rassegna stampa

Valerio Callieri

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – febbraio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

Valerio Callieri è un tipo che rimane impresso: il sorriso un po’ sospeso, lo sguardo diretto e l’espressione oscillante tra lo svagato e l’attento che porta a chiedersi cosa stia vedendo mentre guarda il mondo.
Classe 1980, nato e cresciuto a Roma e dintorni, ha deciso di assecondare la sua vocazione di scrittore durante un ricovero ospedaliero che lo ha costretto a fermarsi e a fare i conti con la sua passione di sempre. Quando non scrive, legge; quando non legge, corre. Si definisce “la banalità fatta persona”, ma lui è tutto fuorché banale e il suo esordio ne è la dimostrazione più lampante.
Vincitore (in ex aequo con Cristian Mannu) della 28° edizione del Premio Italo Calvino, è arrivato per direttissima alla Feltrinelli, che lo scorso 12 gennaio [2017] ha pubblicato il suo Teorema dell’incompletezza. L’opera prima di Valerio è un romanzo teso e toccante, in bilico tra giallo e noir, intriso di storia, sostenuto da una raffinata immaginazione, ricco di sfumature che compongono (e ri-compongono) uno dei volti più sofferti dell’Italia appena passata e, speriamo, tutt’altro che dimenticata.

 

1) La storia che ci racconti è incentrata su due fratelli e sul loro rapporto. Due figure diverse nate dalla medesima radice, due personaggi che potremmo definire “archetipi”.

Di uno di loro non veniamo mai a sapere il nome: è il narratore. L’altro invece è Tito. Sono figli della stessa assenza. Sia il narratore che Tito non sono fieri della vita del padre, un barista che governava con le risate un pezzo di periferia romana, una persona apparentemente innocua e senza desideri. Entrambi però ne hanno ereditato alcune caratteristiche. I due fratelli si ritrovano dopo cinque anni di silenzio proprio grazie a un indizio che riguarda l’omicidio del padre. Diventerà un’occasione per scoprirne il passato, ma soprattutto un percorso emotivo. Come si supera il dolore? Un lutto? Il narratore ha ereditato un’allegria che ha tinto di malinconia. Un’allegria con cui cerca di allontanarsi dalle questioni “pesanti” della vita, etiche, politiche, metafisiche. Una barriera ironica, diciamo così, con cui mantiene la sua indolenza. Tito invece è figlio di una forza strana (nascosta negli anni sconosciuti del padre) che diventa una fede ferrea. Un poliziotto con una fede senza pietà, senza colpa e senza peccato. Una fede lontana dalle religioni a cui non crede. Adesso mi viene in mente, parlando di archetipi, che è un guerriero che vuole diventare re. Un senex bianco: crede nella lealtà, nel futuro e nella responsabilità. Non concepisce la debolezza e forse ha troppa fiducia in se stesso. I due fratelli entreranno spesso in collisione ma, ecco, almeno per me è veramente difficile parteggiare per l’uno o per l’altro e spero che lo sia anche per l’eventuale lettore. La storia li porterà in territori che non avevano mai desiderato percorrere e che rivelerà la loro natura profonda.

 

2) Come hai costruito il protagonista-narratore?

È fondato su una ferita di malinconia. La morte del padre lo ha privato della vitalità e dello sguardo verso il futuro. Lui non lo sa, ma è veramente un Telemaco in attesa di un ritorno impossibile. Anche se poi, in qualche maniera, dalla riva del mare qualcuno arriverà: il fantasma paterno. Il protagonista è quasi sempre ironico, un atteggiamento che gli permette di evitare il confronto con un possibile amore, Elena, e con ogni impegno reale. Ci sono delle “cavallette” nel suo cervello che amministrano la sua indolenza e con le quali ha imparato a convivere. Il problema più grande è che gli eventi lo metteranno a contatto con dinamiche quali il Conflitto, l’Amore, la Vendetta, lo Scavo Interiore. La Storia italiana lo chiamerà con la voce del fantasma e gli spalancherà gli occhi sulla fabbrica torinese degli anni ’60, le lotte operaie, le stragi di stato e il mistero del Memoriale Moro. Così come il fratello Tito lo sfiderà continuamente sui fatti di Bolzaneto e del G8 di Genova. Il protagonista capirà che non può essere un eroe da tragedia greca, come Oreste o Edipo, ma dovrà comunque scegliere e accettare l’imperfezione (l’incompletezza del titolo, appunto) e superare la sua “comoda” malinconia.

 

3) Le vicende narrate nel tuo romanzo ci portano tra le strade di Roma, in particolare a Centocelle. Cosa rappresentano per te questi luoghi?

Centocelle per me è innanzitutto un luogo dell’infanzia, però la scelta di ambientare qui la storia è dovuta alle sue caratteristiche contraddittorie. Da una parte è stato un serbatoio periferico di militanti dei movimenti degli anni ’70 e della lotta armata. Dall’altra è anche il luogo di quella forza di cui scrive Pasolini ne Le ceneri di Gramsci: “attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza”. Un luogo in cui convivono la militanza severa e l’ancestrale allegria, la connivenza con il terrorismo e il qualunquismo spensierato, per banalizzare. Un luogo che esprime la ferocia e l’ironia della Storia.

 

4) Tutto il racconto ruota intorno alla ricerca che il protagonista, assieme al fratello, mette in moto per ricostruire la storia segreta del padre, scoprendo che forse non era l’uomo che loro credevano.

Sì, insieme al fratello Tito cercano di ricomporre i pezzi della vita del padre prima della loro nascita. Tito ha delle esigenze professionali, da poliziotto, il protagonista viene invece “investito” e spinto in questa missione dal padre. Al di là degli obiettivi della storia, quello che secondo me è interessante è il tema dell’eredità emotiva. Entrambi accettano la loro provenienza e sono costretti, in maniera differente, a farci i conti senza più rifiutarla con il consueto istinto adolescenziale. Questa è stata anche una porta d’accesso per me. Una scoperta emotiva durante la scrittura.

 

5) Come “controparte” di questi due caratteri maschili hai creato due donne, che vivono e si muovono in un alone di mistero. Chi sono Elena e Clelia?

Sono due figure che spero di essere riuscito a delineare sfuggendo agli stereotipi sul femminile che si attivano spesso nelle narrazioni più disparate. Non sono ammaliatrici, né angeli del focolare e neanche uomini con la “a” finale (qui si apre il “caso Andrea”, ma lasciamo stare…). Elena è un’amica del protagonista, un matematico che disvela le emozioni con roba che dovrebbe essere gelata e cerebrale come i teoremi della logica. Elena è fondata su una sofferenza di fondo a cui gli uomini intorno non hanno accesso e che lei non rivela. È un personaggio che intuisce e rende semplice la complessità, senza mai compiacersi di questa sua abilità. Clelia invece è un mistero legato al mondo del padre. Lei ha un obiettivo molto più definito nella storia e porta addosso i segni di conflitti politici laceranti. Porta con sé la morte e il tradimento e vuole provare a cambiare il suo passato, per quanto possibile. Entrambe sono figure centrali, in grado di prendere le redini della storia senza aspettare che qualcuno conceda loro il permesso. Due donne autonome in maniera completamente diversa.

 

6) Per quale motivo hai scelto di rievocare questo particolare volto dell’Italia?

Egoisticamente parlando, ti dico che ho scelto di raccontare questo periodo perché sono un grande appassionato della storia degli ultimi sessant’anni. Poi credo che ci sia l’esigenza di continuare a riscrivere la nostra storia all’interno di filoni che non siano solo quelli del noir con sfondo complottista e quindi consolatorio, oppure con uno sguardo lontano e freddo in cui il lettore progressista riesca subito a individuare il Bene e il Male grazie all’apparato didascalico fornito dall’autore. Siamo (stati) abitati da forze storiche potenti e tragiche. Ognuna portatrice di ragioni che hanno coinvolto migliaia di persone. Vogliamo parlare del fascismo, del brigatismo e dello stragismo di stato? Dobbiamo essere in grado di dare voce realmente a questi spigoli appuntiti. Dobbiamo provare ad abitare territori estremamente scomodi. Secondo me, la letteratura è il solo luogo in cui possiamo farlo. “Dobbiamo” farlo, perché è l’unica possibilità di comprendere posizioni diverse che, guarda caso, a un certo punto ritornano nella Storia a presentarti lo scontrino, come possiamo vedere un po’ ovunque oggi. E dubito che la mostrificazione di queste forze storiche possa essere una via di uscita.

 

7) Se tu dovessi etichettare questo romanzo definendolo per genere, in quale scaffale della libreria lo metteresti?

Non lo so… Credo che all’interno ci siano gli stilemi e le tecniche del romanzo popolare e di vari generi. Al noir, al giallo e allo storico, forse aggiungerei il fantasy. Non so se esiste uno scaffale specifico. Però, ecco, mentre ti rispondo penso che alcuni dei romanzi che ho amato di più (come Amatissima di Toni Morrison o Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov) e che riescono a descrivere in maniera ineccepibile e profonda lo schiavismo dei neri negli Stati Uniti e la burocrazia sovietica, lo fanno utilizzando elementi sovrannaturali, magici, con una forza narrativa che il realismo sociale, per capirci, non riesce a raggiungere. Non è troppo importante capire quale sia il genere, ma cosa si vuole raccontare. Bisogna farlo con ogni mezzo necessario e adatto a raggiungere la verità profonda (che non è la semplice realtà).

 

8) Parlaci della tua esperienza con la Scuola Holden.

Tanto per cominciare, ci sono andato a causa di una polmonite. Stavo facendo tutt’altro lavoro, un lavoro attinente al mio ramo di studi che è la sociologia della comunicazione. Lavoravo all’interno di un’azienda che studiava la comunicazione di altre aziende e dei competitor, curandone l’immagine sociale, diciamo così. Non era male. Però, quando mi sono ammalato, guardando il soffitto grigiastro del policlinico Umberto I per una decina di giorni, ho capito che se non mi fossi buttato a capofitto nel mio desiderio non ce l’avrei mai fatta, o comunque avrei finito per non provarci nemmeno e sarei diventato un burbero signore che ripete sempre “se avessi potuto”. Quindi la Holden mi sembrò la soluzione ottimale (avevo anche piani di riserva, come cercare un lavoro non cognitivo e nel frattempo frequentare corsi di scrittura nel fine settimana). Visto che mi hanno pure concesso la borsa di studio, ho scelto di andarci. Così ho imparato un atteggiamento “alla Holden” e credo di capirlo adesso più di prima. Vedere persone in carne e ossa che scrivono per mestiere e ti mostrano alcuni strumenti del loro lavoro diventa la prova che si può fare. A costo di tanti sacrifici, solitudine e perseveranza, ma si può fare. Fornisce anche un’armatura contro il mondo di fuori, che tende sempre a svalutare la letteratura o a vederla come rifugio di bohemien che osservano la luna cercando l’ispirazione.

 

9) E poi, il Premio Italo Calvino.

Senza esagerare: a me il Calvino ha cambiato la vita. Perché poi uno si scorda un sacco di cose, tipo l’incredibile e silenzioso malessere che ti porti dentro mentre scrivi e scrivi e riprovi a scrivere senza nessuna legittimazione esterna. Un malessere che non riveli mai pienamente perché, almeno nel mio contesto di riferimento, fa un po’ ridere: cioè, tu sei preoccupato perché nessuno ti fa la carezza di riconoscimento mentre “là fuori” non c’è uno straccio di lavoro e la gente muore per malattie infami? Ovviamente banalizzo un po’, per far capire cosa intendo. Nel momento in cui il più importante concorso nazionale per inediti ti premia significa qualcosa di enorme, perché non c’è nessun interesse lobbistico a far vincere nessuno, c’è un comitato di sconosciuti che giudica altrettanti sconosciuti. E dai risultati letterari che mi hanno preceduto sembra che questo comitato sappia tremendamente cosa sta facendo. Mi fermo qui, perché finirei con il tessere lodi stucchevoli che potrebbero suscitare l’effetto contrario a quello voluto.

 

10) Ormai hai imboccato il percorso di scrittore: come lo vivi e cosa ti aspetti dal futuro?
 
È tutto molto forte: l’improvvisa apparizione del libro sugli scaffali delle librerie, le presentazioni, le prime recensioni. Cosa mi aspetto non lo so bene, spero sia l’inizio di un bel percorso. Il rapporto con Feltrinelli è stato inaspettato; avevo paura di trovarmi di fronte un’azienda grande e un po’ anonima, invece è stato come essere accolto all’interno di una famiglia. Quando sono andato a Milano mi hanno presentato tutti, in ogni settore. Persino Carlo Feltrinelli ha trovato il tempo di fare una chiacchierata con me… Insomma, che dire? Sono felice e frastornato. E la foto che ho scelto di mandarvi (al posto di quella del mio volume cartaceo) testimonia appunto le cose incredibili che posso vivere grazie a questo romanzo, in primis i rapporti inaspettati con i lettori. Mi è stata spedita da un reporter che sta seguendo le Farc in Colombia nel loro processo di smilitarizzazione. C’è dentro un miscuglio di elementi contrastanti: le armi del conflitto, la mano che impugna l’e-reader, il brand di una corporation, gli alberi della giungla e, spero, la magia della terra di Garcia Marquez…
Sono frastornato, l’ho già detto?

 


 

Claudia Cautillo

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – giugno 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Claudia Cautillo, nata e cresciuta a Roma, è di sicuro una donna sorprendente; minuta, elegante, sorridente. A vederla così, ci si aspetterebbe qualcosa di “politically correct”, invece lei ti guarda dritto negli occhi e ti mette in mano un libro spiazzante come Il fuoco nudo.
A conoscerla meglio, si capisce che invece c’era da aspettarselo. In fondo ha avuto il coraggio di fare qualcosa che in molti sognano di fare, me compresa: di punto in bianco se n’è andata a Las Vegas e si è sposata con il suo compagno senza dir nulla a nessuno fino a cose fatte. Da applauso.
Perciò ci sta che una donna come lei tiri fuori un romanzo “scorretto”, controverso e di grande impatto senza perder tempo a preoccuparsi troppo del polverone che può sollevare. Claudia “ha osato” trattare il tema scottante della pedofilia con un approccio nuovo, coraggioso e originale. Si può essere d’accordo con la sua visione della cosa oppure no, legittime entrambe le posizioni; ma sicuramente il suo è un libro che fa discutere e fa riflettere e che, proprio per questo, va letto e affrontato, perché è un libro che pone domande scomode, inquietanti, capaci di squarciare il pesante velo dell’indicibile.
1) Partiamo dalle parole: definizione di “pedofilia”, di “passione”, di “relazione”, secondo il dizionario e secondo te.
Scientificamente, la definizione della pedofilia è quella di una devianza che implica attività sessuali con bambini prepuberi. Ma dal mio punto di vista è un tratto umano, per quanto aberrante, che ci apre territori sconosciuti della psiche e dell’anima, affascinanti e misteriosi, attraenti e respingenti. Infatti il mio libro racconta la storia di una passione, e cosa sono le passioni se non quegli stati di emozione violenta, in contrasto con la razionalità, capaci di turbare l’equilibrio psichico e la capacità di controllo? Ecco il perché del titolo Il fuoco nudo: una passione che arde e consuma mettendoci a nudo. Tant’è che il termine “passione”, dal latino “pati” cioè patire, indica una condizione di passività, di schiavitù. Proprio come i due protagonisti, il sacerdote e la bambina Violante, e la loro complessa relazione, malsana e contorta ma che attrae proprio perché ci conduce nell’universo inesplorato del rimosso, della colpa, di quella parte negata e oscura che tuttavia è presente in ciascuno di noi.

 

2) Perciò chi sono don Marco e Violante, i due protagonisti del romanzo?

Il romanzo si articola a due voci che si alternano, quella di don Marco e di Violante, per uno sguardo dal ponte che dia ai protagonisti lo stesso peso ponderale. Lui è un giovane sacerdote cresciuto a cavallo degli anni ’70 e ’80, ma la sua ricerca di riscatto dal decadentismo generazionale fin de siècle si infrange a causa della passione per una bambina, che lo mette in crisi come religioso e come uomo. Lei è una donna adulta che rievoca la sua infanzia abusata e al contempo i suoi tratti di conturbante, consenziente “Lolita” persa in un’incantata “isola che non c’è” di giochi proibiti nascosti agli occhi degli adulti.

 

3) Nel tuo romanzo Violante si dimostra in qualche modo “consenziente”, all’interno della dinamica adulto-bambino. Secondo te può una bambina, all’interno di una relazione pedofila, essere realmente consenziente?

La tradizione letteraria è ricca di riferimenti pedofili, basti citare la Lolita di Nabokov, la serie delle Claudine di Colette o l’Alice nel paese delle meraviglie del reverendo Carroll. Anche il personaggio di Violante è ambiguo e ci offre una lettura dell’erotismo infantile che può essere considerata spiazzante. Ma l’aspetto più inquietante della pedofilia è proprio l’incapacità, per il bambino, di differenziarsi dall’abuso dandone un giudizio netto. Non è in grado di “uccidere” la figura paterna dell’adulto, che tende paradossalmente a giustificare e proteggere. Infatti Violante proietta su don Marco l’acerba attrazione che nutre per i divi della musica e del cinema, confondendone la figura tra quella di padre e quella di fidanzato. Gli iniziali giochi erotici tra i due, che nel corso della relazione culmineranno in rapporti sessuali completi, vedono la piccola Violante divertita e affascinata da quell’universo di complicità nascoste e segreti proibiti, non meno che dall’oscuro potere che sente di esercitare su quell’uomo tanto più grande di lei.

 

4) Il protagonista maschile: come succede, secondo la tua personale opinione, che un uomo possa nutrire un certo tipo di sentimenti per una bambina?

Don Marco è forse, tra i due, il personaggio che paga il prezzo più alto, cristallizzando la sua passione morbosa nell’idealizzazione di un passato che non può tornare. Ai suoi occhi Violante-bambina incarna e riassume, come per il miracolo di una serie di sorprendenti coincidenze, ciò che è precluso alla sua coscienza razionale, specchio delle profondità nascoste di se stesso e lucido testimone della sua debolezza. Incapace di superare le proprie pulsioni, l’inevitabile approdo è la deriva pedofila, sospeso in un limbo in cui la combatte strenuamente tanto quanto ne cerca un’impossibile e contraddittoria giustificazione.

 

5) Come cambia la relazione tra i protagonisti quando si incontrano dopo tanti anni e Violante è ormai una donna adulta?

Quando don Marco e Violante si incontrano, dopo molti anni nei quali non hanno più saputo niente l’uno dell’altra, lei è ormai una giovane donna e non più una bambina. Vengono ripresi entrambi nella spirale di una passione sado-masochista, attratti dal richiamo di un passato con cui credevano di aver definitivamente chiuso i conti, trovandosi senza preavviso di fronte ad un bivio esistenziale che esige delle risposte. È qui che la storia assume una svolta imprevista, una virata di coda che ridiscute le posizioni di vittima e carnefice e pone al lettore nuove domande.

 

6) Perché hai voluto raccontare questa storia?

Sono attratta dai temi forti, da ciò che è capace di emozionarmi nel profondo. Ma soprattutto amo le sfide, perciò ho voluto parlare di un argomento spinoso e tabù, che spesso si preferisce non affrontare per non incorrere in critiche o fraintendimenti. Oppure, quando se ne parla, lo si fa solo in modo pornografico e “sensazionalista”. Le stesse case editrici sono reticenti a pubblicare argomenti di questo tipo, preoccupate nella loro prudenza di alienarsi le simpatie del pubblico. Io invece non nutro questa diffidenza verso i lettori, al contrario penso che oggi ci sia una grande voglia di storie che scuotano, la gente è stufa di leggere libri rassicuranti scritti con l’intenzione di non pestare i calli a nessuno. In neanche due mesi il Premio Calvino mi ha trovato un editore, Mario Tricarico delle Edizioni A Nordest. Ho ricevuto diverse recensioni molto favorevoli, un articolo su “Il Tempo” e ne ho parlato a “La vita in diretta”. Ma la soddisfazione maggiore mi viene dai commenti entusiasti dei “non addetti ai lavori”. Non professori, critici letterari o intellettuali, ma gente comune a cui Il fuoco nudo è piaciuto tantissimo.

 

7) Tu hai una bella carriera di successi alle spalle, in campo letterario. Poi, alla fine, il Calvino. Raccontaci l’esperienza con il Premio torinese.

Avevo già partecipato a diversi premi letterari per scritti inediti, arrivando finalista o vincendo, come ad esempio “Giallo Mondadori”, “Io Scrittore” del Gruppo Editoriale Mauri-Spagnol, lo “Scriba Festival” di Carlo Lucarelli, “Il mio esordio” dell’Espresso e altri, ma non avevo ancora mai vissuto un’esperienza come quella del Premio Italo Calvino, che è stata bellissima ed emozionante, tanto che quasi quasi mi dispiace di aver già editato, perché non potrò partecipare una seconda volta! Ho trovato un ambiente di persone preparate e cordiali, dal presidente Mario Marchetti e i Lettori del Circolo a tutti i ragazzi dello staff, che colgo l’occasione per ringraziare. Un grazie anche a Filippo Tuena e Franco Pezzini, per la stima e la simpatia che mi hanno accordato. Consiglio a tutti gli aspiranti scrittori di partecipare, perché è un’occasione di dialogo e confronto davvero imperdibile. Il Premio Italo Calvino esiste proprio per seguire da vicino i suoi esordienti, aiutandoli nel loro percorso verso la pubblicazione.

 

8) Quindi com’è stata la tua esperienza con la pubblicazione?

Il romanzo è andato in stampa così come l’avevo scritto, senza modifiche di sorta né al testo né al titolo. All’editore è piaciuto molto, e non c’è stato bisogno di rimetterci le mani. Anche questa è stata un’avventura emozionante, perché essendo esordiente mi si è aperto un mondo nuovo nel quale non si smette mai di imparare. È stato particolarmente divertente andare in televisione, credevo mi sarei sentita in imbarazzo e invece è successo il contrario, ero a mio agio. Alla presentazione ufficiale mi ha fatto da relatore Giovanni Floris, perché aveva letto Il fuoco nudo e lo aveva trovato bellissimo. Successivamente l’ho presentato al Premio Augusta, e ora è tra i finalisti. Vedremo gli sviluppi futuri, incrocio le dita.

 

9) Quali critiche e quali apprezzamenti ti hanno colpito di più?

Non mi ero fatta piani. Non programmo il futuro ma, più semplicemente, lo aspetto. Un po’ per carattere, un po’ per scaramanzia. In ogni caso per un esordiente il difficile, nell’inesauribile marea di titoli che vengono editati ogni anno, è soprattutto quello di far sapere che il proprio libro esiste. Dunque in proporzione, rispetto alla mia capacità di essere visibile sul mercato, sono piuttosto soddisfatta. Critiche ne ho ricevute per la copertina, che alcuni ritengono troppo forte e in qualche misura fuorviante. È opera di un artista cubano molto bravo, Erik Ravelo, dalla campagna choc “Gli intoccabili” per Fabrica di Benetton sul tema dell’infanzia, tra abusi e diritti negati, e l’editore l’ha scelta perché è di grande impatto emotivo. Rappresenta un cardinale e un bambino crocifissi insieme, a denuncia della pedofilia negli ambienti della Chiesa. C’è chi dice che faccia pensare ad un feroce atteggiamento di accusa che nel romanzo in effetti è assente. In questo senso hanno ragione perché al contrario la storia è molto bilanciata, ho scelto di raccontarla in modo da lasciare massima libertà al lettore di formarsi la sua opinione, senza schieramenti esibiti o accuse manifeste. Altri invece l’hanno apprezzata, perché non solo il bambino ma anche il sacerdote è rappresentato in croce, è cioè anch’egli vittima del suo stesso abuso. È un’immagine che si apre a molti livelli di lettura.

 


 

 

Alessandro Calabrese

giovedì, 5 Aprile 2018

Alessandro Calabrese è un venticinquenne emiliano; aspetto un po’ rude, temperamento passionale, atteggiamento sorridente, voce calda e profonda. Neolaureato in Letteratura, allenatore di una squadra giovanile di rugby, bracciante al bisogno nell’azienda agricola familiare. Viene da chiedersi se ci sia qualcosa che non sappia fare.

Irrimediabilmente contaminato dalle più peccaminose sonorità Rock e Metal, ha scritto un testo intriso di musica e riflessioni, il cui stile diretto e apparentemente lineare rivela il grande pregio di saper scegliere sempre il ritmo più intonato alla narrazione.

Con il suo primo romanzo, intitolato “T-Trinz”, è arrivato dritto in finale alla 29° edizione del Premio Italo Calvino, dimostrando a se stesso che quando ci si mette sa fare bene pure lo scrittore.

 

1) Il tuo romanzo parla di ragazzi molto giovani, tra 16 e i 20 anni al massimo. Perché hai scelto di raccontare questa particolare e travagliata fascia d’età?

La ragione è semplice: – io non voglio crescere, andate a farvi fottere -. Anche se in realtà non è mai proprio così. Perché poi si cresce. E a quel punto ci si chiede se quel “Charlie che fa surf” dei Baustelle, che ora dovrebbe avere circa 24 anni, abbia continuato a farsi di MD (ecstasy, ndr) fino a oggi. Senz’altro sarebbe un eroe. Ma poi? Per sua fortuna la domanda è superflua perché lui è nato e morto in quella canzone, esattamente come i personaggi di T-Trinz nascono e muoiono tra le righe del mio racconto. La vita di un adolescente sembra più autentica della vita di un adulto, sotto ogni punto di vista. I miei personaggi non hanno mai bisogno di compromessi e, compiuta un’azione, non si voltano indietro: nessun rimpianto. Agiscono e basta. Non devono giustificare le proprie scelte o il proprio stile di vita. Fuori dagli schemi prestabiliti della società adulta non si è ciò che si mangia, non si è ciò che si fa per vivere. Si è e basta. L’adolescente, o almeno i miei adolescenti, non portano maschere, non sono determinati dalla loro storia passata o dai loro progetti futuri. Vivono nel presente e la loro personalità è autentica perché non ha sovrastrutture. Un’etica c’è, però riguarda solo il gruppo, non il mondo esterno. Quindi ci si droga, ci si mena, si spaccano le auto. Ma è il prezzo da pagare per conservare un’integrità, un’autenticità a cui, col tempo, si è costretti a rinunciare. E non a caso T-Trinz si ferma lì e non si avrà mai l’occasione di vedere il Biondo, il protagonista, in giacca e cravatta, così come non riusciremmo a immaginare un Charlie senza MDMA (ecstasy, ndr).

 

2) I tuoi personaggi si muovono in un ambiente periferico, abbastanza degradato, all’interno di famiglie un po’ storte e zoppe. Panorami tutt’altro che paradisiaci.

Si dice che esistano soltanto libri scritti bene o scritti male. Per fortuna per me non è così. L’unica distinzione che approvo è tra un libro sincero, schietto e un libro falso, agghindato. Probabilmente ho scritto una schifezza, ma ho cercato di renderla una schifezza sincera. Non c’è un’estrazione sociale che accomuna i personaggi di T-Trinz. Le storie familiari e le educazioni ricevute sono diverse ma, per quanto inventate, non sono finte. Non ho scelto queste ambientazioni e queste vite a scopo narrativo. Si sono scelte da sole, necessariamente. I miei personaggi esistono veramente, da qualche parte. O quantomeno per me sono esistiti, forse con facce diverse e storie diverse, ma reali e vivi. E così potrebbero essere per i lettori. Non c’era altra ambientazione possibile e non ci sono esagerazioni. I miei personaggi si incontrano per caso, e allo stesso modo è casuale la famiglia in cui sono nati e l’educazione che hanno ricevuto. La scelta di spaccare auto, drogarsi e frequentare posti abbandonati non c’entra niente. Il T-Trinz è un edificio abbandonato che non ha più nessuna funzione per la società, esattamente come i ragazzi che lo abitano. Non si tratta di una fuga da una vita disagiata e piena di difficoltà, e nemmeno di un rifugio che garantisca una vita più facile e spensierata. Nessuno si lamenta. Mimmo ad esempio, vittima di violenza domestica, prende a calci suo padre e se ne fotte. L’appartenenza al gruppo è una scelta. Consapevoli della loro diversità, i personaggi si rifugiano in un’autarchia fatta di fiamme, finestrini spaccati ed edifici in rovina. La differenza tra loro e il resto del mondo è che loro sono sinceri, schietti nel loro modo di essere, così come schietta e sincera è la loro storia.

 

3) Per scrivere T-Trinz ti sei ispirato a qualche modello particolare?

No, non direi. Non ci sono riferimenti importanti. L’unico vero spunto sono stati i tanti testi di canzoni Metal che ho in parte citato nei titoli dei capitoli (ogni capitolo viene introdotto da un verso di una canzone Metal, ndr). Poi sì, ho visto il grande schifo generazionale di Radiofreccia, ho letto Jack Fruciante è uscito dal gruppo e ho avuto la sfortuna di leggere Moccia. Anche se qualche paragone facile potrebbe essere suggerito da alcune somiglianze, tutto questo non c’entra niente. Se devo essere sincero, ci sono altri esempi più meritevoli a cui mi piacerebbe essere associato, ma anche in questo caso non posso parlare di veri e propri punti di riferimento. Penso a serie TV come Shameless, o altre di genere un po’ differente ma illuminanti per la caratterizzazione dei personaggi, come Romanzo Criminale. In questo senso potrei citare anche Vallanzasca, il film. Mentre sul genere di Shameless mi vengono in mente film come Ex Drummer, Trainspotting o La Haine. Poi c’è il background Rock/Metal dei film di Rob Zombie, o del più noto This must be the place. Oppure ancora mi viene da pensare ai manga come Nana, ai film di Marilyn Manson, passando per Non è un paese per vecchi e la serie The Osbournes. Non escludo nemmeno una possibile parentesi legata all’universo skater con le serie sulla vita di Bam Margera o gli episodi e i film di Jackass. Forse l’unico vero e proprio collegamento letterario lo percepisco con Gianni Celati, che ricollego immediatamente alle fotografie di Luigi Ghirri. Al massimo potrei forse sconfinare in Tondelli. Ma in realtà tutto ciò ha poco a che fare con il romanzo e sono tutti paragoni che ho fatto a posteriori. L’unica cosa che posso affermare con certezza: tanto tanto Metal.

 

4) “Sesso, droga e Rock’n’Roll”: frasi fatte a parte, i tuoi ragazzi fanno uso di sostanze e sono divisi in base alle rispettive identità musicali.

Sesso: secondo una mia personale media, si inizia tra i 12 e i 15 anni e non si finisce più. Le uniche variabili sono la qualità e la quantità.

Droga: la droga! Ma sì, dai, qualcosa come tutti tra i 13 e i 20 anni. La droga non esiste, esistono solo i drogati, ma quelli esistono anche senza droga. Non sono un drogato e non lo sono mai stato, e nemmeno i miei amici.

Rock‘n’Roll: sì, ho sempre avuto un problema con la musica. Non sono mai riuscito ad ascoltare generi diversi da quelli citati nel romanzo: Rock, Metal, Punk (qualcosa) e quasi nient’altro, escluse poche eccezioni.

Per quanto riguarda tutto il resto: la storia è inventata, ma allo stesso tempo è vera. Diciamo che non è successo niente di quello che ho raccontato nel romanzo, ma cose molto simili con le quali potrebbe venir fuori un romanzo parallelo a T-Trinz. A dire il vero, c’è uno spunto concreto preso dalla realtà che posso rivelare. Si tratta proprio del T-Trinz: nella realtà è l’ex stazione delle corriere di Modena, ora in disuso.

 

5) Il Biondo (protagonista del tuo libro) e il narratore: a un certo punto le due voci sembrano sovrapporsi fino a coincidere, ma chi è l’uno e chi è l’altro?

Io non sono il Biondo. Anche se lo fossi stato, ora non lo sarei più. E non sono nemmeno il narratore. D’altra parte nemmeno il narratore è veramente il Biondo. Diciamo che forse sono stato qualcosa di simile al Biondo fintanto che il mondo in cui vivevo era circondato dalle mura del mio T-Trinz. Il fatto è che, a prescindere da quale sia stata la mia storia o quella del narratore, la fine della storia del Biondo coincide inevitabilmente con la fine del libro. Sono convinto che di gente come il Biondo e la sua compagnia ne esista ancora. Sono gruppetti rari e hanno sempre una scadenza, ma esistono e, cazzo, hanno tutta la mia stima! Il Biondo esiste tutt’ora e probabilmente adesso sta rubando dei cellulari al Grandemilia, o incendiando qualche bidone dell’indifferenziata. Ma non sono io, non più almeno. Però ho un consiglio per lui e i suoi amici: per staccare gli “stemmini” Mercedes ci vuole un colpo secco.

 

6) Ti sei mai chiesto chi (o cosa) potrebbe essere un “Biondo” quando diventa adulto?

Secondo me non c’è futuro. La fine è già scritta e i ragazzi del T-Trinz lo sanno e lo si legge chiaro e tondo: “hai mai avuto la consapevolezza della fine? L’amaro in bocca di quando ti rendi conto che le cose in cui hai creduto stanno per essere cancellate per sempre? Loro sì, i Thanatos sì, ma tu e io no. E mai capiremo, mai saremo come sono loro in questo momento”. Chiedersi cosa ne sarà del Biondo è una domanda che può riguardare il narratore, ma la verità è che alla fine il Biondo muore e rimane un involucro vuoto. Oppure il Biondo vive e allora non saprei raccontare la sua storia, perché non sarebbe una storia sincera.

 

7) Come hai affrontato il lavoro della scrittura e perché alla fine hai deciso di farti “giudicare” dal Premio Italo Calvino?

Con un minimo di metodo ho buttato giù una scaletta dell’intreccio e in sei giorni avevo un manoscritto grezzo tra le mani. Illeggibile forse, ma la sostanza era quella. Il grosso del lavoro è stato fatto successivamente. Ho riscritto il finale due o tre volte e ho smussato un po’ il linguaggio, che in alcuni punti risultava troppo dialettale o gergale. Devo dire che non ho avuto grosse difficoltà. Potendo contare sull’esperienza di alcuni amici, nel giro di un mese tutto era sistemato e pronto per essere spedito. Si tratta del mio primo romanzo compiuto, perché più spesso ho l’abitudine di lasciare a metà i miei lavori. Non si tratta di mancanza di voglia, ma di una serrata autocritica. Questo racconto invece è venuto da sé, avevo materiale autobiografico e ho cercato di utilizzare un linguaggio che si prestasse ai dialoghi e all’immediatezza. Non ho nemmeno provato a pubblicarlo per conto mio. La mia carriera universitaria punta in un’altra direzione, così ho pensato di inviarlo al PIC per avere un riscontro e la risposta alla domanda: “potrei mai funzionare nelle vesti di scrittore?” La risposta è stata un gigantesco: “MAH, POTREBBE ESSERE”.

 

8) La tua esperienza con il Premio Italo Calvino e il percorso verso la pubblicazione.

La selezione e la scheda di lettura sono state davvero utili per fare il punto della situazione. Ho ottenuto un risultato discreto. Allo stesso tempo ho avuto modo di riflettere sulle mie mancanze, anche in confronto alle opere degli altri concorrenti. Quando mi sono reso conto dell’impegno e della costanza con cui i primi classificati hanno lavorato ai loro libri, non ho potuto che pensare: “Merda, ma cosa ci sto a fare io qui, che ho lavorato un solo mese?”. La risposta che mi sono dato è che una storia può essere buona anche se scritta in breve tempo, però manca senz’altro il valore aggiunto della perseveranza, che non si può non notare in lavori come quelli di Martina Prosperi e Cesare Sinatti. Dopo la premiazione stato messo in contatto con alcuni editori (ringrazio tutto lo staff del PIC per questo), ma ancora non ho avuto riscontri. Ho trovato una strada alternativa e interessante per conto mio, ma ancora provvisoria. Si tratta della neonata casa editrice online Il Dondolo, creata su iniziativa delle biblioteche e del Comune di Modena, che ha pubblicato gratuitamente il mio romanzo e sarà operativa nei prossimi giorni (potete trovare qui l’e-book di T-Trinz).

 

9) Quale destino vorresti per questo libro?

Questo libro non si porta dietro né pretese letterarie né interessi pecuniari. L’ho scritto e basta. L’unico desiderio che ho è che venga letto, o almeno sfogliato. Sarebbe bello se qualche fumettista lo leggesse e lo illustrasse per farne una graphic novel, o magari se qualche regista in erba ne volesse fare un pessimo cortometraggio. La resa grafica potrebbe funzionare, a mio avviso. Poi potrà piacere o non piacere, poco importa. L’unico giudizio che avevo a cuore nel momento della scrittura era quello dei vecchi amici del mio T-Trinz. Alla fine non tutti l’hanno letto, ma alcuni sì e mi pare che l’abbiano apprezzato. Questa è la sola soddisfazione che cercavo realmente. Per il resto, cavalco la mia piccola onda finché dura e poi, quando ci sarà tempo, passerò al prossimo romanzo.


 

Daniel Di Schüler

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – agosto 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Daniel Di Schüler è nato nel 1964 in provincia di Como. La sua storia personale, fatta di viaggi e soggiorni all’estero, è un vero e proprio romanzo, ricco di personaggi e di luoghi. Attualmente vive in Galizia, vicino a Finisterre, in un piccolo villaggio che conta circa duecento anime. Qui si dedica alle sue molte passioni che vanno dalla pittura alla scultura, dalla scrittura alla navigazione. Entrato tra i finalisti della 28° edizione del Premio Italo Calvino, il suo manoscritto si è aggiudicato la menzione speciale della giuria. Il 12 maggio [2016] è stato pubblicato dalla Baldini&Castoldi con il titolo di Un’Odissea minuta, ed è stato presentato al grande pubblico durante il Salone del Libro di Torino 2016.

Con il suo romanzo d’esordio, Daniel Di Schüler ha saputo creare un’opera inusuale, complessa e insieme scorrevole, densa di richiami e di significati, capace di svolgersi passo dopo passo grazie alla collaborazione del lettore che può così scoprire – o riscoprire – l’intenso piacere della lettura attiva.

 

1) Un’Odissea minuta è un testo talmente particolare che chiederti quali siano i tuoi autori di riferimento e quali letture ti abbiano ispirato diventa un primo step quasi obbligato.

I miei autori di riferimento? Certamente il sacro trio: Joyce, Proust e Kafka. Amo poi Musil, Joseph Roth e Svevo. Cito loro e mi pento di non aver nominato Thomas Mann, mi rendo conto di dover perlomeno accennare a Céline e di non poter dimenticare il genio di Karl Kraus (la coralità de Gli ultimi giorni dell’umanità è tra gli obiettivi che prima o poi vorrei raggiungere). Sono un europeo figlio del ‘900, insomma. E sono un italiano. Amo Calvino e Buzzati. Considero Mario Rigoni Stern e Primo Levi due grandissimi. Amo la memorialistica più della finzione: quando ascolto chi è sopravvissuto sto molto attento per poter rinarrare. E amo Fenoglio, forse più di tutti, forse perché nelle sue pagine trovo tracce di quasi tutti, forse perché mi è tanto facile immedesimarmi in lui, se non altro per il suo rapporto con l’inglese così simile al mio. Troppi nomi? In realtà dovrei citarne ancora altri, di sommi e di autori che non tutti considerano tali. Un modo per dire che, prima di diventare uno scrittore, sono stato un lettore. Tutto quel che ho letto fa parte di me e della mia scrittura.

 

2) Tra i vari elementi che rendono insolito il tuo libro c’è senza dubbio la struttura: scritto in forma di romanzo per una ventina di pagine iniziali e poi sviluppato attraverso circa seicento pagine di note. Perché hai scelto questo tipo di costruzione?

Senza originalità, volevo raccontare la storia di un uomo qualunque; di uno Zeno o di un Ulrich dei nostri giorni. Non volevo però che il mio protagonista entrasse in una casa borghese per chiedere la mano di una ragazza e ne uscisse fidanzato come un’altra. Volevo narrare di un Fallmerayer capo di una stazione dove non avvengono incidenti. Come farlo? Come non annoiare il lettore? Come renderlo partecipe di una vita in cui non accade nulla di notevole e che non offre appigli per una trama avvincente? Picasso diceva che nell’arte non si cerca, ma si trova. Io ho trovato la risposta che cercavo scrivendo tutt’altro, mettendomi a sviluppare l’apparato di note necessario a un mio lavoro sulla Prima Guerra Mondiale. Dallo scrivere quelle note al capire che, in modo del tutto analogo, avrei potuto raccontare i mille ricordi di cui è fatta anche la più scialba delle biografie, il passo è stato brevissimo.

 

3) Da dove viene la storia di Alberto Cappagalli e perché hai sentito il bisogno di raccontarla?

La storia viene dagli anni spesi come impiegato nel settore industriale, facendo più o meno lo stesso lavoro del ragionier Cappagalli. Perché raccontarla? Perché i nostri figli e nipoti guarderanno con orrore alla nostra barbarie e si chiederanno come abbiamo potuto. Tra le opere che mi hanno influenzato in questo senso, un posto d’onore tocca a La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, di Hannah Arendt. Ecco: Alberto Cappagalli, con il suo razzismo “bonario” e con la sua misoginia qualunquista non è un Eichmann nostrano, ma è la materia prima di cui gli Eichmann sono fatti. È uno come tanti, come tutti o quasi, tanto vittima quanto carnefice di una società che ha perso la bussola. Raccontare la sua storia ha richiesto solo pochi mesi di scrittura, però ci sono voluti anni di riflessione per completare il lavoro; io scrivo velocemente ma a strappi, tra punti morti che mi tengono bloccato a volte molto a lungo. Anni di riflessione che poi hanno portato alla stesura di diagrammi sempre più complessi, necessari a tenere sotto controllo il protagonista e tutto il suo mondo. Insomma, ho costruito diversi “schemi Linati dei poveri”, o dei miserabili.

 

4) Un’Odissea minuta è un’opera a due voci, recitata in tre tempi diversi: la voce protagonista (quella di Alberto Cappagalli) enuncia le venti pagine-romanzo d’apertura e la prima serie di note, mentre l’altra (quella di Daniele Scolari) fa da controcanto nella seconda serie di note. Chi sono e cosa rappresentano Alberto e Daniele?

Di Alberto ho già detto quasi tutto. È viscerale e irragionevole, banale e sciatto. È il peggior qualunquista, l’eterno sommerso, lo sconfitto di sempre. È tutto questo o rischierebbe d’esserlo se non trovasse la forza di salvarsi, se i vaghi ricordi di antichi valori non gli consentissero di arrivare, proprio alla fine del libro, alla parola chiave che è la vera e propria essenza delle civiltà europea. Daniele, suo cognato, è un po’ il Dedalus della situazione. Cerca di portare la luce della ragione nelle tenebre di Alberto, di mettere ordine nei suoi pensieri. Con le sue note alle note, inoltre, proietta il libro nel tempo; lo renderà leggibile – e spero godibile – anche quando i protagonisti della nostra epoca saranno, appunto, delle piccole note a piè di pagina nei libri di storia. (Sì, ho una visione altissima della mia opera. Chi professa umiltà e pretende che altri spendano del denaro per leggere quel che scrive è a dir poco un bigotto.)

 

5) Un’altra cosa che salta subito all’occhio è il “gioco dei nomi”: dai personaggi alle località geografiche in cui si muovono, ogni nome che hai scelto è denso di richiami e di significati.

Il gioco dei nomi è, prima di tutto, un gioco. Un modo per divertirmi e divertire il lettore, che magari sorriderà scoprendo come Rosa e il nostro ragioniere si siano sposati a Figliate Appiano. Ovviamente ne ho approfittato anche per far passare altri messaggi. Non è certo casuale che il ragionier Cappagalli – a chi alluda il “cappa” del cognome è evidentissimo – viva a Commiserate Ontona e che la città vicina, capoluogo delle provincia eterna rivale, si chiami Compiangete Laltro. Un gioco in cui ho però cercato di rispettare alcune regole: tutti i cognomi inventati ricalcano cognomi reali e i nomi geografici seguono la reale distribuzione delle località lombarde; infatti i nomi con la desinenza celtica si trovano principalmente lungo la fascia prealpina, mentre quelli goti e longobardi si snodano verso la pianura, e così via.

 

6) Mettiamo un attimo da parte il Daniele co-protagonista e veniamo al Daniel autore. Tu vivi da molto tempo in Galizia: perché hai scelto d’imboccare la strada del Premio Italo Calvino e perché pubblicare in Italia?

Ho voluto pubblicare in Italia per la banale ragione che sono italiano e l’italiano è la mia lingua madre. Scrivo anche in inglese e spagnolo, ma la mia abilità in queste due lingue non va oltre la decenza. Sono venuto a sapere del Premio Italo Calvino pochi anni fa, grazie a un’amica torinese che me ne ha parlato. Lo avessi conosciuto prima, mi sarei iscritto prima: lo ritengo, semplicemente, la strada maestra verso la pubblicazione.

 

7) Raccontaci la tua esperienza con il Calvino, dall’iscrizione al concorso fino alla pubblicazione con Baldini & Castoldi.

Ho partecipato a tre edizioni consecutive del Calvino. Non avessi trovato un editore, avrei continuato a iscrivermi anno dopo anno. Credo che questo sia un buon indice della stima che nutro per il Premio e per i suoi organizzatori: trovo il loro lavoro sempre cristallino. La loro analisi delle opere in gara, inviata a tutti gli autori partecipanti sotto forma di scheda di lettura, è una fonte preziosa d’indicazioni. Nel mio caso, ad esempio, le schede di lettura sono state la guida che mi ha spinto a migliorare lo stile, liberandomi dai vezzi eccessivi. Quanto alla pubblicazione, ritengo di essere stato fortunato nel trovare in Baldini&Castoldi un editore che ha davvero creduto in me. Fortunatissimo, poi, nel lavorare a fianco di Corrado Melluso, il direttore editoriale, che si è personalmente occupato del mio libro. Un lavoro che ha condotto mostrando un estremo rispetto tanto del mio testo quanto delle mie idee. Se per qualcuno l’editing è stato fonte di mille dolori, a me è costato solo qualche goccia di sudore e poco più; posso sicuramente annoverarlo tra i bei ricordi di quest’avventura.

 

8) Cosa ne farai, adesso, del tuo provato talento di scrittore? Che tipo di rapporto hai instaurato con il mondo letterario italiano?

Da quando ho iniziato a scrivere Un’Odissea minuta ho portato a termine perlomeno altri cinque libri. Da quando il libro è entrato nella rosa dei finalisti del Calvino ne ho completati due. In questi giorni sono impegnato in una traduzione. Appena l’avrò finita, spero di avere le idee abbastanza chiare per iniziare un romanzo a cui sto pensando da molto tempo: so benissimo cosa voglio dire ma, una volta di più, non sono certo di quale sia il miglior modo di dirlo. Il mondo letterario mi sembra una foresta in cui ho mosso solo un paio di passi; troppo pochi per dirne qualcosa. Mi è ignoto, ecco, e proprio per questo mi spaventa. O quasi.