguardi professionali raggiunti nella mia “prima” vita lavorativa. Colgo l’occasione per ringraziare tutti i professionisti che lavorano per la mia casa editrice, perché ho avuto l’ulteriore fortuna di sperimentare che in Baldini&Castoldi si respira un’aria a misura di autore, a partire dalla vitalità dell’ufficio stampa. Chiara Moscardelli e Anna Manfredini mi stanno aiutando moltissimo a districarmi nel difficile settore delle pubbliche relazioni, aspetto non secondario per veder apprezzato il proprio romanzo, ma allo stesso tempo tanto distante dalle mie corde emotive; sono una persona molto riservata, con una naturale propensione all’isolamento, che si sente a disagio in ambienti che non conosce. Loro, al contrario, sono una vera forza della natura.

 

8) Cosa desideri per la tua vita futura e quali sogni continui a coltivare?

Non scherziamo coi sentimenti. A scrivere non rinuncio. Così come all’idea che ci sia un’azienda in Italia che possa avvalersi dei miei servigi, come si diceva un tempo, pur se mi appresto a superare i cinquant’anni. In attesa di una chiamata, sto approcciando una nuova storia, per non perdere il vizio; mi rimane – anzi è aumentato – il proposito di dare visibilità a ciò che credo meriti di essere raccontato. Se avrò una seconda opportunità, di certo non mi discosterò dai temi che riguardano le persone e questi tempi di crisi: il lavoro, la famiglia, la necessità di modificarsi per non svilire le opportunità. Magari stavolta osserverò la fabbrica dall’esterno, come sta accadendo dopo il mio licenziamento. E può essere che la osservi con gli occhi di chi in fabbrica non c’è mai stato e mai vorrà entrarci.


 

 

Simona Rondolini

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – gennaio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Simona Rondolini è nata nel 1970 a Perugia, dove vive tuttora. Si è laureata in Filosofia, qua e là ha scritto racconti e fino al 2010 ha lavorato nell’attività commerciale di famiglia. Quando ha ripreso a scrivere, ha terminato un romanzo dormiente e l’ha inviato alla 26° edizione del Premio Italo Calvino, ritrovandosi finalista con tanto di menzione speciale della Giuria. Il romanzo è stato pubblicato da Elliot nel 2014 con il titolo Dovunque, eternamente e l’anno successivo è stato segnalato alla 27° edizione del Premio Città di Cuneo per il Primo Romanzo.
Nell’agosto del 2016 ha pubblicato La stanza di Amelia, di nuovo con Elliot.
Quando non scrive legge, ascolta musica, corre o cammina, accarezza gatti raramente consenzienti, va al cinema e sforna muffin. Gli unici profili che ha sono il destro e il sinistro. Non ha uno smartphone e si ostina a preferire i romanzi alle serie tv.

1) Partiamo subito dalle tue protagoniste: Olga e Laura da una parte, Amelia e Rosalia dall’altra. Due romanzi, due storie di rapporti contrastanti tra madre e figlia.

In Dovunque, eternamente la bellissima Olga, razionale e controllata, agli occhi della figlia Laura rappresenta tutto ciò che lei non riesce a essere. In realtà, Olga deve lottare costantemente contro le proprie imperfezioni e la propria emotività: quando le riconosce in sua figlia, non sa fare altro che rimproverarla e allontanarla da sé. Anche nel nuovo romanzo, è come se Rosalia e la madre Amelia per definire se stesse dovessero essere ognuna il contrario dell’altra. Così non vedono ciò che invece le accomuna: la passionalità, l’impulsività, l’impazienza del desiderio. In effetti, queste madri e queste figlie sono molto più simili di quanto credano, ma se ne rendono conto solo quando è troppo tardi.

Non si può negare, nei tuoi due romanzi le donne hanno sempre un ruolo di primo piano, mentre agli uomini, sebbene fondamentali per l’intreccio narrativo, riservi spesso ruoli secondari.

 

2) Anche se protagoniste sono le donne, dal loro punto di vista gli uomini (Luigi, il padre di Laura nel primo romanzo ed Ettore, l’amore di Amelia nel secondo) sono enormi.

Solo che la loro è un’enormità dell’assenza e della nostalgia: è il loro non-esserci a proiettare ombre lunghissime, quasi schiaccianti, sulle vite delle protagoniste. Ne La stanza di Amelia, ad esempio, è proprio l’uomo più fragile (Tommaso) a imprimere una svolta alla storia, ritrovando il quaderno in cui Amelia ha scritto i suoi segreti, scoprendo così ciò che lei ha taciuto per tutta la vita.

 

3) In entrambi i romanzi hai affidato all’arte un compito espressivo di grande rilievo: la musica è quasi co-protagonista in Dovunque, eternamente mentre la scrittura diventa una seconda voce ne La stanza di Amelia.

Se non mi fosse capitato di ascoltare la Nona di Mahler dal vivo e di innamorarmene, la musica probabilmente non avrebbe avuto un tale peso nel mio primo romanzo. Volerne scrivere senza averla mai studiata è stata quasi una forma di autolesionismo, ma nello stesso tempo credo che senza quell’ascolto ossessivo di Mahler (poi di Schubert e Bach) non sarei riuscita a finire il romanzo: una cosa nutriva l’altra, non so bene come. Per quanto riguarda Amelia, inizialmente la vedevo come una figura di sfondo. Poi ho sentito la sua voce in prima persona ed è stato inevitabile immaginare che si trattasse di parole scritte su un quaderno, di notte, nel chiuso di una stanza. All’invadenza di Mahler ho ceduto subito, contro quella di Amelia ho combattuto a lungo.

 

4) Come hai gestito la costruzione dei personaggi?

Non ho una regola precisa. Di rado i personaggi si presentano sotto forma di voce netta e imperiosa, come Amelia. Più spesso capita che la voce sia parte di un dialogo, come nell’incipit del mio primo romanzo; allora comincio a costruire il personaggio da lì. Oppure può trattarsi di un ragionamento del personaggio, di un suo pensiero ricorrente, o di un tic verbale che suggerisce qualcosa di importante su di lui: per esempio, il “finiscila, stupida” di Amelia rivela l’asprezza del suo carattere. Rosalia invece è nata da una frase lapidaria: “Rosalia è una cattiva madre”. Spesso costruisco un personaggio a partire da una sua abitudine magari bizzarra, come ho fatto con Laura, che cammina seguendo le persone in strada, o con Tommaso che colleziona oggetti buttati via dagli altri. I miei personaggi dicono di me tutto e niente, forse, ma non vorrei saperlo con precisione. Mi sembra che la scrittura migliore accada quando vita e scrittura si intrecciano in modo misterioso, senza che chi scrive ne abbia troppa consapevolezza.

 

5) Tema fondamentale: la famiglia, i suoi valori e la crisi dolorosa che emerge dalle tue storie.

Scrivo spesso di famiglie perché comunque è lì dentro che cominciamo a costruirci come persone. Sia la famiglia di Laura nel primo romanzo, sia quella di Rosalia nel secondo, sono in apparenza perfette, ma nascondono segreti e malfunzionamenti profondi; anche qui, come spesso accade, più vengono negati e più si ingigantiscono. Verso la fine de La stanza di Amelia, invece ho voluto raccontare una famiglia slegata dai ruoli tradizionali, un nucleo d’affetti insolito eppure accogliente, rispettoso dell’identità di ciascuno.

 

6) L’amore e i suoi vari volti, uno per ogni donna, ma forse anche uno per ogni uomo dei tuoi romanzi.

Nel primo romanzo, l’unico amore di Laura è quello senza speranza che prova per il padre. Il mondo in cui vive Luigi è troppo in alto perché Laura possa abitarlo insieme a lui, nonostante condividano la passione per la montagna e per la musica, nel breve tempo a disposizione prima che il loro rapporto si interrompa tragicamente. Ne La stanza di Amelia, l’amore di Amelia per Ettore è invece molto carnale: il desiderio irrompe nella sua vita come una febbre del sangue; lei in un primo momento si lascia travolgere; in seguito però, a causa di un evento tragico, sceglie di ritrarsi e sarà proprio questa negazione del desiderio a condizionare la sua vita successiva. Anche Rosalia è spinta – lei fin da giovanissima – a cercare gli uomini, come se la madre le avesse trasmesso la sua stessa malattia. Al contrario di Amelia, Rosalia accoglie il desiderio e lo usa consapevolmente per dare e ricevere piacere. Tuttavia è costretta a metterlo alla prova con uomini sempre nuovi, nell’illusione di ritrovare l’incanto della prima volta o, forse, di tenere a bada l’angoscia.

 

7) Che rapporto hai con i tuoi due romanzi?

Scrivere Dovunque, eternamente è stato difficile; la musica era un problema ma anche una fonte di ispirazione, una guida, un sollievo dalle troppe parole. L’ho terminato per me stessa, senza avere niente da perdere. Invece poi, quando ho ripreso a lavorare su La stanza di Amelia dopo la pubblicazione del primo romanzo, ho sentito subito il peso delle mie aspettative e una sorta di frenesia nel voler superare il vuoto lasciato dall’altro libro; questo l’ha reso molto faticoso da scrivere. Amo moltissimo Dovunque, eternamente, non solo per le parole e le persone che racchiude al suo interno, ma anche perché ha l’irripetibile magia della prima volta. Però amo ancora di più La stanza di Amelia, come farebbe un genitore con un figlio un po’ goffo che sconta il confronto con un ingombrante fratello maggiore.

 

8) Raccontaci qualcosa della tua avventura con il Premio Italo Calvino.

Avendo scritto per molto tempo di nascosto o quasi, quando ho terminato il primo romanzo ho avvertito subito l’esigenza di sottoporre le mie pagine a uno sguardo esterno, neutrale. In quel momento essere giudicata mi sembrava più urgente che essere pubblicata. Le schede di valutazione che il Premio Calvino invia a tutti i partecipanti, e il fatto che i manoscritti vengano esaminati da molti Lettori, mi hanno convinto a partecipare. Arrivare in finale è stata una sorpresa bellissima ma piuttosto terrorizzante, come se avessi messo in moto qualcosa di troppo grande senza rendermene conto. Alla fine, sapere che avevo vinto “solo” una menzione speciale della Giuria e non il Premio, è stato un vero sollievo!

 

9) Come sei arrivata alla pubblicazione del primo romanzo?

Dopo la premiazione, niente poteva più stupirmi. Così ho reagito con relativa tranquillità alla proposta di pubblicazione. Più traumatico è stato il primissimo impatto con l’editor, il quale mi ha messo di fronte alla necessità di riscrivere l’ultima parte del romanzo. Sul momento mi pareva impossibile, oltre che ingiusto. Mi sbagliavo completamente. Non ho mai vissuto un’esperienza tanto stimolante come quella riscrittura e quell’editing. Ho imparato che mettere in discussione ciò che si crede immutabile può mostrare vie più difficili, ma forse più autentiche. E che per ottenere maggiore chiarezza non serve aggiungere parole, piuttosto bisogna toglierne qualcuna.

 

10) Con il secondo romanzo com’è andata?

Dopo la pubblicazione del primo romanzo pensavo ingenuamente di potermi servire dell’esperienza precedente. Invece con La stanza di Amelia mi sono trovata a dover ricominciare da zero, con un senso di inadeguatezza perfino maggiore e una gran solitudine. Temo che ogni tentativo di scrittura sia unico e diverso; ogni volta si deve imparare di nuovo tutto daccapo. E quindi continuerò a provarci.

 


 

Carmela Scotti

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – dicembre 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Nata a Messina nel 1973, Carmela Scotti è una donna dalle mille sfaccettature che passa con disinvoltura dal pizzo chiacchierino alla cronaca nera, senza disdegnare profumate incursioni nel mondo della pasticceria. All’età di diciotto anni se n’è andata di casa per trasferirsi a Palermo, dove si è mantenuta facendo un’infinità di lavori, dalla commessa alla bibliotecaria, dall’insegnante di fotografia in una struttura per disabili mentali all’operatrice telefonica per le vecchie linee erotiche 166. Oggi è una splendida neomamma che vive in Brianza e che lavora per i settimanali Cronaca Vera e Tu Style.
Il suo primo romanzo ha meritato l’ingresso nella rosa dei finalisti nella 27° edizione del Premio Italo Calvino, piazzamento che l’ha condotta fino alla pubblicazione con Garzanti, all’interno della collana Narratori Moderni. Con L’imperfetta, Carmela ci trascina in un mondo arcaico e misterioso, capace di grande dolcezza e di opprimente violenza, raccontato con un linguaggio potente e sincero che, in un modo o nell’altro, sa lasciare il segno sulla pelle dei lettori.

N.d.R.: Sempre per Garzanti, è uscito a marzo 2018 il suo secondo libro Chiedi al cielo.

1) Iniziamo subito da lei, Catena, la tua protagonista: chi è? E perché è “imperfetta”?

Catena è la rappresentazione vivente dell’infanzia e dell’adolescenza negata, della forza titanica che nasce dalla consuetudine con il dolore. Catena è un’adolescente che lotta per non essere sopraffatta dalla brutalità del mondo adulto, che resiste, cercando di rivendicare il suo diritto di sognare, di amare, di sperare che possa esistere un lieto fine al di là del territorio minato della sofferenza in cui si svolge la sua esistenza. Catena è “imperfetta” perché è una donna nata “storta”, cresciuta “storta”, una ragazza “selvaggia” come la natura in cui si muove, ma indomita, nonostante tutto, perché sa che il suo eterno andare, il suo cadere e rialzarsi quotidiano, rappresentano un percorso di crescita che la porterà a costruire un ponte verso il futuro, a lasciare nel mondo un segno del suo passaggio, una possibilità di riscatto e di guarigione dalle ferite che la vita non le ha risparmiato.

 

2) Come hai creato il mondo di Catena, sospeso tra magia, contatto con la natura e tradizione popolare?

Catena vive in un mondo arcaico, fondato su un legame profondo con una terra magica e complessa qual è la Sicilia. Nel suo viaggio Catena si porta dietro un bagaglio di conoscenze legate principalmente alla medicina popolare ed è grazie a quel bagaglio che riesce a sopravvivere a ogni vicissitudine, ricordandoci in ogni momento che la Natura può essere una magnifica compagna di viaggio, madre ma anche matrigna, generosa quanto crudele. Quando nella mia mente ha preso corpo la trama del romanzo, è arrivata immediata l’idea di ambientarlo in Sicilia, la terra nella quale sono nata e alla quale ritorno ogni volta che una storia “mi frulla in testa”. Credo che la Sicilia, con le sue mille contraddizioni, sia una terra profondamente “letteraria”, abbagliata da un sole potente e segnata da ombre nerissime, da leggende magiche e “stregonesche” che la rendono irresistibile. Nascere e crescere in Sicilia implica inevitabilmente una consuetudine con le tradizioni e le credenze popolari. Una mia vicina di casa, per esempio, metteva e toglieva il malocchio a chiunque le chiedesse aiuto, ed era anche un’esperta nella lettura del futuro dentro alle tazzine del caffè. Ricordo che passavo ore a guardarla, ad ascoltare le storie che quei rimasugli limacciosi sapevano raccontare…

 

3) Il cuore centrale del tuo libro può essere riassunto in due parole: “violenza” e “famiglia”. È un binomio terrificante eppure sempre presente, dalla notte dei tempi ad oggi.

Oggi, come ieri, la violenza in famiglia è rimasta una spaventosa costante che accomuna epoche e aree geografiche lontanissime tra loro, come un virus che resiste ad ogni cura e che contamina tutto e tutti. L’idea che il male cresca e prolifichi all’interno della famiglia, proprio in quel nido deputato a proteggere e accogliere, mi ha sempre fatto molta impressione (a maggior ragione adesso, che a me – in quanto madre – è affidata la cura di un altro essere umano) e per questo ho deciso di affrontare il tema nel mio romanzo, mostrando quali conseguenze terribili possa generare una violenza covata ed esplosa nel recinto familiare, e quali, e quante, ferite laceranti gli abusi possano aprire sulla pelle e nel cuore di un’adolescente.

 

4) Due delle caratteristiche più evidenti del tuo testo sono la potenza espressiva e la crudezza delle immagini. Perché, tra tutte le modalità possibili, ne hai scelta una tanto violenta per raccontare questa storia?

Le storie “dure” sono sempre molto complicate da gestire, sia per chi le scrive sia per chi le legge. Ma credo anche che, se raccontate nel modo giusto, sappiano lasciare nel lettore un segno profondo e fecondo; è un po’ come piantare un “seme” e aspettare che qualcosa spunti dal terreno. Se ho deciso di affrontare certe “tematiche” è perché le ho sempre sentite “vicine”, ne conosco modalità e linguaggio da quando, malauguratamente, sul mio cammino ho incontrato una persona che mi ha mostrato il lato più “feroce” del mondo adulto. Dopo quell’esperienza, nella mia vita sono cambiate tante cose, alcune sono andate perse e altre si sono rafforzate, ma di sicuro non ho mai permesso ai brutti ricordi di prendere il sopravvento. La mia forza di volontà è diventata quella di Catena, insieme alla convinzione che valga sempre la pena andare avanti. Solo così ciò che all’inizio è “sopravvivenza” può diventare una strada percorribile per cominciare a “vivere” davvero.

 

5) Il periodo storico in cui vive Catena presenta molti tratti tipici dell’Ottocento, sebbene in qua e là la collocazione temporale della storia assuma sfumature diverse che rendono difficile un’esatta collocazione della vicenda. Come mai questa sorta di commistione temporale?

In realtà, più che in un periodo storico preciso, mi piaceva che la vicenda di Catena si svolgesse in un passato arcaico, selvaggio e oscuro, un luogo che fosse l’equivalente geografico dell’animo di Catena, il riflesso, l’eco e l’origine delle sofferenze da lei vissute e della sua voglia di riscatto. Per questo mi sono concessa delle libertà rispetto alla coerenza storica, introducendo (soprattutto nel finale) elementi che sembrano provenire da altre epoche e che cancellano i recinti della storia, conducendoci in una fiaba nera che si allarga e si gonfia al di là del tempo e dello spazio.

 

6) Quali sono i tuoi modelli letterari di riferimento?

Ho sempre letto moltissimo e questo amore per la lettura è stato fondamentale in tutto il processo creativo che ha preceduto la stesura del romanzo. I miei modelli letterari di riferimento sono molteplici, proprio perché il mio amore per la letteratura non conosce, per fortuna, recinti e confini: di recente ho scoperto – e amato alla follia – la Sicilia magistralmente raccontata da Dacia Maraini ne La lunga vita di Marianna Ucria, così come ho amato il Curzio Malaparte de La pelle, o il Dino Buzzati di Un amore. Ho poi una passione viscerale per Victor Hugo, Joyce Carol Oates, Stephen King, Truman Capote, Richard Yates, Joseph Conrad, Cormac Mccarthy, e per le “storiacce sanguinolente” di cronaca nera. Non per nulla collaboro da anni con il settimanale Cronaca Vera.

 

7) Parlaci del percorso del tuo libro: è stato difficile scriverlo?

Il nucleo del libro ha preso forma da un fatto doloroso, la morte di mio padre, e dalla necessità di trasformare un lutto in qualcosa di “vivo”, in una vicenda che se ne andasse in giro sulle proprie gambe per lasciare un piccolo segno nelle vite di chi decidesse di ascoltarne la voce. Mentre il romanzo prendeva forma nella mia testa, ho cercato di capire come, e se fosse possibile, rendere “dolce” il dolore che sentivo, e ho capito che l’unica strada percorribile era trasformare quel dolore in parole, nella storia d’amore tra un padre e una figlia. All’inizio lavorarci è stato doloroso, soprattutto quando dovevo descrivere la malattia del padre di Catena, ma poi mi sono resa conto che il dolore si diluiva man mano che andavo avanti nella stesura, fino a diventare un pensiero non più lacerante ma “dolce”, dalle punte smussate.

 

8) Perché alla fine hai inviato L’imperfetta al Premio Italo Calvino?

Prima del Calvino, ho mandato il romanzo ad alcuni agenti letterari nella speranza che potesse raggiungere il traguardo della pubblicazione, ma ho sempre e solo ottenuto porte in faccia o suggerimenti velati a “lasciar perdere”. Devo dire, a onor del vero, che alcuni consigli ricevuti da parte di qualche agente letterario mi sono serviti per modificare le parti della storia che non funzionavano, e quando ho ritenuto che la storia fosse pronta l’ho spedita al Premio Italo Calvino, naturalmente senza alcuna speranza che venisse preso in considerazione, men che meno che arrivasse nella rosa dei nove finalisti.

 

9) Cosa ti ha dato il PIC e cosa ha significato per te parteciparvi?

Come dico sempre, arrivare in finale al Calvino è stato come trovare l’ultimo biglietto dorato per entrare nella fabbrica di cioccolata di Willy Wonka. Per me, che mi sono sempre dedicata, anche per lavoro, a una attività tanto “solitaria” come quella della scrittura, trovarsi a contatto con tanta altra gente che condivide la passione per le “strade di carta” è stata un’esperienza corroborante, che mi ha rigenerato e regalato un confronto prezioso con altri punti di vista, altre idee, altri modi di vedere, leggere e scrivere il mondo. Dopo il Calvino, ho ricevuto diverse proposte di pubblicazione da parte di alcune case editrici, ma quando ho conosciuto la meravigliosa Elisabetta Migliavada, direttrice della narrativa Garzanti, non ho avuto più dubbi sulla direzione da prendere.

 

10) Adesso che il tuo romanzo è stato pubblicato, che effetto ti fa vederlo lì, concreto, tra le tue mani? Lo senti ancora tuo ora che chiunque può leggerlo?

Vedere il romanzo vestito “a festa”, impaginato, “copertinato” e pronto ad andarsene in giro sulle proprie gambe è stata un’emozione fortissima, di cui ancora oggi, nonostante siano passati parecchi mesi, non mi rendo bene conto, come se fosse un sogno dal quale mi posso dolorosamente svegliare per scoprire che niente di tutto questo è successo davvero. Adesso che L’imperfetta è stato pubblicato, lo sento mio più che mai, perché si è nutrito dei commenti, delle recensioni, delle risposte dei lettori, diventando un organismo “vivente” che cambia, si arricchisce, muta pelle, respira, insegna (e mi insegna) ogni giorno cose diverse, a seconda di chi lo legge e di quello che ha provato davanti alla storia di Catena. Non temo nulla per L’imperfetta, prima di tutto perché ho lasciato Catena a guardia delle pagine, e poi perché so di aver dato al romanzo gambe solide sulle quali reggersi e con le quali affrontare i giudizi dei lettori. Nonostante l’apparente “durezza” del romanzo, sono fiera di aver dato corpo e voce al personaggio di Catena e alla sua voglia di vivere, che spero contagi tantissimi lettori.

 


 

Cesare Sinatti

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – settembre 2016 (con Pierini)

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Cesare Sinatti è un giovane uomo dallo sguardo dolce e dal sorriso discreto, laureato in Scienze Filosofiche e attualmente dottorando in Filosofia Antica all’università di Durham. La passione per la filosofia antica, che ancora domina le sue scelte di vita, lo ha condotto fino a Chicago, dove ha vissuto e studiato per un intero anno.

Stupisce che un venticinquenne si dedichi con tanta tenacia a una branca così lontana da quelli che sono i più comuni interessi attuali; stupiscono il linguaggio, l’intensità e la forza della sua scrittura, che nella mitologia e nella letteratura classica trova la sua fonte d’ispirazione.

Non stupisce perciò che la giuria della 29° edizione del Premio Italo Calvino lo abbia eletto a vincitore, in ex aequo con Elisabetta Pierini che conosceremo nel prossimo numero della rubrica. Con il suo manoscritto intitolato La Splendente, Cesare ripercorre l’epoca della Guerra di Troia, gettando una luce nuova e inattesa sui fatti e sui personaggi che hanno animato una delle vicende più affascinanti della cultura greca, da cui tutti noi in un modo o nell’altro discendiamo.

 

N.d.R.: La Splendente è stato pubblicato a gennaio 2018 per Feltrinelli.

 

1) Con il tuo romanzo hai voluto recuperare una sezione della mitologia greca per riscriverla secondo la tua personale sensibilità. Perché hai scelto questo percorso?

Ho scritto un romanzo a tema mitologico perché mi appassionano la mitologia e le religioni antiche, in particolare quella greca. Il mito ha questa misteriosa qualità di continuare a essere affascinante attraverso le epoche storiche: ci sono storie che continuano a dirci qualcosa, anche quando non riguardano più direttamente il nostro tempo e la vita che viviamo tutti i giorni. La vita degli eroi omerici, per esempio, era molto diversa dalla nostra. Nonostante ciò, continuiamo a interessarci a loro, ci appassioniamo alle loro vicende, le raccontiamo. Questo perché in un certo senso si tratta di storie che continuano a parlare di noi, a dire qualcosa su cosa significa essere umani. Il “gioco” che ho cercato di realizzare col mio romanzo è il “gioco” che il mito ha sempre realizzato attraverso il tempo, cioè produrre una serie di risonanze e associazioni fra certe situazioni del mito e certi aspetti della vita. La vita è l’argomento di cui volevo parlare, prima di tutto: volevo descrivere cosa significa amare la bellezza nella vita, cosa significa perderla. E, soprattutto, cosa significa fare una guerra per riconquistarla.

 

2) Da dove nasce la tua passione per la cultura greca e per l’età classica?

Mi ha sempre interessato l’attenzione che l’età classica aveva per ciò che è “umano”, per cosa significa essere umani e vivere da esseri umani. Pierre Hadot diceva, ad esempio, che la filosofia antica era essenzialmente un “modo di vivere”. In un certo senso questa attenzione per la vita ha caratterizzato tutta l’età classica e le età che si sono ispirate ad essa, come il nostro Rinascimento. In un certo senso, mi pare che nell’antichità ci si preoccupasse di cosa significava essere umani, di come si dovesse vivere. Secondo me, i miti si raccontano ancora e sono così interessanti perché hanno sempre qualcosa da insegnare sulla vita, perché attraverso immagini “fantasiose e fantastiche” riescono a dirci così tanto di noi stessi. Quanto è umano Icaro che vola troppo vicino al sole? Possiamo credere che sia solo il personaggio di una vecchia storia greca, ma la sua temerarietà può essere riconosciuta nella gioventù di ogni epoca, forse anche della nostra.

 

3) Pur basandoti su ciò che è dato per assunto in merito alla Guerra di Troia, hai ridisegnato molti dei personaggi che l’hanno animata: come hai condotto la loro ricostruzione?

La maggior parte delle immagini significative sono venute dalla lettura dei testi classici, quello che ho fatto io è stato più che altro ricucire assieme le diverse versioni della storia per costruire un coro. Una delle bellezze dei miti è che esistono versioni alternative di una stessa vicenda. Il mio tentativo è stato più che altro quello di mescolare quelle in grado di rendere più semplice la costruzione di associazioni e risonanze attorno ai temi che mi interessano. L’aspetto più lontano dal mito classico è, probabilmente, la psicologia dei personaggi. È difficile dire cosa stia alla base di una psicologia fittizia come quella di un personaggio di un romanzo. In parte si tratta, certamente, di imitare qualcosa della realtà: in questo senso i personaggi ci risultano familiari. A me interessava mettere in gioco psicologie che sembrassero reali, all’interno di una vicenda mitologica fittizia. Il problema è che non è mai veramente chiaro quanto queste psicologie fittizie dipendano dalla realtà o siano invece ispirate dalle immagini del mito, e quanto le immagini del mito che ho scelto siano state scelte a loro volta perché richiamavano qualcosa della realtà. Parte del divertimento, nel comporre questo romanzo, è stato vedere come davvero qualsiasi cosa, dalle letture che facciamo alle persone che abbiamo incontrato, finisca poi per partecipare più o meno consciamente alla costruzione di una storia.

 

4) Hai intitolato il tuo manoscritto La Splendente, riferendo questo solenne attributo alla figura di Elena. Perché Elena è la Splendente?

Prima di tutto Elena è la Splendente perché lo dice il suo nome. Una delle possibili etimologie del nome lo fa risalire al greco ἑλένη (helene), che significa “torcia”, “fiaccola”. Il nome può quindi essere ricollegato all’idea di qualcosa che splende, da lì il titolo. Elena è la figura principale, il motore delle vicende degli uomini, ma non diventa mai un vero e proprio personaggio, resta sempre in qualche modo distante. Ho cercato di ricollegarla a tutta una serie di concetti, ma di fatto quella di Elena è un’immagine inesauribile. Volevo dare l’idea di un “oggetto” assolutamente incorruttibile, che continua a brillare anche quando tutto sembra perduto. La mia Elena non è la “cagna” traditrice di suo marito, come lei stessa si definisce nei poemi, né il simulacro senza corpo di Euripide. È una luce, prima di tutto, che brilla tanto più intensamente quanto più l’orrore le si oppone.

 

5) Tu cosa pensi di aver imparato dalla storia passata, soprattutto da quella greca?

Io mi sono interessato principalmente di storia mitologica per cui, in un certo senso, non mi sono occupato di “Storia” vera e propria. Però, a guardare bene, il meccanismo con cui la storia in generale ci insegna qualcosa non è tanto diverso da quello dei miti. Impariamo dalla “Storia” così come impariamo dalle storie, ovvero perché riconosciamo delle somiglianze fra elementi del racconto e elementi della nostra vita. In questo senso, tutte le storie dicono sempre qualcosa su di noi. Quella che ho scritto è principalmente la storia di una guerra, la Guerra di Troia. Ora, questa guerra può significare tutto e ha significato tutto, nel corso del tempo. Il modo in cui io, nello specifico, ho voluto parlarne è legato a un certo modo doloroso di vivere e abbandonare la giovinezza, è legato al desiderio e alla necessità del sacrificio, alla nostalgia per una bellezza scomparsa da riconquistare.

 

6) Qual è il tuo personaggio preferito e perché, tra quelli che hai trattato nel libro?

Achille è probabilmente il personaggio a cui sono più affezionato, anche al di là del mio romanzo. C’è qualcosa di tragico nel modo in cui tutto quello che fa viene continuamente frustrato. Achille è il migliore fra gli Achei, ma nulla gli riesce facile. Ho cercato di riprendere un po’ questo concetto della frustrazione e di raccontarlo in maniera diversa. Il mio Achille non è esattamente quello classico, passionale, irascibile. È ancora un personaggio dalle emozioni violente, ma principalmente perché è quello che più intensamente percepisce la paura della morte e del dolore, e che più intensamente la combatte. Un altro personaggio che mi è piaciuto molto è Odisseo. La sua lotta è diversa da quella di Achille perché è più silenziosa, è una lotta di resistenza. Odisseo sa che tornerà a casa, ma sa anche che dovrà attendere vent’anni. Sono due figure molto diverse e forse per questo mi sono piaciute così tanto. Mentre Achille deve affrontare un solo istante terribilmente spaventoso (quello della morte che gli è stata profetizzata), Odisseo si trova invece combattere non contro il fatto che il tempo gli abbia sottratto qualcosa, ma con lo scorrere stesso del tempo: la sua prova è saper attendere, saper resistere durante i vent’ anni necessari per il ritorno a casa. Sono anche simili, però: Achille non si arrende alla paura della morte, Odisseo non cede alla paura di una vita dolorosa.

 

7) Usciamo dal libro e parliamo di te: perché hai deciso di partecipare al Premio Italo Calvino? E perché tra tutti i concorsi possibili hai scelto proprio il Calvino?

Quello del Premio Italo Calvino è uno dei primi nomi che compaiono quando si cerca un concorso per esordienti o un’occasione di pubblicazione, soprattutto se si ha un po’ di familiarità con Internet. È uno dei premi più conosciuti ed è uno dei pochi in cui viene comunque consegnata a tutti i partecipanti la scheda di lettura del romanzo. Insomma, ci sono ottimi motivi per partecipare, se si ha un romanzo inedito da far leggere a qualcuno che non sia un amico o un parente, per ricevere un giudizio valido e professionale. Ho scelto di partecipare con La Splendente principalmente perché stavo terminando la prima stesura del libro proprio nel periodo in cui scadeva la partecipazione al premio. Inoltre la quota di partecipazione alla 29° edizione era stata diminuita per i giovani sotto i venticinque. Mi sono sembrate coincidenze interessanti, così ho deciso di provare.

 

8) Cosa ti ha dato il Premio Italo Calvino?

In realtà non lo so ancora, il percorso è appena iniziato. Poter pubblicare è un traguardo, ma anche un inizio: non so cosa succederà da qui in poi e ho molta voglia di scoprirlo. L’aiuto da parte di quelli del Calvino è, ovviamente, grandissimo. In qualche maniera è grazie a loro se si riesce a infrangere la barriera del primo contatto con gli editori. Purtroppo per ora non so dire molto di più, perché quello che accadrà è tutto da scoprire.

 

9) Dalla vittoria alla futura pubblicazione: cosa sta succedendo a te e al tuo manoscritto?

Per ora ho avuto un importante incontro con la casa editrice Feltrinelli e ho firmato il contratto. Il lavoro vero e proprio sul libro ha i suoi tempi e, almeno per me, deve ancora cominciare. La pubblicazione è prevista per la seconda metà del 2017. Sono molto curioso di vedere che cosa ne verrà fuori e come sarà lavorare con Feltrinelli. Ovviamente spero che il romanzo venga letto e, soprattutto, che piaccia a chi lo leggerà. Paure e dubbi particolari non ne ho, non lo dico per spavalderia. Tutto questo poteva non succedere e invece è successo: non mi sembra che ci sia niente da perdere in quello che deve venire. Per il momento, più che altro, sono grato a tutta una serie di circostanze e di persone che hanno reso questa cosa possibile, volontariamente o no.

 

10) Te la senti di anticiparci qualcosa su Elisabetta Pierini, vincitrice assieme a te dell’ultima edizione del Calvino?

Purtroppo non ho avuto molte occasioni di parlare con Elisabetta, anche se ci siamo incontrati diverse volte. Fra una cosa e l’altra abbiamo partecipato a qualche evento, ma eravamo quasi sempre circondati da molte altre persone, quindi non so bene cosa dirti di lei, a parte che sono molto curioso di leggere il suo libro! Per il resto, spero che ci incontreremo di nuovo in giro, magari a qualche presentazione. Intanto le mando un caro saluto e le auguro tutta la fortuna che merita.


 

Alessandro Tuzzato

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – marzo 2016
Illustrazione di Davide Lorenzon

Alessandro Tuzzato insegna italiano e storia in una scuola superiore nei pressi di Venezia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in letteratura italiana nella leggendaria California, dove ha vissuto per ben nove anni che ricorda ancora come uno dei periodi più belli della sua vita. Riservato e affascinante, si dedica da sempre alla scrittura, spaziando dalla narrativa alla trattazione scientifica di figure storiche più o meno legate al mondo della letteratura.

Alessandro si è guadagnato l’accesso alla finale della 28° edizione del Premio Italo Calvino con L’inutilità dei buoni, breve romanzo a tratti inquietante, magistralmente costruito intorno alla figura di uno schizofrenico che racconta il suo percorso di vita, tra apparenze di normalità e deliri, tra memorie perdute e riconquistate, tra illusione e realtà.

1) Il titolo del tuo romanzo colpisce subito per il sapore amaro che trasmette. Chi sono i buoni a cui ti riferisci?

L’inutilità dei buoni richiama una frase che Daniela, una dei protagonisti, urla al fidanzato Roberto durante un litigio. Roberto infatti è convinto di essere stato troppo buono con lei, in tante occasioni, e spesso glielo ricorda con rancore. Daniela, per quanto sia stata davvero cattiva, a un certo punto si stanca di essere vista in maniera negativa e, per difendersi, lo accusa “d’essere inutile come tutti i buoni”, scatenando così una serie di reazioni emotive imprevedibili e problematiche. Si tratta di una frase centrale, perché dopo questo momento il protagonista precipita nella malattia psichica di cui parlo nell’ultima parte della storia. Comunque, non avendo concepito il romanzo come una trattazione sulla bontà, trovo difficile spiegare con precisione chi siano i buoni. Ciò che ho fatto è stato sottolineare come sia facile essere fraintesi quando ci sono in ballo i sentimenti e come la normalità sia, per così dire, soggettiva. Roberto crede di essere un buono, ma in realtà viene visto da tanti come un debole. Una specie di Griselda al maschile, ma senza lieto fine, insomma.

2) Cosa ti ha spinto a trattare un tema spinoso come quello della malattia mentale?

Prima che L’inutilità dei buoni diventasse il testo che è diventato, non sapevo che avrei parlato di malattia mentale. Volevo scrivere un romanzo in cui il protagonista, scampato a un omicidio da ragazzo, da adulto sarebbe diventato una specie di giustiziere solitario. Poi però è arrivato Dexter, protagonista di una serie televisiva basata proprio su una storia del genere e quindi ho cambiato argomento. Ho gettato nel cestino centinaia di pagine e dozzine di descrizioni di omicidi e mutilazioni. Per fortuna, mi viene da pensare adesso. E mi sono rimesso a scrivere fino a quando, stesura dopo stesura, la trama è emersa nella sua versione definitiva. Perciò la schizofrenia di uno dei personaggi è stata un’acquisizione tardiva, inserita semplicemente perché mi pareva che la storia girasse meglio. Così ho nuovamente dovuto riscrivere interi capitoli, aggiungendo dettagli e situazioni che prima non servivano. E siccome non ho alcuna esperienza nel campo della psichiatria, sono stato costretto a informarmi. Ho letto dei manuali universitari, ho consultato qualche blog sulla farmacologia e ho cercato testimonianze di persone che hanno sperimentato questo problema.

3) Perché hai scelto di utilizzare il punto di vista del malato? Che tipo di lavoro hai svolto per disegnare il tuo protagonista?

La scelta di far parlare in prima persona il personaggio malato è stata meditata. In origine avevo pensato di usare la terza persona, ma poi ho capito che il suo disagio emergeva in maniera molto più diretta se veniva espresso da un io narrante. E l’uso della prima persona non è stata l’unica attenzione linguistica che ho dedicato al personaggio di Roberto: da quando la malattia si manifesta le sue frasi diventano più brevi, spesso sconnesse, sintomo sottile ma lampante della sua confusione mentale. Ho investito un bel po’ di tempo in questa caratterizzazione e credo che mi sia riuscita abbastanza bene. È stato un lavoro impegnativo che però alla fine ha presentato pure un risvolto divertente: infatti alcuni amici, dopo aver letto il libro, mi hanno chiesto se fosse un’autobiografia, cioè se fossi io il malato di cui parlo. “Certo che lo sei”, hanno insistito, “parli in prima persona!”

L’ho già fatto, ma vorrei cogliere l’occasione per ribadirlo per iscritto: NO, cari amici miei, lo schizofrenico – a tratti quasi autistico – vittima d’innumerevoli complessi e omicida del mio romanzo non sono io!

4) Documentandoti sulla malattia mentale ti sei fatto un’opinione sul mondo della psichiatria?

Questa domanda mi coglie un po’ impreparato, perché non ho nessuna competenza professionale al riguardo e non so come rispondere. Della psichiatria ne so poco o niente, anche se mi è stato detto più di una volta – e lo riferisco con una certa soddisfazione – che ho saputo rappresentare in modo molto verosimile la malattia mentale di Roberto. Il primo a fare questo commento è stato proprio Paolo Giordano, durante la cerimonia di premiazione del Calvino. Ha detto che secondo lui sono riuscito a disseminare l’opera di dettagli che avvicinano lentamente il lettore alla scoperta della malattia del protagonista. Però, sebbene sia ovvio che la schizofrenia di Roberto rappresenti un tema molto importante del romanzo, credo che nella trama ci siano pure altri aspetti altrettanto interessanti. Ad esempio il ruolo della memoria – e perciò della storia – nella vita di tutti i giorni. Più Roberto impazzisce, meno ricorda il suo passato; arriva progressivamente a dimenticare anche ciò che ha fatto il giorno prima, fino a doversi rifugiarsi in un presente ripetitivo più facile da gestire. Ecco, l’influenza della storia passata sul presente era, in origine, la riflessione che volevo proporre con il mio romanzo.

5) “Pensa che vergogna se si venisse a sapere”. Questa è senza dubbio una delle frasi ricorrenti del romanzo. Qual è il suo significato?

Pensa che vergogna se arrivassi in ritardo”, oppure “Che vergogna se la gente pensasse che ci diamo delle arie”. Sono alcune delle tante varianti del commento che la mamma di uno dei personaggi ripete di solito. Ma non sono commenti necessariamente collegati alla malattia. Sono espressioni che ho inserito allo scopo di rafforzare la connotazione delicata e ipersensibile del personaggio. Pronunciate troppo spesso perdono però il valore positivo che tutto sommato dovrebbero avere. Come ho già detto, ritengo che proprio in questi leggeri scarti risieda uno dei nodi della vicenda: la constatazione che il confine tra salute e malattia o, nel caso in questione, tra gentilezza e ossessione, sia molto esile. Perché alla fine la volontà di essere educata a tutti i costi fa emergere l’aspetto poco naturale e, per così dire, ossessivo di questa madre.

6) Come ti sei sentito quando infine hai deciso che bastava rimuginarci sopra e hai inviato il manoscritto al Calvino?

Se fosse stato per me probabilmente ci starei ancora lavorando. Sono tuttora convinto che si potrebbero fare dei leggeri cambiamenti, accorciare un po’ la storia, renderla più essenziale. Ecco, se dovessi modificare L’inutilità dei buoni sicuramente toglierei qualcosa. Credo sia tipico di chi è alle prime armi gettare nel calderone elementi che non sono necessari. Comunque, prima di convincermi che era ora di far circolare il romanzo, l’ho fatto leggere a un gruppo di amici che mi hanno elargito consigli e suggerimenti. Visto che tutto sommato i commenti erano positivi, alla fine ho deciso di partecipare al Calvino. Mi dispiace solo di non aver dato retta a chi mi aveva consigliato d’invertire l’ordine dei primi capitoli. Mi spiego meglio: fino a circa metà dell’opera la storia riguarda diversi personaggi e procede per episodi paralleli. La posizione dei primi capitoli può perciò essere cambiata tranquillamente. Ho preferito essere prudente e ho aperto il romanzo con una sezione scritta in modo molto tradizionale. La seconda parte è più originale e, adesso ne sono convinto, meritava di essere messa all’inizio, come del resto avevo pensato di fare prima della partecipazione al PIC. L’esito sarebbe stato lo stesso se fossi stato più coraggioso? Non lo so, in fin dei conti sono proprio le pagine iniziali a determinare la prima impressione.

7) Cosa hai provato quando hai saputo di essere un finalista?

Di solito non rispondo alle chiamate da numeri che non conosco. Però nei giorni a ridosso della comunicazione dei finalisti avevo il cellulare sempre a portata di mano, e tutta l’intenzione di rispondere a qualsiasi cosa fosse apparsa sul display. Insomma, ci speravo. Non credo molto a chi dice di avere dimenticato la propria partecipazione al concorso, mi pare davvero strano. Io sicuramente non l’ho fatto. Appeno ho ricevuto la telefonata ho provato grande soddisfazione. I dubbi che avevo avuto e che dipendevano dal fatto che nessuno, oltre ai miei amici, aveva letto qualcosa di mio si sono dissolti in un secondo. Ovviamente ero in uno stato di agitazione totale che non mi ha permesso di capire date, orari e dettagli che mi venivano trasmessi. Per fortuna il giorno dopo è arrivata anche un’email di conferma. I due giorni a Torino sono stati molto piacevoli. Ricordo tutto con grande gioia: la premiazione, il rinfresco, le chiacchiere coi lettori e con gli altri finalisti. Ecco, è questa una delle grandi opportunità offerte dal Premio: la possibilità conoscere personalmente chi ha letto il tuo lavoro in maniera professionale e chi, come te, coltiva la passione della scrittura.

8) Com’è stato l’impatto con il mondo dell’editoria?

Qualche giorno dopo la cerimonia di premiazione sono stato contattato dagli editor di due case editrici molto importanti. Entrambi erano presenti alla premiazione ed entrambi avevano ricevuto il mio romanzo direttamente dagli organizzatori. Dopo averlo letto, si sono dimostrati entusiasti e decisi a proporlo ai rispettivi comitati di valutazione (non sono sicuro che si chiamino così). Uno di loro, però, complici le vicende Mondazzoli, ha dovuto rivolgere altrove la propria attenzione. L’altro, invece, avendo già qualche autore esordiente da seguire, mi ha spiegato che avrebbe rischiato troppo aggiungendo alla lista un nuovo esordiente.

Qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata da una piccola casa editrice che però, l’ho scoperto dopo, lavora quasi sempre a pagamento. Anche se a me non hanno chiesto soldi, ho rifiutato perché vorrei un destino più felice per L’inutilità dei buoni. Comunque devo ammettere di non essere mai stato molto attivo nella promozione del mio libro. A questo punto penso che contatterò qualche agente per vedere se avrà voglia di propormi. Avevo pensato di mettermi al telefono e farlo personalmente, ma mi sto accorgendo di quanto sia difficile destreggiarsi nel mondo degli editori e rivolgersi a un professionista è sicuramente più sensato.

9) A prescindere dal destino editoriale che incontrerà L’inutilità dei buoni, scriverai altri romanzi?

Guarda, subito dopo aver concluso questo romanzo sono stato tentato di partire dalle pagine che non avevo usato per comporne un altro. Ma sarebbe stato un lavoro di riciclo che avrebbe prodotto qualcosa di troppo simile al primo libro, perciò ho scartato l’ipotesi quasi immediatamente. Da qualche mese ho iniziato a scrivere il secondo romanzo. Sono a buon punto, però mi mancano gli ultimi dettagli, quelli più impegnativi: qualche dialogo, qualche episodio per i personaggi secondari e un’attenta lettura d’insieme per vedere se il tutto è equilibrato. Io lavoro così, prima costruisco l’architettura generale, poi aggiungo tutto il resto. È la fase più difficile ma anche la più bella, perché è nell’ultima stesura che la storia può diventare una storia raccontata bene. Se sarò soddisfatto lo spedirò alla prossima edizione del Premio Italo Calvino, anche se ti confesso che la pubblicazione de L’inutilità dei buoni mi farebbe rinunciare con piacere alla seconda partecipazione.


Mariapia Veladiano

martedì, 20 Marzo 2018

Intervista di Ella May – Dicembre 2015

Illustrazione di Davide Lorenzon

Mariapia Veladiano è nata a Vicenza nel 1960. Dopo essersi dedicata con passione all’insegnamento, attualmente è preside di una scuola vicentina. Nel 2010 si è aggiudicata la vittoria nella 23°edizione del Premio Italo Calvino grazie all’opera Memorie mancate, diventata poi nel 2011 il bellissimo romanzo La vita accanto edito da Einaudi Stile Libero, che l’ha portata in finale al Premio Strega. Oggi è una delle scrittrici più amate del panorama italiano. La ritroveremo in libreria a partire dal 28 gennaio [2016] con Una storia quasi perfetta, edito da Guanda.

N.d.R.: sempre per Guanda, Mariapia Veladiano ha pubblicato il suo ultimo libro Lei (ottobre 2017). È stata scelta come giurata della 31° edizione del Premio Italo Calvino.

 

1) Prima di qualsiasi altra cosa, puoi raccontarci il tuo rapporto con i libri e con la scrittura?

Allora partiamo dal fatto che sono stata una lettrice appassionata. Da piccola mi perdevo nei libri e provavo a scrivere storie simili a quelle che leggevo. Mi piaceva inventare mondi e come tutti i bambini sognavo di essere io la protagonista di tutte le storie. Scrivere mi è sempre piaciuto anche perché mi riusciva facile, facile rispetto alle richieste della scuola, ad esempio, e le soddisfazioni arrivavano senza sforzo. È una sensazione bellissima quella che ci accompagna quando le parole si scrivono quasi da sole. Tutti i bambini intorno fanno sforzi tremendi per scrivere qualcosa e noi invece no, scriviamo e scriviamo. Poi è arrivato un altro tipo di scrittura. Scrivere per capire quel che mi capitava e per trasformarlo anche. Raccontare storie che intercettano le vite degli altri e ne trovano il comune segreto. Segreto perché non sappiamo chiamarlo per nome ma lo sappiamo riconoscere se qualcun altro lo nomina. Qui la scrittura è diventata molto più faticosa. Una bella fatica, ma del tutto diversa dalla spontaneità con cui si scrive da bambini.

 

2) Parlaci del manoscritto che hai inviato al Premio Italo Calvino: com’è nato e perché l’hai scritto?

La storia di Rebecca bambina che si sente bruttissima è arrivata proprio da sola. Del resto ho scritto sempre così, con la libertà di chi non ha in mente di pubblicare e si dedica alle storie che scrive per riscriverle più avanti e poi ancora riscriverle e ogni tanto rileggerle. Però a posteriori riconosco di avere raccolto dai ragazzi, dal mio vivere a scuola, una crescente paura di non essere accettati, un rischio epocale di esclusione, una specie di cattivo segno dei tempi. Viviamo un’epoca “giudicante”. Tutti spettatori davanti a uno schermo, seduti, pronti a giudicare secondo canoni rigidi e costruiti. Non è facile vivere così. Rebecca lo racconta. “La vita accanto” è stato scritto in molto tempo, a pezzi, un pensiero alla volta. Proprio niente a che vedere con la scrittura vorticosa di quando si è bambini.

 

3) Qual è stato il percorso che ti ha portato fino al Calvino?

Nel 2010 ho compiuto 50 anni. Un piccolo trauma. E mi è venuto il pensiero di provare a vedere se a qualcuno potesse interessare quel che scrivevo. Forse un bisogno di conferma di valere, chissà. O forse ho superato la paura del giudizio. Sulla scrittura, voglio dire. Ho scritto molto prima. Racconti, qualche romanzo tutto intero, poesie. Ma non avevo cercato la pubblicazione. Difficile dire che cosa spinge davvero a esporsi attraverso la scrittura. In realtà io vivevo già da anni una piccola esposizione, ho lavorato per Il Regno, ho fatto la redattrice di un settimanale, ma si trattava di scrittura di servizio. La narrazione espone molto di più. È una consegna di sé al romanzo e non per il banale motivo che sempre quel che si racconta passa attraverso la propria vita e ne conserva la traccia, ma anche perché tutto proprio tutto è nostro in un libro, ogni parola scelta, ogni nome, ogni luogo. È uno squadernamento anche quando ci si nasconde programmaticamente.

 

4) Come hai vissuto la partecipazione al Calvino?

In realtà avevo un mare di pensieri. Io non credo a chi racconta di avere inviato un manoscritto e di averlo poi dimenticato. È proprio una piccola o grande consegna di sé. Io non pensavo di essere segnalata né di vincere ma speravo. La premiazione è stato un momento intenso. Non conoscevo assolutamente nessuno, ero arrivata a Torino da sola, non avevo amici né conoscenti. È stato facile essere accolta. In realtà i “lettori” e giudici del Premio costituiscono un gruppo molto eterogeneo ma capace di rapporti di amicizia vera. Da allora non ci siamo persi più. E ho relazioni di amicizia e affetto anche con i finalisti di quell’anno: Antonio Bortoluzzi e Pierpaolo Vettori ad esempio. Che poi hanno pubblicato e continuato a scrivere.

 

5) A seguito della vittoria è arrivata la pubblicazione; quale effetto ha avuto su di te l’ingresso nel mondo dell’editoria in veste di scrittrice?

L’arrivo in Einaudi è stato un vortice. Non sapevo che cosa aspettarmi, non avevo nessuna esperienza di case editrici e pubblicazioni. Non conoscevo nessuno. Einaudi Stile Libero ha creduto molto nel libro, un bel lavoro di squadra. Ho imparato a mettere in fila periodicamente le cose importanti, a riassumermele, perché l’esposizione improvvisa può diventare pericolosa, far perdere l’equilibrio. L’età mi ha aiutata.

 

6) Dopo l’esordio è cambiato il tuo rapporto con la scrittura?

Un poco sì è cambiato. È cresciuto il peso di uno sguardo esterno sulla scrittura. Scrivere sapendo di non pubblicare ci lascia più liberi. Poi arrivano le scadenze, i tempi da rispettare. Il fatto di non essere una scrittrice “seriale”, si può dir così? Cioè di scrivere storie molto diverse fra loro, dà un senso di esordio ad ogni uscita. Un doversi chiedere: e questo romanzo come sarà accolto? C’è da dire che intanto erano cambiate altre cose nella mia vita. Nei mesi del Calvino ho anche vinto il concorso per fare la preside, in Trentino. Un’esperienza bellissima in una regione che ha uno straordinario reale attento interesse per la scuola e che è un laboratorio continuo di sperimentazione didattica e anche organizzativa. La mia vita ha avuto una accelerazione impensata.

 

7) Di recente il tuo romanzo La vita accanto è diventato uno spettacolo teatrale. Com’è avvenuto il passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico?

Quando un libro diventa teatro cambia natura, diventa un’altra cosa. Il romanzo è diventato un monologo. È stato riscritto dalla poetessa Maura Del Serra, quindi una scrittura d’artista, straordinaria. Un monologo vive completamente della identificazione con l’attrice che lo interpreta. Monica Menchi, che lo porta in teatro, ha una personalità fortissima, fin dalla prima battuta molto più potente rispetto alla voce di Rebecca nel libro. È giusto così. Io non ho avuto alcuna parte nella trascrizione teatrale e anche questo è giusto che sia così.

 

8) È vero che hai una passione particolare per il colore azzurro?

Sissì. Amo l’azzurro e ho proprio chiesto che ci sia nelle copertine. Ma sono stata sempre fortunata perché tutti gli editori, Einaudi per i due romanzi, Rizzoli per il giallo per ragazzi, e ora Guanda, mi hanno sempre coinvolta nella scelta delle copertine. La finestra de La vita accanto, con la tenda che vola nell’azzurro, è assolutamente perfetta. È tutta di Riccardo Falcinelli, splendido creatore di quasi tutte le copertine di Einaudi Stile Libero. È completamente sua anche quella di Ma come tu resisti, vita (2013). Io ho solo chiesto che fosse la coda di un pavone bianco, simbolo di resurrezione, perché il libro racconta le mille resurrezioni di cui possiamo diventare capaci anche quando non lo sappiamo. E lui ha inventato questa coda che è anche un’esplosione, di vita appunto. Per Il tempo è un dio breve (2012) ho proposto un dipinto di un pittore giapponese che amo, Yamaguchi Kayo. Ed è lo stesso della copertina del prossimo libro. L’unica senza azzurro, ma era ben tempo di cambiare, altrimenti il lettore pensa che sia sempre lo stesso libro!

 

9) Il successo letterario ha in qualche modo cambiato la tua vita?

Tutto molto veloce, ecco. Ho difeso bene la mia vita dalla eccessiva esposizione, ho viaggiato molto con il libro evitando per quanto possibile le occasioni di esposizione impropria. Ma è davvero oggi tutto troppo compresso.

 

10) A gennaio [2016] sarai in libreria con Una storia quasi perfetta. Qual è il tema del tuo nuovo romanzo? E dove potremo incontrarti?

È una storia di seduzione. C’è una donna, l’incanto della sua arte, lei disegna, e soprattutto della sua vita, rinata già una volta. C’è un uomo, presente dall’inizio alla fine. Il romanzo è quasi un duetto. Torna Vicenza, come nel primo romanzo, luoghi nuovi della città, che continua a non essere nominata. Le prime presentazioni saranno a Vicenza, Roma, Milano. È bello accompagnare i propri romanzi, incontrare i lettori e farsi restituire da loro la storia, diventata diversa attraverso la loro vita.