assaggi e critiche

MARTINA RENATA PROSPERI e BRANCHIA

mercoledì, 29 Giugno 2016

MARTINA RENATA PROSPERI

MARTINA RENATA PROSPERI

MARTINA RENATA PROSPERI (1992) è cresciuta tra la provincia di Milano e il borgo lunigianese di cui è originaria. Laureatasi a Venezia in Lingue, culture e società dell’Asia Orientale, si divide ora fra l’Italia e Taiwan, ultimando gli studi magistrali con una traduzione di leggende aborigene.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Branchia.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Un testo di grande interesse, scritto con compiuta maestria stilistica (come già di per sé rivela la sinossi redatta dall’autrice), giocato su due tavoli diversi ma funzionalmente correlati. Da una parte Branchia (che non ha polmoni e vive in una vasca) con il piccolo mondo della piscina che gli ruota attorno; dall’altra Ginevra che ha avuto la pesante eredità di organizzare e completare gli appunti di Jacob, suo compagno di liceo morto di recente (e Luca la aiuta nell’impresa): perché Branchia è un personaggio letterario, ideato da Jacob, e con lui lo sono i gemelli Gabriel e Giulia e la loro madre Marie, l’allenatore, lo psicologo, ecc.

Una struttura complessa e di complessa gestione (i personaggi, sia nella dimensione “reale” che nella dimensione “finzionale” sono numerosissimi), volta a raccontare due simmetrici amori impossibili (quello di Branchia per Giulia, gravemente cardiopatica, e quello di Ginevra e Luca) e, soprattutto, ad affrontare una serie di rilevanti nodi problematici, come l’anoressia e il rapporto con il corpo (o, meglio, con l’imperfezione e i limiti del corpo), la malattia, le relazioni conflittuali e ambigue tra fratelli, la difficoltà di gestire il proprio essere madre.

È un mondo affascinante, quello costruito dall’autrice, prevalentemente acquatico (piscina, pioggia, mare) in entrambe le dimensioni, e questo tratto contribuisce a unirle sottilmente, sotto traccia.

Il tavolo più realistico, quello sul quale giocano Ginevra e Luca, ha momenti di grande scrittura. In particolare i capitoli 8 e 10 meritano di essere segnalati, ricchi come sono di brani ottimamente calibrati: esemplare, tra gli altri, il cambio di tema coordinato con la canzone trasmessa dalla radio. Quello più magico della piscina è costellato di rapidissime descrizioni che fanno percepire l’odore del cloro: un gran senso della luce rifratta, come già nel primo capitolo quando Ginevra si irrita con la madre che cucina quasi al buio. Molto bello tutto il piccolo mondo acquatico, e lo stesso va detto dei suoi confini: gli spogliatoi, le tribune…

Branchia che cresce, che diventa adulto, che sogna di fare il coreografo di rutilanti spettacoli di nuoto sincronizzato, è un personaggio struggente, con la sua solitudine, la sua diversità, la sua umana curiosità e il suo bisogno di amore e di amicizia, con il suo stesso ambiguo oscillare tra bene e male, tra bisogno di amore e di vendetta. Anche l’altro personaggio centrale, questa volta nella dimensione “reale”, Ginevra è assai ben tratteggiato, con le sue insicurezze, le sue ostinazioni, il suo rifiuto dell’ovvio. Respinge Luca (si oppone quasi con ribrezzo al suo tentativo di bacio) senza un perché sentimentale ma con un saldo perché psicologico: per Ginevra “il corpo è un ostacolo”, è quasi anoressica − “lo stomaco è l’inferno che porto dentro”.

Alla lingua, fatta di suggestioni e di sparsi guizzi liricizzanti, si accompagna un abile montaggio alternato delle due storie che compongono la trama, con cambi continui di focalizzazione nelle singole scene e tra un paragrafo e l’altro. Da questo, oltre che dallo stile, si intuisce che chi scrive è una lettrice attenta di Virginia Woolf, cui si rende peraltro più di un omaggio (come, in filigrana, con «la stanza di Jacob»). La struttura rincorre così la simultaneità; la lingua invece le voci, le luci, i riflessi e le superfici.

Quanto al titolo ricorda certo quello del romanzo di Ammaniti, Branchie, cui forse l’autrice per qualche verso si è ispirata, ma gli sviluppi e i temi sono tutt’altri e decisamente originali.

 

UN BRANO PER APPREZZARLA:

“Branchia e Marie”

L’acqua vibrò, e il corpo di Marie cadde nella vasca, e Branchia lo vide, e il corpo iniziò ad affondare…

La camicia bianca si era gonfiata, una nuvola di lino… La sua pelle era trasparente, si vedevano le vene vicino alle orecchie, e filamenti d’anima sotto le palpebre. E una catenina d’oro, tra le efelidi del collo. E un reggiseno rosa chiaro, o forse azzurro, con margini ricamati che non stringevano più. Perché l’acqua libera, pensò Branchia, l’acqua scioglie. E nell’acqua Marie sembrava un’altra creatura, svincolata dalla vita…

Branchia nuotò piano. Come un delfino, le passò a fianco. La osservò lateralmente, con un solo occhio…

Il corpo di Marie affondava. Creava un vuoto, trascinava nel vuoto.

E come per le pietre, come per le grotte, come per le conchiglie disabitate, c’era una linea sottile tra la bellezza di Marie e la sua presenza. Quel corpo c’era, quel corpo affondava, quel corpo si slacciava dalla vita, perché era meraviglioso.

C’era una linea sottile tra il volerlo toccare e il volerlo salvare.

Sarebbe meraviglioso, pensò Branchia, spogliarla con le carezze, guardarla dormire sott’acqua, riempirmi gli occhi della sua pelle morbida, dei suoi capelli lunghi, che spostandosi disegnano segni, e poi abbracciarla, e averla con me, solo per me…

Il corpo di Marie percosse dolcemente le mattonelle azzurre.

A Branchia sarebbe bastato lasciarla, su quel fondo. Lasciarla andare, ad abitare il suo mondo, fatto d’immaginazione, di persone che possedevano sia le branchie sia i polmoni, di incantesimi fatali, snocciolati al crepuscolo o all’aurora, quando la luce sulla vetrata trasmetteva spettacoli da altrove.

Branchia nuotò accanto a Marie, nuotò sopra i suoi jeans. Li sentì, ruvidi, contro il suo sesso duro. Nuotò nella nuvola di lino, vicino ai capelli castani, che si alzavano a ciocche, e si aprivano a ventagli, in filamenti di marrone. Le mani. Le mani di Marie erano già lontane…

Branchia pensò che quelle dita non avrebbero più potuto accarezzare, né disegnare, né seguire le parole sul libro delle fiabe, né portare il vassoio con la merenda, e un sorriso sopra, e una promessa: quella unica e imperdibile, di una madre.

 

COSA NE HA DETTO PAOLA CAPRIOLO:

Paola Capriolo

Paola Capriolo

Nel variegato e interessante panorama delle opere finaliste selezionate dal comitato di lettura in questa edizione del Premio Calvino, ve ne sono due molto diverse per stile e intenzioni e tuttavia accomunate dal fatto di muoversi in una zona di confine nella quale si mescolano “realtà” e favola narrazione naturalistica e invenzione fantastica. Si tratta de L’interruttore dei sogni di Elisabetta Pierini e di Branchia della giovanissima Martina Renata Prosperi, premiati dalla giuria rispettivamente con una vittoria ex aequo e con una menzione speciale.

Branchia è un libro di grande fascino, e anche di grande complessità. Il fascino è dato in primo luogo dallo stile: una prosa poetica, ritmata da un sapiente gioco di ripetizioni; la forza delle immagini, che sorprendono e al tempo stesso colpiscono il lettore per la loro insospettata esattezza, come avviene appunto per le autentiche immagini della poesia. Credo che Martina Renata Prosperi possieda davvero quel dono che Gottfried Benn definiva “rapporto primario con la parola”, un istinto quasi tattile, rabdomantico, che fa di lei una scrittrice nata; e che possieda, soprattutto, una straordinaria capacità di guardare le cose: di coglierle nella loro realtà e insieme di sottoporle a una metamorfosi, a una trasfigurazione espressiva che ne amplifica i significati come in un’eco o in un gioco di riverberi e costituisce, molto più degli elementi antinaturalistici presenti nella trama, il vero aspetto “fantastico” della sua scrittura.

La complessità è appunto quella della trama: una costruzione ambiziosa, che intreccia diversi piani narrativi e sovverte con ardite mescolanze la scansione temporale. Il romanzo si apre con una scena apparentemente naturalistica: una donna, Marie, che si affaccenda ai fornelli della sua cucina, l’arrivo del figlio adolescente Gabriel, il dialogo tra i due nel quale si allude a un’altra figlia, Giulia, e anche a uno strano ragazzo di nome Branchia: una creatura senza polmoni, che vive immersa nell’acqua della piscina dove Marie lavora come insegnante di nuoto. Nel secondo capitolo scopriamo che Marie, i suoi figli, il misterioso Branchia, sono semplicemente i personaggi di una storia che altri due personaggi, Ginevra e Luca, appartenenti al cosiddetto mondo reale, stanno cercando di scrivere basandosi sugli appunti lasciati da un ex-compagno di liceo scomparso tragicamente.

Un metaromanzo, dunque; ma credo che questa etichetta renda solo in parte il senso profondo del libro. Parlerei piuttosto di un romanzo di formazione, che ha come protagonista la ventenne Ginevra, incerta sulla scelta dell’università e tormentata da un rapporto conflittuale con il proprio corpo (ma più essenzialmente con il tempo, con la caducità), e il cui percorso si riflette come in uno specchio ora deformante, ora rivelatore, nella storia che la ragazza stessa va elaborando di pari passo con la sua vita quotidiana.

Potremmo dire che il romanzo narra la vicenda parallela di due nascite: quella impossibile di Branchia, che non potendo respirare è destinato a rimanere per sempre nell’acqua, evidente metafora del grembo, del liquido amniotico, e quella travagliata di Ginevra come scrittrice (perché il Bildungsroman, qui come in tanti casi illustri, ha in fondo come oggetto la scoperta di una vocazione letteraria). Del suo faticoso divenire, Branchia rappresenta l’incarnazione fiabesca e pateticamente negativa; una sorta di alter ego, in un libro nel quale i personaggi sono tutti, in una certa misura, alter ego gli uni degli altri su diversi piani di realtà, o di irrealtà, a gradi diversi di quella “malattia” di fondo che li accomuna e che potremmo forse definire come incapacità di vivere.

Ma viene spontaneo sospettare che il gioco di specchi non finisca qui; che a questo gioco orizzontale di rimandi di cui sono innervate le pagine di Branchia si aggiunga un asse verticale, perpendicolare, tra la protagonista e l’autrice. Ginevra, dice a un certo punto il suo amico, è una che “non può mai essere solo Ginevra, che deve sempre trovare qualche metafora di sé, come se il suo legame con il resto fosse evidente e imprescindibile, e quasi cromatico – corporeo, si direbbe – prima ancora che intellettuale” (202). Se la prima parte di questa descrizione si attaglia forse a qualsiasi scrittore, la seconda mi sembra una consapevole definizione del modo peculiare in cui la scrittrice Martina Renata Prosperi vive il proprio rapporto con il mondo attraverso la parola.

ALESSANDRO CALABRESE e T-TRINZ

mercoledì, 29 Giugno 2016

ALESSANDRO CALABRESE

ALESSANDRO CALABRESE

ALESSANDRO CALABRESE, nato a Carpi nel 1991, sta conseguendo la laurea magistrale in Italianistica e Scienze Linguistiche a Bologna. Lavora come allenatore di rugby in una scuola media e stagionalmente nell’azienda agricola di famiglia. La scrittura da sempre è per lui una valvola di sfogo rispetto alla teoria letteraria.

Finalista al Premio Calvino XXIX con T-Trinz.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Con T-Trinz ci troviamo in un genere ampiamente praticato dalla narrativa contemporanea, quello delle bande urbane giovanili. Ciò che distingue e fa emergere tra gli altri questo romanzo è la scrittura dalla straordinaria valenza ritmica, che segmenta l’azione in brevi scatti nervosi e sembra voler incarnare quel “presente lucido e immediato” (p. 28) che per i Thanatos, i ragazzi del T-Trinz è l’unica dimensione sensata. Storia ben costruita, ben condotta, con un’apertura accattivante sulla scena di massima tensione e il rimbalzo veloce al flashback. Sembra esserci un senso del tempo e del montaggio decisamente cinematografico, in particolare in certe sequenze di rapidi stacchi che inseguono contemporaneamente le vicende di più personaggi.

L’azione si svolge fondamentalmente al T-Trinz, un edificio abbandonato che l’amministrazione locale non ha immesso, per incuria, nei suoi programmi di riqualificazione ambientale e urbana. Lasciato andare in malora nella periferia imprecisata di una cittadina dell’Emilia (luogo topico di tanti romanzi analoghi), è la roccaforte della compagnia del Biondo, l’unico liceale del gruppo, al quale deve il suo nome: “T”, per “Thanatos”, è la loro iniziale, un capriccio classicheggiante anche se ampiamente riciclato nelle culture metropolitane, e “Trinz” sta più o meno per tranquillo nel gergo dei giovani dei dintorni. Insomma T-Trinz è la vera casa dei Thanatos, lontano dal controllo delle loro famiglie spesso disfunzionali, un luogo dove possono rilassarsi a modo loro.

I Thanatos sono Mimmo, Ste, Alle, Dada, Golia, Macco, Cris e naturalmente il Biondo. Adolescenti in attesa di nulla nel tempo senza scuola fra agosto e settembre, a metà degli anni zero del duemila. Le canne al parco, i giochi a rotta di collo con lo skate o la bici, le bravate, le prove di teppismo con destrezza fra le auto parcheggiate. Attorno a loro ruotano gli altri gruppi, i punk, i metal, i dark, in una topografia delle appartenenze disegnata fra i prati e i muretti del periferico parco cittadino. Sullo sfondo la musica, che cuce ogni capitolo del racconto al verso di una canzone rock o metal, la musica che suonano e ascoltano diversi i personaggi. Delle loro vite annidate nell’indifferenza e perennemente affacciate sui guai il racconto ci consegna ritratti credibili, perché abitati da ambivalenze e paure, e talora perfino struggenti (Mimmo inghiottito dal caos, con gli affondi lancinanti sul suo inferno domestico). Il capobanda, il Biondo, che scopriremo identificarsi almeno in parte con il narratore (e ci sta benissimo quella inaspettata uscita in prima persona a p. 60, che ha appunto tutta l’impertinenza del personaggio) è il legante della compagnia e l’anima della storia: regge l’una e l’altra perché a differenza di quasi tutti gli altri ha un suo codice, semplice ma non rudimentale, e sceglie un finale che è insieme il congedo da una stagione che si chiude e la sua estrema celebrazione. Il Biondo ha costruito un mito e lo distrugge, quando percepisce che esso ha perso di senso. Le fiamme bruciano l’edificio e bruciano, insieme, almeno così si vorrebbe, il ricordo. Il Biondo è una sorta di grande Gatsby metropolitano, lucido nella costruzione di un sogno, nel quale lo chic, il glamour sono sostituiti dalla desolazione dei nostri tempi (bellissimo, in proposito, è il pezzo sulla noia a p. 28: “I Thanatos… ci sguazzano nella noia… non hanno problemi di tedio. Basta rimanere privi di progetti per il futuro… Basta essere semplici e farsi poche domande”).

Non del tutto persuasiva risulta l’ideologia dell’eroe, ovvero degli uomini “veri” e degli uomini “finti”, che il narratore riflette sul Biondo (p. 126 e altre). C’è troppa ambigua identificazione, sia pur finzionale, tra narratore e protagonista. E qui il narratore sembra cadere in un’apologia dell’eroe solitario, del giustiziere che fa giustizia a suo modo, tanto diffusa nei romanzi di genere, che rischia di porsi come un’apologia di lui stesso.

La scrittura, come si è già accennato, è rapida, pertinente, con un ricorso controllato a termini di gergo quali “giolla”, “cinno”, “porro”, “poser”.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Il Biondo era fermo immobile. Aveva sedici anni ed era fermo immobile. Avvertiva quel tremolio alle gambe, ma non aveva paura. Era concentrato a rallentare i battiti del cuore. E mentre pensava, il tempo avanzava lento.

Qualcuno gli aveva insegnato che era tutta una questione di testa, la paura. Si trattava di una scelta. Per eseguire un buon placcaggio, o per romperne uno, per avanzare verso la linea di meta senza eseguire deviazioni inutili, per non perdere terreno di gioco, era necessaria, prima ancora della tecnica, la volontà; spezzare l’impatto emotivo del contatto, eliminare il blocco affettivo che ci spinge a evitare ciò che potrebbe costituire dolore fisico; agire, operare una scelta, e farlo nel minor tempo possibile.

Dunque, se un uomo corre verso di te a gran velocità tu non devi scegliere di fermarti, non rallentare. Se deciderai di avere paura rimarrai bloccato e l’uomo ti travolgerà e sentirai dolore. Se scapperai, lui ti raggiungerà e tu avrai perso terreno e sentirai dolore. Se avanzerai verso di lui, invece, avrai scelto di non avere paura, avrai scelto bene. Spezzerai il blocco emotivo e con ogni probabilità non sentirai dolore…

 

Ora hai scelto di non avere paura e stai correndo forte perché, fanculo, se mi vieni addosso non starò qui ad aspettarti. E una volta operata la scelta, quando il tempo scorrerà più lento, allora avrai modo di massimizzare le tue prospettive future: evitare l’uomo? Scontrarti e misurarti con lui? Andare più forte e tentare di abbatterlo? Fare in modo che sia lui a provare paura e a bloccarsi?

Il Biondo stava fermo, pensava a tutto questo e, quando il cuore fu calmo, vide finalmente davanti a sé le possibilità che sono concesse a chi non ha paura, a chi ha scelto di correre. Ma innanzi a sé non aveva la linea di meta, ma la canna della pistola che Sandro, il tossico, gli puntava contro.

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

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Angelo Guglielmi

Notevole capacità di scrittura, frasi brevi e veloci seguendo i ritmi della musica rock.

Banda di sedicenni che forse come altre, ma più decisamente, si definisce non tanto per un’operatività delinquenziale quanto per affermazione esistenziale. Più che qualche atto di vandalismo, il massimo della loro trasgressività è occupare l’ex direzione delle tranvie milanesi e lì chiudersi al riparo dalla curiosità degli altri (gli “uomini finti”) a vivere la loro vita diversa. E lì si picchiano, corrono, giocano a rugby, gareggiano e sono loro stessi i protagonisti e i terminali delle loro scelte violente. Il loro capo è il Biondo, un bel ragazzo con quel tanto di divinità (e divinazione) che caratterizza gli eroi classici.

Straordinario e definitivo il capitolo della festa in Villa dove per il tradimento di un amico finalmente i Thanatos si scontrano con la banda dei Punk, si innesca una serie di inaudite violenze e la situazione precipita definitivamente.

Ma il momento preciso della deflagrazione è quando il Biondo di fronte alla mira di una pistola scopre di avere paura. A questo punto prende corpo in lui la consapevolezza che tutto il mondo è uguale, non ci sono differenze, e la diversità perseguita dalla banda di cui è capo va in frantumi. Se è così, i Thanatos non hanno ragione di esistere e la loro sede appartata deve essere distrutta. Il romanzo finisce così con lo spettacolare incendio di T-Trinz, con la sua polverizzazione, cui gli ultimi dei Thanatos e il Biondo assistono con superbia, ma anche con malinconia, da una lontana terrazza.

ALESSANDRO PIEROZZI e LA SERRATA

mercoledì, 29 Giugno 2016

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ALESSANDRO PIEROZZI

ALESSANDRO PIEROZZI (Roma, 1941), di famiglia operaia, a ventun anni entra in fabbrica. Militante della Fiom CGIL, nel 1974 viene chiamato a far parte della segreteria della Fiom provinciale di Roma, per poi passare al Regionale. Conclude il suo iter sindacale a Pomezia. Nel 2001 va in pensione. Da sempre amante dei libri e lettore accanito, si dedica alla scrittura.

Finalista al Premio Calvino XXIX con La serrata.

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Opera popolare, potremmo dire neo-neorealista, animata da un empito felicemente romanzesco che non si preoccupa di nascondersi o travestirsi da qualcos’altro, La serrata rimanda nel titolo alla chiusura di una fabbrica metalmeccanica della capitale, l’O.M.A., a cui sono legati i destini di molti personaggi del libro, ma è ambientata prevalentemente nel caseggiato di via Rossellini numero due, lotto sessantanove, nel quartiere romano di Testaccio, e ha per protagonisti i suoi abitanti nell’immediato secondo dopoguerra (la vicenda principale si svolge nel 1949, l’anno successivo alle elezioni del 18 aprile 1948 che segnarono il trionfo della DC, all’attentato a Togliatti, anno in cui era ministro dell’Interno Mario Scelba con la sua famigerata celere).

Se vogliamo trovare un ascendente, un ispiratore, lo potremmo individuare in Pratolini e nelle sue Cronache di poveri amanti, cui del resto allude piuttosto esplicitamente la sinossi dell’autore facendo l’occhiolino alle parole che introducono l’omonimo film di Carlo Lizzani. Altre allusioni all’epoca venate di ironia (allusioni che stemperano la mimesi neorealistica) percorrono il romanzo. Basti pensare alla scelta di collocare l’azione nel caseggiato di una immaginaria (allora, e al Testaccio) via Rossellini, con rimando al regista di Roma città aperta, altra canonica opera di quell’aura.

Pur non mancando di aspetti drammatici, l’atmosfera del romanzo è fondamentalmente da soap opera (ovviamente popolaresca) o, per avvalersi di un paragone congruente con quegli anni, da fotoromanzo. Così si spiegano i molti tratti che, di primo acchito, possono parere eccessivi della narrazione: donne tutte bellissime, colpi di fulmine irresistibili come una cannonata in rete (Marcellino Solara, detto Schizzo, per Rosalba), passioni e tradimenti, comunisti dallo sguardo di ghiaccio. Gli stereotipi in tale genere sono inevitabili e necessari. Ma pur in questa cornice l’autore sa creare caratteri memorabili, tutti quelli cui sono dedicate le diverse sezioni del libro (Giovanna, Vergilio, Rosalba, Anna e Primo), ed altri ancora come l’innocente marito di Rosalba, Romano Caputi detto Ercolino, o, invece, il violento senza remissione marito di Giovanna, Antonio Pellicciari. Ma il personaggio che campeggia su tutti è quello di Giovanna, che fin dall’inizio entra mirabilmente, sontuosamente, in scena: “Litigiosa. Prepotente. Aggressiva. Così era Giovanna. Sempre pronta a fare a botte. In fontana, in terrazza, in cortile”. Un carattere a tutto tondo, non privo di tragicità, un’atleta mancata, che si scatena a giocare a pallone con i ragazzini, ma che accetta con dignità e ostinazione, ruoli che non sarebbero suoi, quelli di madre, di moglie, di lavandaia: è la regina del palazzo, dotata di un suo acuminato senso della giustizia. L’ambiente poi del lotto sessantanove e di tutto il rione è descritto tanto vividamente e minuziosamente da far pensare che l’autore del romanzo abbia vissuto davvero in un autentico caseggiato popolare romano del dopoguerra, in cui il fulcro delle relazioni e dei contrasti tra donne era nei lavatoi posti nel cortile (oppure anche in terrazza, con suggestivo rimando a Una giornata particolare di Scola), come per gli uomini che lavoravano era la fabbrica e, per gli altri, il bar.

Un romanzo, insomma, assolutamente godibile, sorretto da un stile adeguato, dotato di un buon ritmo (alternando abilmente comico e melodramma), anche quando, talora, ricorre a una prosa ricercata, lievemente desueta. Ma non mancano le ombre, dovute, in linea di massima a una proiezione non ben controllata sul secondo dopoguerra di linguaggi, situazioni, costumi successivi. Soprattutto poco plausibile è il pezzo sull’occupazione della fabbrica che chiude il romanzo: tutto sembra qui rimandare a situazioni degli anni settanta, a partire dalle linee di montaggio che al tempo non esistevano, ai troppo liberi costumi sessuali di operai e operaie (eccessivamente numerose in una fabbrica metalmeccanica, pur se si è nel dopoguerra), per non parlare dell’improbabile donna ingegnere e sindacalista. Altro appunto va alla terminologia usata nel dialogo fra donne di p. 13: “frigida” e “mi bagno tutta” non sono certo espressioni d’epoca. Nulla, comunque, di inemendabile.

Detto questo, si ribadiscono la tenuta e la capacità di coinvolgimento del testo, che per la sua coralità e il suo impianto può forse avvicinarsi al ciclo dell’Amica geniale.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Incipit”

Litigiosa. Prepotente. Aggressiva. Così era Giovanna. Sempre pronta a fare a botte. In fontana, in terrazza, in cortile. Se nel lotto Sessantanove di via Rossellini numero due, a Testaccio, si accendeva una lite, si alzavano voci, si scatenava una zuffa, la gran parte delle persone diceva, è quella matta di Giovanna. Non sempre, ma spesso ci azzeccavano.

Il marito, Antonio Pellicciari, la menava. Di brutto. Lo sapevano tutti. Tre quattro volte l’aveva mandata all’ospedale. A parte qualche distinguo, come quello di Anna e Primo – è un delinquente – in via Rossellini numero due – un migliaio di abitanti, quattordici scale – sostenevano comprensivi che non c’era altro modo per tenerla al suo posto. Di mestiere Giovanna faceva la lavandaia, e aveva due figli. Due maschi, Vittorio e Valerio. Di loro non è che se ne curasse granché. A loro pensava la nonna, la sora Elvira, la madre del marito.

Giovanna in ogni stagione indossava una vestaglia poco sotto il ginocchio, e un paio di zoccoli. D’inverno sulla vestaglia portava un maglione fatto in casa, e ai piedi un paio di calzettoni da uomo. Dalla vita sottile di Giovanna, stretta da una cintola di stoffa, scendevano fianchi snelli conclusi da due glutei rotondi come meloncini. Specialmente d’estate, la vestaglietta di flanella ne rilevava senza difficoltà il gioco dei muscoli che il suo andare scattante accentuava. Stranamente avevano poco di erotico…

Giovanna si muoveva su gambe smisurate, e il collo inarcava da spalle grandi ed eleganti dal quale la testa, lievemente piegando a sinistra, guardava intorno senza guardare. Molto più alta della media, si muoveva con una tale grazia coordinata che l’altezza notevole le scivolava d’addosso, e allo sguardo rimaneva soltanto l’impressione di un’armonia nervosa e un po’ selvaggia, come quelle puledre che si vedono al cinema o al circo, e che ti facevano sembrare sempre pericolosamente pronte allo scarto. Con la differenza che Giovanna altroché se scartava, ricordano Anna e Primo. Per questo non era simpatica. Alle donne perché la sentivano estranea. Agli uomini perché sterile di ogni messaggio di disponibilità sessuale. A tutti e due perché era prepotente e sfacciata. Sboccata, con mani e lingua sempre pronte.

CESARE SINATTI e LA SPLENDENTE

mercoledì, 29 Giugno 2016

CESARE SINATTI

CESARE SINATTI, nato a Fano nel 1991, si laurea in filosofia a Bologna nel 2013 con una tesi sull’immortalità dell’anima nel Fedone. Attualmente sta terminando il corso magistrale in Scienze Filosofiche nella stessa università. Ha trascorso un anno di studi all’Università di Chicago.

Finalista al Premio Calvino XXIX e vincitore con La splendente (ex aequo con Elisabetta Pierini).

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Prova straordinaria di un giovane autore che rivela una conoscenza profonda della mitologia, dell’epica e della tragedia greca. Ciò che sorprende in questo inusuale romanzo è la capacità di far rivivere in maniera originale personaggi che sembravano per sempre fissati in una certa icona, in un profilo marmoreo, come Elena, “la Splendente” del titolo, come Achille, Ulisse, come Paride, come Patroclo, Agamennone, Menelao, come Penelope e Clitemnestra o di riprenderne altri meno noti come Palamede o Epipola (un’antesignana di Clorinda). Far rivivere e rimodellare, pur tenendo conto delle fonti anche meno note (tra cui Ditti Cretese, Darete di Frigia, Quinto Smirneo probabilmente, e tanti tanti altri). Con una scelta personale forte, l’autore sceglie episodi dall’epos omerico e extraomerico, alcuni anche poco noti ma documentati, e li cuce con libertà e rigore in una ricostruzione di affascinante bellezza. I caratteri dei personaggi – i nomi eccellenti del mito, e altri poco rimasti più che citazioni nelle biblioteche classiche – vengono ricostruiti in termini di grande freschezza, con un’originalità mai forzata e invece psicologicamente (e miticamente) coerente. I fatti, o quelli che possiamo definire tali secondo la tradizione, vengono rispettati. Cambia l’interpretazione, il punto di vista, e così vediamo un Achille emotivo e timoroso di morire, pur nel suo desiderio di gloria, dominato dalla protettrice figura di Patroclo (capovolgendo l’interpretazione shakespeariana del Troilo e Cressida), un Ulisse, sì astuto, ma amante soprattutto della pacifica vita familiare e del lavoro nei frutteti di Itaca, un amletico e umbratile Menelao, un Paride dallo sguardo di scorpione, una torva Clitemnestra – soprattutto, però, una donna svuotata, − invidiosa della sorella Elena, un’Elena remota e insieme dolce col prescelto Menelao, un algido Palamede, perfetta eminenza grigia di Agamennone (forse, quest’ultimo, il più somigliante all’immagine omerica). La Splendente è, come si è già accennato, Elena, creatura indecifrabile presente nella reggia di Sparta e poi inseguita da Menelao prima a Troia e poi in Africa (la celebre versione per cui Paride avrebbe avuto accanto a sé un mero fantasma) senza che il lettore goda di maggiori certezze, e fino a una conclusione struggente e poetica. La costruzione delle scene raggiunge anch’essa un alto livello, grazie a un approccio profondo e visionario. La scena dei due Atridi alla ricerca del tempio diruto prima della partenza per Troia è un buon esempio: l’autore riesce a rendere il lettore partecipe del silenzio dei boschi insieme spiazzante e numinoso, a immergerlo nel mistero di un qualche senso da trovare, a farlo raggelare alla profanazione di Agamennone. Così come le mura (titaniche, archetipiche) di Troia, dietro le quali gli eroi ragazzini precocemente invecchiati ravvisano l’indefinita minacciosità degli “altri”, sono realmente il confine del mondo. Tanto più che dietro il narrato c’è l’eco potente di ciò che resta accennato di sfuggita o solo alluso, le storie di un mondo assai più antico, il magma di un passato dove l’evocazione di mostri o giganti mantiene un’autenticità e una forza che riconosciamo dentro di noi.

Questa nuova declinazione di una materia classica ha il pregio di farla tornare vivente (un’operazione che può ricordare quella di Christa Wolf, con le dovute differenze ovviamente, soprattutto di focus, che nella Wolf è puntato sulla condizione della donna e sul nesso guerra/maschio) e di potere, attraverso di essa, toccare in maniera universalizzante i grandi temi della violenza e della morte cui fanno da contraltare la bellezza, l’amore soprattutto domestico e l’amicizia. La lingua è accurata, incisiva, non senza qualche contenuta scintilla lirica. Va ancora sottolineata la grande capacità compositiva dell’autore che mette in campo decine di personaggi, tutti ben individuati, dei quali non perde mai le fila, dando sostanza a un complesso, variegato e mosso manufatto. Lo ribadiamo: non siamo di fronte a una gratuita opera erudita − e lo diciamo senza alcuno sprezzo per l’erudizione −, ma a un’opera che sa parlare di oggi in maniera obliqua e, quindi, tanto più efficace. La narrazione sa insomma valorizzare la dimensione paradigmatica del mito, ovvero della “parola importante”, in riferimento alle nostre profondità interiori: dove l’epos di morte e di vita, di orrore e di bellezza mantiene, al netto da ogni banalità retorica, una forza viva che ci parla dentro. A partire dal dare voce alle nostre delusioni e solitudini, alle paure e sofferenze di cui gli eroi si fanno portavoce.

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Elena e Clitemnestra”

Era seduta sulla radice nodosa di un ulivo e strappava i petali di un fiore. Lanciava alla sorella occhiate nervose, chinata tra i fiori e le erbe selvatiche. Avevano visi così simili. I lineamenti scolpiti con cura, come dalla mano di un artigiano meticoloso e preciso alla ricerca di una forma perfetta, il naso ricordava quello delle statue di Artemide ed Atena. La bocca giovane e piena formava in entrambe una curva impercettibile verso il basso, rivelando una concentrazione segreta attorno a qualche pensiero ricorrente.

Lei sapeva bene quale fosse il proprio. Era la grazia, l’incanto senza pecche della sua gemella. Aveva solo otto anni, come lei, ma possedeva qualcosa in più, anche se avevano lo stesso viso, lo stesso corpo. Lo stesso uovo le aveva messe al mondo, ma a Elena aveva fatto il dono della luce. Aveva il sole tra i riccioli biondi come il croco, un chiarore stellare negli occhi azzurri. Le minuscole pupille nere erano incapaci di dilatarsi, come se tutta la luce fosse già nelle sue iridi celesti, irraggiate da lampi di smeraldo.

Tutta la chiarezza era andata a sua sorella. Clitemnestra aveva capelli neri e radi, non si avvolgevano in riccioli perfetti ma crescevano crespi, come i fili male intrecciati di qualche lana grezza. Rifiutava di farli crescere lunghi come quelli splendenti di Elena, per vergogna. I suoi occhi castani, così comuni, non avevano alcuna luce e la sua pelle aveva imperfezioni, piccoli nei e macchie appena visibili, dove quella bianca, marmorea di Elena non ne aveva alcuna…

La detestava… La gente di Sparta le guardava con occhi diversi. Per Elena c’era solo meraviglia e rapimento. Si era diffusa dalle bocche dei servi la storia del cigno e di sua madre Leda, ed Elena era stata da tutti riconosciuta come figlia del padre degli dei. Clitemnestra l’aveva vista camminare a braccia aperte nella pioggia, nei boati dei temporali estivi, accogliendo le gocce sul suo viso immobile, e aveva creduto che Elena parlasse con suo padre.

Per lei gli dei erano muti. Non aveva mai udito una voce, nei templi, in risposta alle preghiere e ai sacrifici e se ne vergognava. Le sembrava di non essere parte di quel mondo mutevole, dove gli dei camminavano con gli uomini, il mondo di storie e miti da cui proveniva sua sorella.

COSA NE HA DETTO CHRISTIAN RAIMO:

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Christian Raimo

Il libro di Cesare Sinatti, La splendente, è qualcosa di veramente inedito nel panorama editoriale italiano: una rilettura dell’epica classica in un romanzo solenne ma al tempo stesso capace di secolarizzare il mito, di rendere umani i semidei, e di escludere l’elemento divino, il Fato, di “tagliare il cielo”. È una lettura che fa impressione per la documentazione, l’acribia della ricostruzione delle storie omeriche e del resto dell’immaginario antico, che non rende La splendente un libro derivativo o erudito, né un’opera semplificante: il romanzo si snoda piuttosto come un romanzo di guerra che riflette come un paradigma antelitteram tutte le storie di conflitti che sono state narrate dalla guerra di Troia in avanti.

La maturità poetica e stilistica di Sinatti fa sì che non ci sia un compiacimento né postmoderno né bellettristico, e che anche la lezione di un Calasso o di un Baricco siano state assimilate insieme a quella delle serie tv che si sono cimentate con l’epica. Con un’ispirazione che verrebbe da dire nicciana, dove dalla contrapposizione tra apollineo e dionisiaco scaturisce una trasvalutazione dei valori: la possibilità di narrare una generazione di semi-dei oltre-uomini che sono tali perché “umani troppo umani”.

ADIL BELLAFQIH e BARATRO

mercoledì, 29 Giugno 2016

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ADIL BELLAFQIH

ADIL BELLAFQIH è nato nel 1991 a Sassuolo dove vive. Si è laureato su Stephen King, con una tesi disciplinarmente trasversale. Sta frequentando il corso di laurea magistrale in Filosofia a Parma. Ha pubblicato diversi racconti in occasione di vari concorsi letterari e ha tutta l’intenzione di vivere della sua scrittura.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Baratro.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

La vicenda è ambientata in un’Italia ormai desertificata dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali in un anno imprecisato del XXI secolo. Gli Stati Uniti d’Europa hanno da poco sostituito le scuole pubbliche con “centri di impiego preliminare” e chiunque non sappia o non voglia adeguarsi ai “principi del Mercato, della Crescita e della Finanza” o sia sospettato di ordire piani sovversivi contro di essi viene sottoposto a una procedura riabilitante nel CRIL (Centro di rieducazione alla democrazia e al libero mercato), una sorta di cattedrale nel nulla. Si tratta di un’idea di notevole capacità e qualità visionarie. Naturalmente la lingua che si parla nel CRIL è una neolingua orwelliana: qui democrazia significa libertà, e libertà significa unicamente libertà di perseguire con ogni mezzo il profitto (l’elemosina o l’aiuto disinteressato in questo quadro sono, non c’è bisogno di dirlo, disvalori). Gli ospiti del centro – ingegnosamente immaginato dall’autore – sono sottoposti ad esercizi in vista del suo fine rieducativo: dispongono di denaro (grazie a contratti a tempo determinato) con cui giocare al gioco del profitto (ma ogni mezzo è lecito purché non si infranga il dogma del mercato). In questo gioco c’è chi vince e c’è chi perde, c’è chi sale e c’è chi scende (anche fisicamente, finendo nei sotterranei dell’edificio). Il cuore del Centro sono i punti commerciali dove ognuno può acquistare ciò che desidera o è indotto a desiderare. Massima importanza per il controllo dei comportamenti degli educandi sono i mezzi informatici, che garantiscono la totale panotticità del sistema. In questo universo parallelo finisce, quasi per caso, il famoso hacker Zombi 243. È lui il protagonista attorno al quale si annodano tutte le complesse vicende della trama e attorno a cui ruotano tutti i personaggi, singolarmente individuati. Egli mira semplicemente a sopravvivere, lavorerà per la struttura di comando nel Reparto Mobilitazione Informatica, accetterà di fare l’infiltrato presso il gruppo di sovversivi (i Trumlin), ma poi affascinato dalla personalità del loro capo, Leo, passerà dalla loro parte, si innamorerà di Wolf, dimenticando la moglie… Le cose, naturalmente, non sono così semplici come appaiono e la congiura dei Trumlin è destinata inevitabilmente a fallire (si rivelerà come nient’altro che uno stress test): Leo riuscirà, comunque, per pochi minuti a incitare le masse degli educandi alla rivolta, alla giustizia e alla vera libertà. Peccato che per libertà gli educandi intendano quella di appropriarsi delle bramate merci. Conclusione amara. Tutto finirà in un massacro degli illusi rivoltosi, e qui finisce la prima parte del romanzo (“Età dei giganti” ed “Età degli eroi”). Nella seconda parte (Età degli uomini” e “Diluvio – Tempo di libertà”), Max (ovvero Zombi 243), fortunosamente salvatosi, da classico antieroe/giustiziere, compirà la sua vendetta solitaria fino alla distruzione del CRIL e al rocambolesco salvataggio dell’amata Wolf.

Baratro può essere definito un testo distopico o lo si può ascrivere direttamente alla fantascienza: come spesso nei testi di genere sussistono elementi che evocano l’uno e l’altro aspetto senza imporre etichette esclusive. Tanto più che le fonti dirette o indirette sembrano tante e varie (da Claudio Vergnani a Italo Bonera, dal Pasolini nero al Titus di Julie Taymor). Fonti comunque utilizzate in termini mai ovvi o imitativi nella costruzione complessa di un grande affresco; e per quanto fantasie distopiche non manchino nell’odierna narrativa di genere italiana, il giovane autore mostra una notevolissima autonomia e originalità. In sostanza si tratta di una prova persuasiva.

Le psicologie dei personaggi sono definite con cura, e alcune figure appaiono molto belle – quelle di Wolf e di Leo, la stessa Beatrice King; il protagonista Max ha connotazioni meno scontate di quanto si sarebbe potuto attendere dall’immaginario sull’hacker. I dialoghi sono ben condotti, cosa non facile. Certo si tratta di un quadro nero, disincantato, ma l’autore riesce a non esaurire le soluzioni – per quanto estreme – nell’effetto facile, e mostra un ottimo controllo delle suggestioni di volta in volta evocate (l’atroce, il grottesco…). Dove poi graffia con brillante intelligenza è nel grande affresco politico-economico, mai scontato o banale, in chiave di intrigante macchina per pensare.

Lo stile piano vede il ricorso a buone soluzioni narrative (la descrizione onirica dell’accecamento del protagonista, l’aggancio tra conclusioni e inizi dei vari paragrafi), e la mole di oltre cinquecento pagine è gestita con abilità: il testo corre fluido e incalzante. Sicuramente più compatta appare la prima parte, fino alla tentata rivolta, mentre nella seconda alcuni episodi avrebbero potuto essere alleggeriti (la tavolata carnevalesca) o tagliati (la scena burattinesca degli intellettuali, per esempio): la tendenza ad allargarsi è probabilmente normale data l’età dell’autore e le consuetudini della narrativa di genere, anche se può naturalmente auspicarsi un maggiore controllo nello scrivere “per sottrazione”.

Comunque tutto traghetta verso un finale consono, e in fondo atteso. Dove gli aspetti di improbabilità – le eliminazioni finali, incrociate e compulsive dei personaggi apparsi in scena, la soluzione della macchina del tempo – non risultano spiacevolmente incongrui. E in particolare la conclusione conciliante della macchina del tempo che permetterebbe alla giovane incinta di salvarsi dall’esplosione potrebbe appartenere in realtà al mondo tutto interiore di fantasie del protagonista morente.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Il sogno di Max, ovvero l’hacker Zombi 243”

Elisa è appoggiata allo stipite della porta e lo fissa…

Max è seduto alla sua scrivania, arroccato dietro i quattro monitor allineati sul ripiano pieno di blocchi di appunti, cifrari e dispositivi di monitoraggio. Lì dietro c’è tutto quel che gli serve per manipolare la cascata di zero e uno che compongono il magico mondo dell’informatica. Una logica dicotomica tanto semplice quanto pericolosa: destra o sinistra, giusto o sbagliato, niente vie di mezzo.

«Devo lavorare», dice a Elisa continuando a digitare … sulla tastiera. Ci sono stringhe di codice davanti a lui, numeri e simboli che nella sua mente formano immagini, connessioni, ma tutto si riduce sempre a zero e a uno.

«Te lo sei scordato?» chiede Elisa incrociando le braccia sotto il seno.

Max si volta per guardarla e si accorge di non essere nel suo corpo. Almeno, lui non è lo stesso Max seduto alla scrivania. Vede coi suoi occhi, ma allo stesso tempo vede fuori di sé. Sta sognando…

«Cosa mi sono scordato?» chiede il Max seduto alla scrivania. Alla luce dei monitor il suo volto appare scavato …, i suoi occhi infossati…

«Che non tutto è nero o bianco, che non ci sono solo buoni e cattivi, che non c’è solo giusto o sbagliato. Che non ci sei solo tu. È logica fuzzy».

«Non ho tempo per questo. Io ho bisogno di farlo, lo capisci?»

… lui la logica fuzzy la conosceva eccome… C’erano teorie che …proponevano un tipo di approccio sfumato: tra il caldo e il freddo c’era il tiepido, … tra lo zero e l’uno c’erano un’infinità di possibilità intermedie. La realtà era sfumata, precaria, ma se lo era la realtà “vera”, perché doveva esserlo anche quella virtuale?

I pensieri gli si solidificano davanti. Può vederli scorrere tra lui ed Elisa, lo attraversano senza lasciare residui. Lì dentro, nel profondo dell’incubo, tutto è pensiero.

«Io ho bisogno che tutto sia zero e che tutto sia uno», dice il Max asserragliato dietro i monitor. Si è fatto gobbo e scuro e rachitico. «Ho bisogno di una realtà che funzioni. Devo farla funzionare…»

«È il mondo che non funziona!» urla… «io lo faccio funzionare!»

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

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Angelo Guglielmi

Baratro andrebbe rivisto nella scrittura, ma possiede un’eccezionale forza visionaria che gli consente di parlare della situazione politica ed economica in cui vive il mondo occidentale senza ricorrere ai facili toni accusatori e di denuncia.

L’idea di raccogliere i renitenti allo stile di vita occidentale in un centro dove si insegna loro che libertà=mercato e democrazia=capitale mi sembra geniale. E geniale mi pare anche l’idea di collocare i renitenti sequestrati in un edificio che sorge in una zona desertica (in modo da rendere difficile la fuga), ma lussuoso come un albergo a cinque stelle. Qui gli ospiti, preliminarmente muniti di una certa quantità di denaro da spendere in un fornitissimo supermercato, vengono stimolati a trafficare e a comprare, a fare scambi e a rubare, possono anche ottenere prestiti (ma a tassi usurari). Possono vincere o perdere. I più perdono e di giorno in giorno i loro alloggi diventano sempre più grigi, sporchi, cadenti. Un piccolo gruppo costituito dai più consapevoli decide di ribellarsi con l’aiuto dell’abilissimo hacker Zombi 243. Ma la direzione non ha difficoltà a vincere e sterminare i sovversivi. L’hacker però sopravvive, sia pur provato e quasi cieco. A questo punto non gli rimane che la vendetta e con la sua sapienza informatica riuscirà alla fine a distruggere il centro di rieducazione.

Il romanzo appartiene chiaramente al genere fantascientifico di tipo orwelliano con evidenti richiami al nostro presente. Il testo è sovrabbondante, va asciugato e rivisto, ma rivela un autore capace di tenere in equilibrio una struttura complessa con personaggi fascinosi e psicologicamente credibili. È giovanissimo e certamente meritevole di riconoscimento.

TESTI SEGNALATI DAL COMITATO DI LETTURA − XXIX EDIZIONE

lunedì, 27 Giugno 2016

Maurizio BARUFFALDI (1962), STATION WAGON
per la capacità di sviluppare nello spazio concentrazionario di un abitacolo d’auto un breve ma variegato e intenso incontro tra un uomo e una donna

Arturo BELLUARDO (1962), IL BALLO DEL DEBUTTANTE
per il fresco, divertito e parodistico racconto delle rocambolesche avventure tra Sicilia e quarta sponda di un giovane che si scopre gay durante l’era fascista

Lidia BIANCO (1943), CRONACA BIANCA – Racconti
per la bella e coerente ricostruzione, sul filo della memoria, della scomparsa civiltà contadina della Provincia Granda

Gianluca CASAGRANDE (1973), DA QUEST’ANGOLO DELLA FINESTRA – Racconti
per la visione grottesca e liquamosa di Roma resa con una lingua sporca, densa di un suggestivo lessico corporale

Piergianni CURTI (1943), VIVI E MORTI – Racconti
per la prosa distesa e insieme immaginifica con cui illustra, trascendendo il dato personale, il classico conflitto tra generazioni facendo perno sullo snodo cruciale, per l’Italia, degli anni Cinquanta

Virgilio CASTELLANA (1976), LA FORMAZIONE DI UN SUICIDA – Racconti
per la ricca declinazione, grazie a una copiosa serie di racconti idealmente connessi, del tema della solitudine esistenziale

Lorenzo DELLA FONTE (1960), L’INVASIONE DEGLI SPIRITI
per l’originale rivisitazione in chiave musicale, dagli echi buzzatiani, dell’epica della Grande Guerra

Lucio DI CICCO (1952), IL PRIMO FREDDO
per la polifonica narrazione, non senza scarti lirici e sulla scia di una consolidata tradizione, della vita apparentemente immobile di un paesino abruzzese nel secondo dopoguerra

Annamaria DI MICHELE (1940), IL GIRO DEL VENTO
per la ricchezza di analisi e l’intensità di stile con cui viene dipanata una storia di famiglia attraverso i complessi rapporti tra le varie generazioni di donne

Simona DIMITRI (1981), SQUARCI
per la capacità di tracciare un percorso femminile tra infanzia e età adulta, nel quadro di una famiglia ordinariamente disfunzionale, a partire dai gesti e dai fatti delle quotidianità

Fabio DRAGOTTA (1987), IL BACIO DEL GOLEM
per l’intensità e l’autenticità con cui viene schizzata una drammatica vicenda di abuso domestico che rende il protagonista incapace di amare

Sergio FOSCARINI (1974), PADRE MOSTRO
per la forza con cui affronta il difficile e drammatico percorso verso l’equilibrio psichico e affettivo di un adolescente cui è mancata la figura paterna

Michela FREGONA (1972), QUELLO CHE VERRÀ
per lo sguardo ironico e dolente e lo stile ricco e fluido con cui l’autrice ci conduce allo scoperta dell’odierno mondo della scuola

Francesco FURLAN (1982), VOGLIO CHE MIO PADRE MUOIA
per la flessibilità stilistica e l’originale architettura a due voci – due fratelli polarmente opposti − di un odierno romanzo famigliare

Ciro GAZZOLA (1990), CARTOGRAFIA DELLA SOLITUDINE
per l’aggiornato quadro sociale e valoriale del Nordest che emerge attraverso le storie intrecciate di sei giovani

Luca IORI (1983), 95 MICRORACCONTI – Racconti
per la lingua incisiva e i guizzi surreali con cui spesso questi pezzi in libertà sorprendono il lettore

Claudio LAGOMARSINI (1984), L’INCAUTO ACQUISTO
per la notevole qualità di scrittura con cui affronta una vicenda dai tocchi cospirativi che affonda le sue radici in uno dei tanti misteri italiani, il rapimento e la morte di Aldo Moro

Edoardo MONTENEGRO (1976), DELIRIO POSTINDUSTRIALE
per il lirico rap che dà voce in cento frammenti alla metastasi degenerativa di una metropoli dei nostri tempi

Roberto PERETTO (1946), SILDENEPRO IL FANTASISTA DIALETTICO
per la prosa fiammeggiante di invenzioni e per il lessico sterminato e prezioso della sua accorata invettiva civile ed esistenziale

Stefano PERRICONE (1958), L’AMORE DEL TENENTE BRAUN
per la delicatezza di tocco e l’eleganza espressiva con cui sono intessute due vicende d’amore ambientate in epoche diverse, ma destinate entrambe allo scacco

Marco RINALDI (1948), IO NON VOGLIO BENE A NESSUNO
per la coinvolgente narrazione di una mala educación all’italiana che si svolge nel mito di un machismo d’ordinanza

Carlo RUSSO (1956), COME UN GRANELLO DI SENAPE
per la qualità immaginosa di una storia inattuale ambientata in una Sicilia antropologicamente e psicologicamente riconoscibile

Marinella SAVINO (1965), AMORE IN NERO
per la potenza con cui coinvolge il lettore nella passione incestuosa tra un fratello e una sorella, al di fuori di ogni moralistica riserva

Nicola ZUCCHI (1976), FLAMENCA
per l’originalità della trama e l’atmosfera ‘post’ di un gotico urbano di gusto moderno

 

Mariapia Veladiano e Simone Giorgi al Salone del libro – Maggio 2016

giovedì, 9 Giugno 2016

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Mariapia Veladiano al Salone del Libro – Premio Calvino

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Mariapia Veladiano al Salone del Libro – Premio Calvino

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Mariapia Veladiano e Simone Giorgi al Salone del Libro – Premio Calvino

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Mariapia Veladiano e Simone Giorgi al Salone del Libro – Premio Calvino

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Mariapia Veladiano e Simone Giorgi al Salone del Libro – Premio Calvino

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Simone Giorgi al Salone del Libro – Premio Calvino


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