Diari

BRUNO TOSATTI – POLPETTE, MUMMIE E ORECCHIE A PUNTA

lunedì, 23 Luglio 2018

Dell’esperienza del Calvino ricordo:

L’ansia che mi mise la telefonata con cui Mario Marchetti mi spiegava come si sarebbe svolta la premiazione, in particolare il fatto che agli autori sarebbe stata data la parola per parlare del proprio libro.

Il ritratto di Nikola Tesla con le orecchie a punta appeso nella sala dell’albergo in cui ero ospite.

Le polpette della polpetteria di fronte all’albergo, oltre al cabinato con tutti i classici da sala giochi degli anni Ottanta.

Damiano che viene a prenderci per accompagnarci al Circolo dei Lettori, e quando fa l’appello e io rispondo, per prima cosa mi dice: «È assolutamente impubblicabile, ma il tuo libro mi è piaciuto molto».

Il Circolo dei Lettori, un posto dedicato ai libri che non è né una biblioteca né una libreria.

Le scanalature delle lesene del salone in cui si è svolta la premiazione: per metà concave, per metà convesse (per cui immagino che non si possano chiamare proprio scanalature).

Il sollievo per non aver fatto una figuraccia quando è toccato a me parlare.

La curiosità che mi è venuta quando sono stati letti alcuni passaggi dei libri dei miei colleghi. Non vedo l’ora di trovarli in libreria per poterli leggere.

La chiacchierata di fine serata, in un locale a San Salvario, sui luoghi dell’esoterismo di Torino, che – non lo sapevo – è l’unica città a far parte sia del triangolo della magia bianca, sia di quello della magia nera.

E poi il giorno dopo al Museo Egizio quando, mentre sto guardando una mummia, una ragazza e un ragazzo che avevano assistito alla premiazione mi salutano chiamandomi “Talib”.

FILIPPO TAPPARELLI – E LA VOCE RIDE…

lunedì, 23 Luglio 2018

Quando un numero sconosciuto ti chiama il ventidue aprile alle diciassette e sedici si tratta, poco ma sicuro, di qualcuno che vuole farti cambiare operatore telefonico. Queste telefonate ho imparato a riconoscerle, ormai. Le sento dal vibrare del telefono. Credo ci sia una postilla di un versetto del Deuteronomio che dice proprio questo: Ti chiameranno mentre stai guidando e saranno venditori di abbonamenti. Quindi non ti aspetti che si tratti di una voce sconosciuta che si presenta come Mario Marchetti, presidente del Premio Italo Calvino, e ti dice che sei stato scelto tra i finalisti. Ti tocca ingoiare il tuo preconfezionato «grazie, ma mi trovo bene con Telecom» prima che ti esca dai denti.

Ricordo che la mia prima frase dopo l’annuncio è stata: «Porca vacca!». Non me ne vergogno: da veneto avrei potuto dire di peggio.

Comunque, quando ti chiama il Presidente del Premio Italo Calvino, un paio di colpi il cuore li perde. Poi li ritrova, ma nel frattempo tutto quello che accade è più materia parapsicologica che scientifica, perché diciamocelo: uno, quando partecipa a un premio, non pensa mai di poterlo vincere. O meglio, un pochino sì, ma per mantenere un briciolo di sanità mentale diluisce quella speranza in un mare infinito pieno di «lo faccio solo per la scheda di valutazione». Quindi, la possibilità di trovarsi in finale diventa così surreale che gli aghi nascosti in tutti i pagliai del mondo in confronto sono una faccenda a portata di mano.

Tutto questo accade in venti minuti di telefonata nella quale l’ormai-non-più-operatore-Vodafone ti spiega che il ventidue maggio dovrai essere a Torino, al Circolo dei Lettori, a vedere se il tuo sogno più irraggiungibile si avvererà. E quella voce lo dice a me, che Torino è talmente al di là delle mie colonne d’Ercole che manco mi escono i paragoni. A me, lo dice. A me che non viaggio manco se mi pagano, perché sono stato cresciuto a Non esiste mondo fuor dalle mura di Verona; ma solo purgatorio, tortura, inferno. Credo di aver chiesto in un paio di occasioni se non c’era – per caso, dico, non si sa mai − un errore. Credo che la voce si sia messa a ridere altrettante volte.

Arriva il sedici maggio e la notizia esce sul sito del Premio e rimbalza sui giornali: allora non si sono sbagliati, penso. O forse lo hanno fatto davvero in maniera grandiosa e si ricrederanno. Il sedici sera comincio a pensare ai biglietti del treno. Il diciassette controllo tutte le previsioni meteo possibili. Il diciotto cerco di stabilire come vestirmi, un po’ come Totò e Peppino in quel film in cui andavano a Milano, sudatissimi, avvolti in improbabili pellicce. Il diciannove chiedo ferie, ma è sabato e il mio superiore mi domanda se sono pazzo. Il venti penso di essere ammalato. Il ventuno svengo. Mi riprendo il giorno seguente, giusto in tempo per cercare di prendere il treno, che perdo con puntualità.

Poi inizia un giorno incredibile, in cui ancora oggi mi vedo dal di fuori.
Il ventidue, alle diciannove e trenta, la voce che apparteneva davvero a Mario Marchetti annuncia che il romanzo che ho scritto ha vinto la trentunesima edizione del Premio Calvino. Io che non ho mai vinto nulla, tranne il set di centrini color verde fastidio a una pesca di beneficenza nel maggio dell’ottantasette. E lo fa davanti a un sacco di gente che applaude, tra cui persino molti addetti ai lavori.

Sono cose che lasciano il segno, ci potete scommettere.

Ogni tanto chiamo Mario Marchetti e gli chiedo se non ci sia stato un errore.

E la voce, come la prima volta, ride ancora.

MARINELLA SAVINO – LA TELEFONATA NON L’HO AVUTA

lunedì, 23 Luglio 2018

Io non rispondo al cellulare.

Non è che non risponda per partito preso. È che proprio non lo sento. Non che sia sorda, no… Non lo sento perché mi devo salvare in qualche modo. E, per salvarmi, il mio cervello ha sviluppato un meccanismo di autoconservazione che si attiva appena il cellulare comincia a squillare, producendo una notevole riduzione del mio senso dell’udito. Questo meccanismo ha cominciato a funzionare poco dopo la messa in vendita della mia casa in un sito immobiliare su internet. Mi verrebbe da dire “non l’avessi mai fatto!”, ma che lo dico a fare? Tanto, il cellulare suona lo stesso.

Non sono gli ipotetici acquirenti a telefonare, quelli sono pochi, con questi chiari di luna… I milioni, bilioni, trilioni di telefonate arrivano dalle agenzie immobiliari da me mai invitate ad aiutarmi a vendere casa. Si autopropongono. Dalle nove del mattino fino a sera inoltrata. Con un’insistenza a dir poco imbarazzante. Una delle ultime volte che ho risposto a un numero sconosciuto sono stata vittima di una vera e propria aggressione a cellulare armato. Ho cercato di difendermi, ho accusato l’agente immobiliare di essere uno stalker ma, poi, mia figlia, presente alla telefonata, mi ha fatto notare che l’agente voleva a tutti i costi la mia casa, non me, e quindi non si trattava di stalking, ma di petulanza immobiliare. Ok, va bene.

Allora, io non rispondo.

I miei amici e conoscenti, ormai edotti sul caso, utilizzano mezzi di comunicazione avanzati e di fortuna per parlare con me: messaggeria istantanea, mail, segnali di fumo, piccioni viaggiatori, telepensiero. Quando sono all’estero, spesso, nell’ultimo periodo, la situazione non migliora, come chiunque si aspetterebbe. Alle agenzie immobiliari, si aggiungono tutti quelli che, quando sono a Roma, non mi si filano per niente. Appena scendo da un aereo, in territorio Schengen o meno, tutto il mondo a me sconosciuto sembra affollarsi intorno al mio cellulare per conoscermi o dirmi qualche cosa.

Ovviamente, fino al 27 di aprile di quest’anno, tra quelli che non mi si filavano per niente, c’era il Premio Calvino. Due romanzi inviati negli anni precedenti, una scheda di lettura, una segnalazione… che ti aspetti, Marine’? Niente. Appunto. Certo, agli inizi di aprile la mia mente era andata nei dintorni del Premio… due passi a sbirciare il sito, altri due a farsi il conto dei tempi tecnici…: “a maggio o giù di lì faranno le telefonate ai finalisti… forse…”

A maggio. Ai finalisti. Appunto. Mica a me. Così, ad aprile ero ad Atene. Quasi non mi sembrava vero di girare per Kolonaki indisturbata. Gioiellerie che neanche a Parigi, antiquari con komboloi d’epoca indescrivibili, musei pressoché gratuiti, euzoni imperturbabili e perfettamente sincronizzati nel cambio della guardia davanti al monumento del Milite Ignoto, e ancora: kataifi, loukoumades, baklava… un tripudio di grecità! Il meccanismo di autoconservazione lavorava per me, il cellulare suonava, io non lo sentivo e non rispondevo. Però un occhio ogni tanto alle notifiche delle mail… quello sì… Perché la coscienza si tacita anche con un occhio alle mail. La posta elettronica è un sistema di comunicazione molto democratico e quasi per nulla invasivo. Elimini la suoneria, scegli tra posta evidenziata e altra, imposti la ricezione con la notifica sul display del cellulare e la vita riprende a scorrere serena come prima degli stalker immobiliaristi. Ma io in matematica non sono mai stata un portento. E i conti non fanno per me. Infatti, nonostante la democrazia e la poca invasività del sistema di comunicazione mail, un fondamentalista immobiliare s’era impadronito non so come della mia mail e mi mandava una mail un giorno sì e l’altro pure due…

Tale m.marchetti. Così, alle 12:40 del 27 aprile, quando ho visto sott’occhio ancora una volta il cognome MARCHETTI… ho pensato seriamente di salire di corsa sopra l’Acropoli per sotterrare il cellulare sotto gli improbabili resti della colmata persiana. Però, se in matematica non vado forte, con l’occhio sono lesta. E ho visto che, dopo la m. e prima di marchetti, c’era qualcos’altro. Un altro nome. Ugo? Apro la mail:

MARCHETTI/PREMIO CALVINO

Gentile Marinella Savino,

da parecchi giorni la cerco sul suo cellulare (**********) senza riuscire a contattarla. Mi chiami, per favore, al seguente numero quanto prima per comunicazioni urgenti: **********.

Cordiali saluti, Mario Marchetti

Ecco.

In quel momento, folgorata sulla via di Kolonaki, ho messo insieme due date e ho pensato che due erano le cose: o il Presidente del Premio Calvino s’interessava anche lui d’immobili o ero in finale. E io non avevo risposto al cellulare. Come si reagisce a una cosa così? Non si reagisce, si simula una reazione. Si compone il numero indicato, con calma. Per prendere tempo, come se non te ne fossi preso già abbastanza. Mentre il cellulare squilla, si fanno due conti della serva a mente sulla scusa meno balorda atta a giustificare la tua scomparsa dal pianeta da chissà quanti giorni, si inspira profondamente e, al Pronto… del Presidente del Premio Calvino, si sfodera la voce più innocente mai avuta. Falsa, falsissima. Saluti, abbozzi qualche scusa miserrima, adduci motivazioni senza senso, ringrazi, rispondi alle domande di un uomo misurato e gentilissimo, mentre nella tua testa rintoccano, lugubri, impietosi pensieri di colpa: tu quella telefonata non l’hai avuta… perché tu al telefono non rispondi. Tu sei l’unica della storia del Premio Calvino che non l’ha avuta quella telefonata. Perché tu al telefono non rispondi… Tu… la telefonata…

 

 

 

NICOLA NUCCI – ECCOTI FLIPPATO

lunedì, 23 Luglio 2018

Butto giù un colpo di tosse, una canzone moderna, un’estate, un nulla di fatto, uno starnuto, un testo teatrale coi fiocchi, cavolo!, suona che è una meraviglia, roba da malati, storia da libro degli orrori, ma io ci sto dentro a quella stanza degli orrori − roba sterilizzata ben bene, finestre ariose, − tipo centro di recupero, tipo uno sputo che ti proietta a ridosso di quel cono d’ombra che…, all’improvviso mi piglia lo schiribizzo di telare via, e invece no, devo rimanere, “mica puoi muoverti, eh”, tipo segregato, tipo “disintossicazione”: dosi finite, pulito!, “ne uscirò da bravo damerino” penso tra me e me, e intanto schizza via un altro inverno, o foglio, o scracchio d’inchiostro che… notte bigia: reggimento di soldati scalzi, lanterne fioche disseminate come mine, “basta tenere duro un altro po’” che le munizioni sono terminate e io non sono una specie di chimico o qualcosa del genere quindi la roba me la devo fabbricare allampo per conto mio, ed è così che faccio, ammaestrato coi gusci buoni, addobbato per le feste, o per morire, e difatti principio subito a perdere un mucchio di sangue − sagome tetre aggrappati a muri obliqui, battiti di mani mancati, − “per gli altri è stato tanto difficile?”, “per quello lì non deve essere stato tutto ‘sto difficile!”, odo i rintocchi di un altro valzer di lancette, tipo coltelli che si conficcano…, tipo non lo so: un sacco di fame, la gestisco facendo brillare un altro istante, ne esco conciato malissimo del tipo mi mordicchio le labbra, butto giù tutta la rogna che ho dentro…, che poi mica è una cosa tanto dissimile da togliersi un rene, da vomitare, da rinascere… giudizi sparsi di amici o presunti tali: “dove vai così conciato!”, “non si capisce un cazzo!”, “e le note?”, “ma non c’avevi nulla di meglio?”, “tutto scollegato!”, “si parlano troppo addosso!” “perché non hai scritto una caspita di storia d’amore?!”, “i punti, le virgole, i punti e virgola”, “una cosa un sacco avanti… troppo avanti”… eppure continuo a proseguire diritto, quasi imperterrito, Premio Italo Calvino racconta quell’insegna ronzante che ci penso anche un po’ su, flippato come mi sento, non lo so, una sorta di radiografia, “come stai?”, sto bene, sto male, non so proprio come dovrei stare, perché prima o poi arriva il momento in cui cominci a fraternizzare con tutto il tuo buio, non lo so: ci giochi, scrivi un libro, ci dai dentro coi distorsori musicali e via discorrendo… fino a che non ti viene a pigliare quel primario che…, ti conduce in quella sala piena zeppa di cavi elettrici e buoni propositi, essì, ecco che riemergi più sfasato che mai, sei tu?, non sei tu?, forse uno che ti somiglia, no che non sei tu!, eppure gorgheggi “Trovami un modo semplice per uscirne è stata un po’ una scommessa”, del tipo arte moderna, o riff elettronici o sterco di triceratopo, e intanto ti trafiggi la vena con ‘sto bendidio… eccoti, flippato dalla poesia che profuma di giorni claudicanti.

Adesso sì che sei proprio tu.

GIULIO NARDO – CARO GUIDO, LA TUA VANITÀ NON MI FU VANA

lunedì, 23 Luglio 2018

Forse, a vivisezionar le memorie, tutte quelle passioni che s’asserpolano tra le budella, o le budella stesse?, si finisce coll’averci le golose interiora sparse sul tavolo; e niente, le si stimano e le si spiluccano un po’, a caso… del resto, il corpo che le conteneva, cioè che le dava un senso – be’ è tutto un macello, è a pezzi, sotto un’aura scialitica. Però forse, quel tòcco lì, sì, è lo spunciotto più buono, e allora lo infilzo, lo ingoio: e tra le fauci me lo ripappo, e ghiottamente, e via un altro. Così è la memoria, questa memoria qui.

Diario di una carriera. La carriera non c’è. O meglio, rettifichiamo: esiste una mitica previsione, la storia inchiostrata s’una carta impiastricciata. Tant’è: finché una bocca non chiama il nome, la cosa che tal nome designa (ma che!) manco a immaginarla sussiste. La cosa senza nome è semplicemente la cosa non pensata; sicché, perché chiamarla?

Una chiamata; to’, è per me? Cioè, per me per quel Guido Alfano che…? (Quattro giorni; e poi pàffete in fronte, che m’ero scordato del premio! No no, mica impegnato! Solo, smemorato.) E qui certo, e sì e sì, le belle risposte, pensai bene di libarne a sazietà, come scialacquando tra le mani un’affettuosa fisarmonica, o una catena di omini di carta, e gnor sì!, in punta di lingua!, copiosamente, e cauto!, timidamente, e lesto! – ma, mi sa, che tartagliai solo qualche liso sintagma: m’impappinò un rombo d’aeroplano, tipo un nugolo d’api, che balenò, e intanto un lampo filò dritto, filò rapido, e fine della discussione. Di già? (È fatta, ratta ratta; che il tempo non si perda.) Ed ora, ché il rombo è passato, com’è silenziosa la cucina. Lo spazio si racqueta. Una bava del tardo aprile s’attortigliava per le tende come un fruscio ed io, ch’ero ancóra lì, imbaucàto da chissà quale arcobaleno, io forse fluttuai come la bolla dentro una livella. Ancóra lì, ancóra un attimo; il cervello s’accese; e poi, via di sarabanda! Di là dalla camera, dove mia sorella spalmava scale all’organo, sopraggiungevano quelle note monotone, ma per la passione mi parevano senz’altro note di un guazzabuglio, gli spruzzi di Versailles, saboè fioccanti da quella mia ilare e polivocale bizzarrìa dell’anima; meraviglioso!, quanto le immaginazioni si sperticavano fino al soffitto mentre una mano scialava, da una lauta cornucopia, parole sonaglianti e bionde come pioggia della Danae, o dello zafferano. Ma ancóra un attimo… Poi, mi calmai, mi schiantai sulla scranna: e riecco, l’organo continuava i suoi giri, e su, e giù; ma la fanfara, dov’era? Quella gloria d’ottone, tutta in testa… La visione, tutt’era scorsa. Di già? Di già. Gli occhi peregrinavano, e i pensieri orbitarono obliqui mentre una mano errava sopra il tavolo, e s’aggrappava, un’unghia scivolando sul decanter dell’acqua, tra le molliche e il pane, gli scampoli del pranzo, finché scoccò sul bicchiere e fece tin: e mentre sorridevo, mentre la contemplavo, l’acqua, dapprima smorta, scintillò (un attimo) e ballonzolò; e quel tin era tutta la mia musica. Chi l’avrebbe mai detto? Quel Guido Alfano, che… – Tin! Punto; e a capo.

Due mesi, e sono ancóra qui; ma dato che il cervello è distratto, un dito tiene pigro un segno sul libro, due fioretti di Petronio ciarlano al muro e intanto il bel pensare s’incricca sulla ventola, e vola via. Infatti, ora il cervello c’ha la sua bella epopea! Se il corpo è sempre questo, sai quale progresso si mescé di sotto: perbacco, questo venticello sottile sottile, il ventidue di maggio f’un gran chiasso, un gran groppaccio in gola, e non per la cravatta, che stava buona buona al suo posto; ma dico invece l’ambaradan nel fegato… poiché ho due polmoni di canarino, cioè poco avvezzi ai larghi respiri: sicché quando si fu alla ribalta, quando si disse il mio nome e cognome, poi il nome e il cognome di quell’altro, il mio compare lì (Guido Alfano, dico; ma guarda un po’!), come ci ruzzolò, a me e a lui, il cuore in un fragoroso patatràc! Che pasticcio, in mondovisione! Ma potei dare fiato a tutta la tromba del sermone, e proprio in quello: – Ecco – (pensavo, mentre la bocca diceva altro; cioè mi distraevo)

– ’Sto Guido Alfano è un buono a nulla, e per poco anch’io, come lui… Ah, ma se Guido Alfano ha toppato, di certo l’autore no! – E mi sa che lo dissi, questo sì, a voce alta. Volgiamo in celia la lezione? È meglio. Anche la cerimonia è passata. Mezzanotte? Prima di riserrare la finestra, ragionai un po’ sui coppi di Torino: – Ma guarda un po’! Caro Guido, la tua vanità non mi fu vana! – Insomma, per quel giorno il mito era abbastanza: chiusi la luce e mi ficcai a letto. Ma non avevo sonno.

LORETA MINUTILLI – COSA INDOSSERÒ ALLA PREMIAZIONE?

lunedì, 23 Luglio 2018

Ho sempre avuto uno strano rapporto con l’abbigliamento.

A quattro o cinque anni, prima di uscire di casa dovevo assicurarmi di essere vestita come una

principessa. Gli elementi fondamentali del mio outfit erano una gonna che svolazzasse in un cerchio se giravo su me stessa, una borsetta piena di strass e un’indefinita quantità di collane, braccialetti e ninnoli di plastica. Nonostante i comprensibili sforzi dei miei parenti per conciarmi in modo più sobrio, avrei rifiutato di muovere un passo nel mondo esterno senza sentirmi adeguatamente sontuosa. Ci sono poi stati gli anni della prima adolescenza, in cui mi convinsi, quasi da un giorno all’altro, che l’attenzione ai vestiti non si confacesse alla figura di intellettuale tormentata che aspiravo a diventare. Così smisi di occuparmi di quello che indossavo, un po’ per snobismo, un po’ perché in fondo temevo di rendermi ridicola, di non essere abbastanza carina per sfoggiare gli accessori che mi piacevano. Poi sono cresciuta, ho deciso che la possibilità di essere ridicola non mi dispiaceva poi troppo e ho ripreso a fermarmi davanti alle vetrine dei negozi di abbigliamento, a indossare gonne e fiocchetti e a ignorare ogni possibile sguardo critico.

 

Curiosamente, la parabola del mio rapporto con i vestiti coincide grosso modo con il percorso delle mie velleità letterarie.

Avevo circa sei anni quando ho deciso che da grande sarei diventata una scrittrice famosa. Essere una scrittrice non mi bastava, dovevo avere anche la gloria – a volte specificavo anche, famosa in tutto il mondo. Da bambina volevo scrivere le cose che leggevo: libri d’avventura, storie fantastiche. Passavo pomeriggi a deciderne gli intrecci e a delinearne i personaggi. Poi, più o meno quando ho smesso di agghindarmi come una madonnella prima di uscire di casa, ho attraversato uno strano periodo in cui scrivevo solo liste: di nomi, di oggetti, di piante. Costruivo interi alberi genealogici per famiglie sulle quali non avrei mai scritto una riga. Iniziavo splendidi romanzi fantasy di cui oggi mi restano due paragrafi in una lunga serie di file word da meno di 20 kbyte ciascuno. È stato anche il periodo in cui ho iniziato a scrivere racconti, attività decisamente meno spaventosa a cui dedicarsi, e ad inviarli a qualche concorso letterario. Non avevo la costanza né la determinazione necessarie a portare avanti un progetto più impegnativo. Solo quando mi sono iscritta all’università e il mio armadio si è riempito di gonne a balze e fascette per capelli ho deciso che, per la prima volta, non avrei permesso né alla sensazione di inadeguatezza né al desiderio di rincorrere altre idee di ostacolare la storia che avevo appena iniziato.

Così, per la prima volta, ho scritto un romanzo. Ho plasmato un personaggio dall’inizio alla fine e ho messo a tacere tutto il resto fino all’ultima riga.

È dunque comprensibile se quando ho saputo che quel mio romanzetto era arrivato in finale al Premio Calvino, superata la sensazione di incredulità e sorpresa e accettato l’inevitabile corso degli eventi, uno dei miei primi pensieri è stato: cosa indosserò alla premiazione?

 

Non mi sono sentita superficiale per questo: negli anni sono scesa a patti con la vanità, almeno riguardo al mio aspetto esteriore, e ho allegramente vagliato le possibilità che il mio guardaroba mi offriva per una serata importante. Alla fine ho scelto il vestito che avevo indossato anche alla laurea. Ho pensato subito che forse anche per questo, poco prima che iniziasse la cerimonia, ho cominciato a provare esattamente le stesse sensazioni dei momenti prima del mio discorso alla seduta: il timore irrazionale che ci fosse un errore, che fossi capitata per caso in quella situazione tanto più grande di me, che gli altri ne sapessero molto più di me mentre io ero irrimediabilmente impreparata e tutti stavano per scoprirlo. Questa paura poteva essere giustificata nel corso di un esame di laurea, ma perché avrei dovuto provarla in un contesto in cui, in fondo, avevo già vinto qualcosa?

La verità è che mi rendevo conto in quel momento più che mai di quanto scrivere mi rendesse incredibilmente più vanitosa che indossare vestiti e scarpe col tacco. Non ero troppo diversa dalla me stessa seienne che puntava a diventare famosa in tutto il mondo. Mi sono aggrappata all’orlo azzurro del vestito e la stoffa mi ha ricordato che alla seduta, alla fine, era andato tutto bene, che non c’era ragione di aver paura. Ho anche capito però che quell’ansia era più profonda, che sarebbero stati necessari più anni e più eventi per poter dire senza vergogna che sì, mi piace scrivere e mi piace che la gente legga quello che scrivo.

Ho lasciato andare la stoffa e ho fatto un respiro profondo: era il momento di iniziare ad accettare la vanità.

 

 

RICCARDO LURASCHI – L’OMBRA DEL PADRE

lunedì, 23 Luglio 2018

È stato un caso? o è stato il Fato, o qualche altra divinità presiedente ai destini umani, a provvedere che la telefonata del messaggero Marchetti giungesse pochi minuti dopo la fine della messa di suffragio per mio padre?

Una cerimonia frettolosa, nella cappella umida e scura di antica antichissima chiesa cittadina, ornata e ricca di dipinti marmi arredi ma fredda, ma scostante, il prete che tira un po’ via e recita a macchinetta le giaculatorie del suo ufficio, che sbriga la pratica insomma, assecondato dalle beghine col golfino dal colore indefinibile, abbottonato sul davanti, sussurranti implorazioni a occhi bassi, socchiusi. Assecondato anche, ma con tonante entusiasmo che sconfina a momenti nella frenesia, dai due gemelli sessantenni, alti e grossi come granatieri ma fermi, per funzioni mentali e cognitive, agli otto-dieci anni; di messe non se ne perdono una e sono buoni come il pane ma un po’ mi intimoriscono quando bruscamente, a scatti (tutto in loro, i pensieri infantili come il parlare, come i gesti, è a scatti, a strappi che succedono all’ingorgo, all’inceppamento) mi invitano ad accostarmi all’altare per ricevere dal sacerdote l’ostia consacrata. Io non voglio ricevere l’ostia consacrata e dunque dico no con la testa e accennando un debole sorriso, ma loro insistono imperterriti con questo scatto ripetuto del braccio nel gesto del vigile all’incrocio che intima agli automobilisti apatici o distratti o imbranati di circolare, così rinculo fino al muro ma loro insistono ancora e io faccio segno di no anche con le mani e già le beghine hanno levato la testa e fremono un po’ nel golfino ma ecco che per fortuna il prete dice con tono alto e fermo “Preghiamo” e i due, come azionati da una molla, si girano verso di lui e iniziano a recitare la preghiera, le sillabe sacre sparate come fucilate.

Comunque adesso ero fuori, nella strada inondata di sole e la giornata primaverile tiepida e luminosa così simile al 23 aprile di nove anni fa, quando mio padre si spense, mi fa ripensare a lui, alla sua lunga e intensa vicenda terrena compiutasi in una camera d’ospedale molto pulita, bianca, ben attrezzata, gli innumerevoli attimi vissuti confluendo lì, in quel letto reclinabile elettricamente, per assumere il loro misterioso significato, perché è la morte che – chiudendo il cerchio – illumina retrospettivamente l’esistenza umana. Il corso di tali intricati e frastornati pensieri è stato dunque interrotto dal messaggio di Marchetti: l’annuncio della finale e i complimenti e i ragguagli, in tono pacato e cortese, addirittura delicato, quasi il messaggero volesse attutire l’effetto della notizia, riportandomela con tatto.

Riagganciato il telefono, il filo dei pensieri su mio padre si riannodava. Ma ora tra me e lui, così lontano, per sempre lontano, c’era il Calvino, vale a dire l’inizio di qualcosa, il riconoscimento pubblico della mia scrittura, una qualità, una modalità esistenziale che lui non potrà mai sapere. La cosa mi addolora, perché so che sarebbe stato orgoglioso, ma accanto a questo sentimento ne è sorto un altro, indefinibile, fatto di sollievo e di rimorso: viene dalla consapevolezza che la lotta con la sua ombra è finita.

 

 

 

ADIL BELLAFQIH – UN GLITCH DI MATRIX

lunedì, 23 Luglio 2018

Negli episodi precedenti

 

(Musica random di Hans Zimmer)

Squilla il cellulare. Numero sconosciuto.

«Pronto?»

«Pronto, sono Mario Marchetti…»

Stacco. Torino sotto un sole feroce.

Stacco. Circolo dei lettori.

«Ora è il turno di Adil Bellafqih con Baratro…»

Applausi, flash, improvvisazione al microfono.

Stacco. Camera dell’hotel, notte insonne.

«Io non faccio arte. Io racconto storie.»

 

Sigla

 

Stazione di Sassuolo sotto il sole feroce di un feroce venerdì. Il treno arriva, giallo e stanco. Una colonia di vecchi si rifugia nel buio della sala slot in fondo al piazzale. Un ubriaco cerca di montare un cesto dell’immondizia prima di afflosciarsi a terra.

Squilla il cellulare. Numero conosciuto.

«Pronto, sono Mario Marchetti…»

Stacco. Città di Torino, ore 12,15.

Piove come se tutti gli angeli del paradiso avessero deciso di spremere le loro lacrime. La pupa mi cammina accanto, tenendomi il braccio (scenderemo insieme milioni di scale?). Il vento è un serial killer armato di rasoio, uno Sweeney Todd con gli occhi iniettati di freddo. Per fortuna una ragionevole dose di pericolo fa bene alla salute.

Stacco. Circolo dei lettori, premiazione, ore 17,00. Ma possono essere le 18,00 o le 23,00. Il tempo è un’illusione. L’ora di pranzo una doppia illusione.

Intrappolato in una bolla di umidità inizio a sfaldarmi sotto il giubbotto di pelle, strizzo la mano della pupa accanto a me e balbetto oscuri rituali propiziatori.

(… ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn…)

Aspetto il mio turno e vivo un déjà-vu. Ci sono già passato. Un glitch di Matrix. Solo che questa volta è ancora meglio.

Guardo la pupa, sorride e annuisce e mi stringe la mano. Andrà bene, penso. Tutte le cose servono il Vettore, penso.

Guardo il ciondolo a forma di leone appeso al collo. È Griever, il pendente del protagonista di Final Fantasy 8 (il mio videogioco preferito di quand’ero piccolo così). L’ho comprato a cinque euro a una fiera del fumetto. Sul retro sono incise le parole Sleeping Lion Heart e subito sotto Made in China.

Mi chiedo se sono un cuor di leone o se sono Made in China.

«Ora è il turno di Adil Bellafqih con Il Grande Vuoto…»

Applausi, flash, improvvisazione al microfono. E il suo sorriso, tra la folla.

Alla tua salute, bambina, penso.

 

つづ

 

Titoli di coda

 

Scena dopo i titoli di coda

 

Squilla il cellulare. Numero sconosciuto.

«Pronto?»