Intervista di Ella May – marzo 2016
Illustrazione di Davide Lorenzon
Alessandro Tuzzato insegna italiano e storia in una scuola superiore nei pressi di Venezia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in letteratura italiana nella leggendaria California, dove ha vissuto per ben nove anni che ricorda ancora come uno dei periodi più belli della sua vita. Riservato e affascinante, si dedica da sempre alla scrittura, spaziando dalla narrativa alla trattazione scientifica di figure storiche più o meno legate al mondo della letteratura.
Alessandro si è guadagnato l’accesso alla finale della 28° edizione del Premio Italo Calvino con L’inutilità dei buoni, breve romanzo a tratti inquietante, magistralmente costruito intorno alla figura di uno schizofrenico che racconta il suo percorso di vita, tra apparenze di normalità e deliri, tra memorie perdute e riconquistate, tra illusione e realtà.
1) Il titolo del tuo romanzo colpisce subito per il sapore amaro che trasmette. Chi sono i buoni a cui ti riferisci?
L’inutilità dei buoni richiama una frase che Daniela, una dei protagonisti, urla al fidanzato Roberto durante un litigio. Roberto infatti è convinto di essere stato troppo buono con lei, in tante occasioni, e spesso glielo ricorda con rancore. Daniela, per quanto sia stata davvero cattiva, a un certo punto si stanca di essere vista in maniera negativa e, per difendersi, lo accusa “d’essere inutile come tutti i buoni”, scatenando così una serie di reazioni emotive imprevedibili e problematiche. Si tratta di una frase centrale, perché dopo questo momento il protagonista precipita nella malattia psichica di cui parlo nell’ultima parte della storia. Comunque, non avendo concepito il romanzo come una trattazione sulla bontà, trovo difficile spiegare con precisione chi siano i buoni. Ciò che ho fatto è stato sottolineare come sia facile essere fraintesi quando ci sono in ballo i sentimenti e come la normalità sia, per così dire, soggettiva. Roberto crede di essere un buono, ma in realtà viene visto da tanti come un debole. Una specie di Griselda al maschile, ma senza lieto fine, insomma.
2) Cosa ti ha spinto a trattare un tema spinoso come quello della malattia mentale?
Prima che L’inutilità dei buoni diventasse il testo che è diventato, non sapevo che avrei parlato di malattia mentale. Volevo scrivere un romanzo in cui il protagonista, scampato a un omicidio da ragazzo, da adulto sarebbe diventato una specie di giustiziere solitario. Poi però è arrivato Dexter, protagonista di una serie televisiva basata proprio su una storia del genere e quindi ho cambiato argomento. Ho gettato nel cestino centinaia di pagine e dozzine di descrizioni di omicidi e mutilazioni. Per fortuna, mi viene da pensare adesso. E mi sono rimesso a scrivere fino a quando, stesura dopo stesura, la trama è emersa nella sua versione definitiva. Perciò la schizofrenia di uno dei personaggi è stata un’acquisizione tardiva, inserita semplicemente perché mi pareva che la storia girasse meglio. Così ho nuovamente dovuto riscrivere interi capitoli, aggiungendo dettagli e situazioni che prima non servivano. E siccome non ho alcuna esperienza nel campo della psichiatria, sono stato costretto a informarmi. Ho letto dei manuali universitari, ho consultato qualche blog sulla farmacologia e ho cercato testimonianze di persone che hanno sperimentato questo problema.
3) Perché hai scelto di utilizzare il punto di vista del malato? Che tipo di lavoro hai svolto per disegnare il tuo protagonista?
La scelta di far parlare in prima persona il personaggio malato è stata meditata. In origine avevo pensato di usare la terza persona, ma poi ho capito che il suo disagio emergeva in maniera molto più diretta se veniva espresso da un io narrante. E l’uso della prima persona non è stata l’unica attenzione linguistica che ho dedicato al personaggio di Roberto: da quando la malattia si manifesta le sue frasi diventano più brevi, spesso sconnesse, sintomo sottile ma lampante della sua confusione mentale. Ho investito un bel po’ di tempo in questa caratterizzazione e credo che mi sia riuscita abbastanza bene. È stato un lavoro impegnativo che però alla fine ha presentato pure un risvolto divertente: infatti alcuni amici, dopo aver letto il libro, mi hanno chiesto se fosse un’autobiografia, cioè se fossi io il malato di cui parlo. “Certo che lo sei”, hanno insistito, “parli in prima persona!”
L’ho già fatto, ma vorrei cogliere l’occasione per ribadirlo per iscritto: NO, cari amici miei, lo schizofrenico – a tratti quasi autistico – vittima d’innumerevoli complessi e omicida del mio romanzo non sono io!
4) Documentandoti sulla malattia mentale ti sei fatto un’opinione sul mondo della psichiatria?
Questa domanda mi coglie un po’ impreparato, perché non ho nessuna competenza professionale al riguardo e non so come rispondere. Della psichiatria ne so poco o niente, anche se mi è stato detto più di una volta – e lo riferisco con una certa soddisfazione – che ho saputo rappresentare in modo molto verosimile la malattia mentale di Roberto. Il primo a fare questo commento è stato proprio Paolo Giordano, durante la cerimonia di premiazione del Calvino. Ha detto che secondo lui sono riuscito a disseminare l’opera di dettagli che avvicinano lentamente il lettore alla scoperta della malattia del protagonista. Però, sebbene sia ovvio che la schizofrenia di Roberto rappresenti un tema molto importante del romanzo, credo che nella trama ci siano pure altri aspetti altrettanto interessanti. Ad esempio il ruolo della memoria – e perciò della storia – nella vita di tutti i giorni. Più Roberto impazzisce, meno ricorda il suo passato; arriva progressivamente a dimenticare anche ciò che ha fatto il giorno prima, fino a doversi rifugiarsi in un presente ripetitivo più facile da gestire. Ecco, l’influenza della storia passata sul presente era, in origine, la riflessione che volevo proporre con il mio romanzo.
5) “Pensa che vergogna se si venisse a sapere”. Questa è senza dubbio una delle frasi ricorrenti del romanzo. Qual è il suo significato?
“Pensa che vergogna se arrivassi in ritardo”, oppure “Che vergogna se la gente pensasse che ci diamo delle arie”. Sono alcune delle tante varianti del commento che la mamma di uno dei personaggi ripete di solito. Ma non sono commenti necessariamente collegati alla malattia. Sono espressioni che ho inserito allo scopo di rafforzare la connotazione delicata e ipersensibile del personaggio. Pronunciate troppo spesso perdono però il valore positivo che tutto sommato dovrebbero avere. Come ho già detto, ritengo che proprio in questi leggeri scarti risieda uno dei nodi della vicenda: la constatazione che il confine tra salute e malattia o, nel caso in questione, tra gentilezza e ossessione, sia molto esile. Perché alla fine la volontà di essere educata a tutti i costi fa emergere l’aspetto poco naturale e, per così dire, ossessivo di questa madre.
6) Come ti sei sentito quando infine hai deciso che bastava rimuginarci sopra e hai inviato il manoscritto al Calvino?
Se fosse stato per me probabilmente ci starei ancora lavorando. Sono tuttora convinto che si potrebbero fare dei leggeri cambiamenti, accorciare un po’ la storia, renderla più essenziale. Ecco, se dovessi modificare L’inutilità dei buoni sicuramente toglierei qualcosa. Credo sia tipico di chi è alle prime armi gettare nel calderone elementi che non sono necessari. Comunque, prima di convincermi che era ora di far circolare il romanzo, l’ho fatto leggere a un gruppo di amici che mi hanno elargito consigli e suggerimenti. Visto che tutto sommato i commenti erano positivi, alla fine ho deciso di partecipare al Calvino. Mi dispiace solo di non aver dato retta a chi mi aveva consigliato d’invertire l’ordine dei primi capitoli. Mi spiego meglio: fino a circa metà dell’opera la storia riguarda diversi personaggi e procede per episodi paralleli. La posizione dei primi capitoli può perciò essere cambiata tranquillamente. Ho preferito essere prudente e ho aperto il romanzo con una sezione scritta in modo molto tradizionale. La seconda parte è più originale e, adesso ne sono convinto, meritava di essere messa all’inizio, come del resto avevo pensato di fare prima della partecipazione al PIC. L’esito sarebbe stato lo stesso se fossi stato più coraggioso? Non lo so, in fin dei conti sono proprio le pagine iniziali a determinare la prima impressione.
7) Cosa hai provato quando hai saputo di essere un finalista?
Di solito non rispondo alle chiamate da numeri che non conosco. Però nei giorni a ridosso della comunicazione dei finalisti avevo il cellulare sempre a portata di mano, e tutta l’intenzione di rispondere a qualsiasi cosa fosse apparsa sul display. Insomma, ci speravo. Non credo molto a chi dice di avere dimenticato la propria partecipazione al concorso, mi pare davvero strano. Io sicuramente non l’ho fatto. Appeno ho ricevuto la telefonata ho provato grande soddisfazione. I dubbi che avevo avuto e che dipendevano dal fatto che nessuno, oltre ai miei amici, aveva letto qualcosa di mio si sono dissolti in un secondo. Ovviamente ero in uno stato di agitazione totale che non mi ha permesso di capire date, orari e dettagli che mi venivano trasmessi. Per fortuna il giorno dopo è arrivata anche un’email di conferma. I due giorni a Torino sono stati molto piacevoli. Ricordo tutto con grande gioia: la premiazione, il rinfresco, le chiacchiere coi lettori e con gli altri finalisti. Ecco, è questa una delle grandi opportunità offerte dal Premio: la possibilità conoscere personalmente chi ha letto il tuo lavoro in maniera professionale e chi, come te, coltiva la passione della scrittura.
8) Com’è stato l’impatto con il mondo dell’editoria?
Qualche giorno dopo la cerimonia di premiazione sono stato contattato dagli editor di due case editrici molto importanti. Entrambi erano presenti alla premiazione ed entrambi avevano ricevuto il mio romanzo direttamente dagli organizzatori. Dopo averlo letto, si sono dimostrati entusiasti e decisi a proporlo ai rispettivi comitati di valutazione (non sono sicuro che si chiamino così). Uno di loro, però, complici le vicende Mondazzoli, ha dovuto rivolgere altrove la propria attenzione. L’altro, invece, avendo già qualche autore esordiente da seguire, mi ha spiegato che avrebbe rischiato troppo aggiungendo alla lista un nuovo esordiente.
Qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata da una piccola casa editrice che però, l’ho scoperto dopo, lavora quasi sempre a pagamento. Anche se a me non hanno chiesto soldi, ho rifiutato perché vorrei un destino più felice per L’inutilità dei buoni. Comunque devo ammettere di non essere mai stato molto attivo nella promozione del mio libro. A questo punto penso che contatterò qualche agente per vedere se avrà voglia di propormi. Avevo pensato di mettermi al telefono e farlo personalmente, ma mi sto accorgendo di quanto sia difficile destreggiarsi nel mondo degli editori e rivolgersi a un professionista è sicuramente più sensato.
9) A prescindere dal destino editoriale che incontrerà L’inutilità dei buoni, scriverai altri romanzi?
Guarda, subito dopo aver concluso questo romanzo sono stato tentato di partire dalle pagine che non avevo usato per comporne un altro. Ma sarebbe stato un lavoro di riciclo che avrebbe prodotto qualcosa di troppo simile al primo libro, perciò ho scartato l’ipotesi quasi immediatamente. Da qualche mese ho iniziato a scrivere il secondo romanzo. Sono a buon punto, però mi mancano gli ultimi dettagli, quelli più impegnativi: qualche dialogo, qualche episodio per i personaggi secondari e un’attenta lettura d’insieme per vedere se il tutto è equilibrato. Io lavoro così, prima costruisco l’architettura generale, poi aggiungo tutto il resto. È la fase più difficile ma anche la più bella, perché è nell’ultima stesura che la storia può diventare una storia raccontata bene. Se sarò soddisfatto lo spedirò alla prossima edizione del Premio Italo Calvino, anche se ti confesso che la pubblicazione de L’inutilità dei buoni mi farebbe rinunciare con piacere alla seconda partecipazione.
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