Quando un numero sconosciuto ti chiama il ventidue aprile alle diciassette e sedici si tratta, poco ma sicuro, di qualcuno che vuole farti cambiare operatore telefonico. Queste telefonate ho imparato a riconoscerle, ormai. Le sento dal vibrare del telefono. Credo ci sia una postilla di un versetto del Deuteronomio che dice proprio questo: Ti chiameranno mentre stai guidando e saranno venditori di abbonamenti. Quindi non ti aspetti che si tratti di una voce sconosciuta che si presenta come Mario Marchetti, presidente del Premio Italo Calvino, e ti dice che sei stato scelto tra i finalisti. Ti tocca ingoiare il tuo preconfezionato «grazie, ma mi trovo bene con Telecom» prima che ti esca dai denti.
Ricordo che la mia prima frase dopo l’annuncio è stata: «Porca vacca!». Non me ne vergogno: da veneto avrei potuto dire di peggio.
Comunque, quando ti chiama il Presidente del Premio Italo Calvino, un paio di colpi il cuore li perde. Poi li ritrova, ma nel frattempo tutto quello che accade è più materia parapsicologica che scientifica, perché diciamocelo: uno, quando partecipa a un premio, non pensa mai di poterlo vincere. O meglio, un pochino sì, ma per mantenere un briciolo di sanità mentale diluisce quella speranza in un mare infinito pieno di «lo faccio solo per la scheda di valutazione». Quindi, la possibilità di trovarsi in finale diventa così surreale che gli aghi nascosti in tutti i pagliai del mondo in confronto sono una faccenda a portata di mano.
Tutto questo accade in venti minuti di telefonata nella quale l’ormai-non-più-operatore-Vodafone ti spiega che il ventidue maggio dovrai essere a Torino, al Circolo dei Lettori, a vedere se il tuo sogno più irraggiungibile si avvererà. E quella voce lo dice a me, che Torino è talmente al di là delle mie colonne d’Ercole che manco mi escono i paragoni. A me, lo dice. A me che non viaggio manco se mi pagano, perché sono stato cresciuto a Non esiste mondo fuor dalle mura di Verona; ma solo purgatorio, tortura, inferno. Credo di aver chiesto in un paio di occasioni se non c’era – per caso, dico, non si sa mai − un errore. Credo che la voce si sia messa a ridere altrettante volte.
Arriva il sedici maggio e la notizia esce sul sito del Premio e rimbalza sui giornali: allora non si sono sbagliati, penso. O forse lo hanno fatto davvero in maniera grandiosa e si ricrederanno. Il sedici sera comincio a pensare ai biglietti del treno. Il diciassette controllo tutte le previsioni meteo possibili. Il diciotto cerco di stabilire come vestirmi, un po’ come Totò e Peppino in quel film in cui andavano a Milano, sudatissimi, avvolti in improbabili pellicce. Il diciannove chiedo ferie, ma è sabato e il mio superiore mi domanda se sono pazzo. Il venti penso di essere ammalato. Il ventuno svengo. Mi riprendo il giorno seguente, giusto in tempo per cercare di prendere il treno, che perdo con puntualità.
Poi inizia un giorno incredibile, in cui ancora oggi mi vedo dal di fuori.
Il ventidue, alle diciannove e trenta, la voce che apparteneva davvero a Mario Marchetti annuncia che il romanzo che ho scritto ha vinto la trentunesima edizione del Premio Calvino. Io che non ho mai vinto nulla, tranne il set di centrini color verde fastidio a una pesca di beneficenza nel maggio dell’ottantasette. E lo fa davanti a un sacco di gente che applaude, tra cui persino molti addetti ai lavori.
Sono cose che lasciano il segno, ci potete scommettere.
Ogni tanto chiamo Mario Marchetti e gli chiedo se non ci sia stato un errore.
E la voce, come la prima volta, ride ancora.
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