È stato impegnativo rileggere tutti i più di ottocento giudizi elaborati dai gruppi di lettura (il loro invio agli autori è ormai a buon punto), ma necessario per poter definire con la massima equità possibile quali testi fossero particolarmente e comparativamente meritevoli di segnalazione. I concorrenti ci scuseranno per l’attesa a cui li abbiamo sottoposti, ma sarebbe stato difficile fare diversamente. Certo per chi volesse ripresentare il suo libro con gli interventi consigliati alla nuova XXXVIII edizione il tempo a disposizione non è più molto. Ma vorremmo dirgli/dirle di non avere fretta, di permettere all’opera di sedimentare nella sua mente e di riprenderla in mano solo dopo aver lasciato che le indicazioni ricevute e il tempo abbiano agito dentro di lui/lei. Il lavoro sulla lingua e sulla costruzione di un testo narrativo richiede tempo, pazienza, esitazione. È necessario provare e riprovare. Non buttarsi a capofitto.
Ma veniamo all’aspetto più stimolante di questa lettura d’insieme. Si è dispiegata davanti a noi una straordinaria panoramica dell’attuale immaginazione letteraria, focalizzata soprattutto sulla fascia dei trenta-quarantenni, quelli che più partecipano al nostro Premio (ma non dimentichiamo il sorprendente ultranovantenne Lino Ciccarelli, ormai mancato, e il suo romanzo PQM, un autentico testamento civile, e neppure la quindicenne, all’epoca dell’iscrizione, Elisa Mei – incoraggiata da noi, ma non selezionata – che si è voluta cimentare col drammatico tema della Shoah). Quali i desideri, le mancanze, le emozioni che affiorano? Quali i temi che hanno più sollecitato? Sicuramente per le autrici (e ci si perdoni tale distinzione) si rivela sempre più centrale la questione del corpo e dello statuto sociale della donna: un corpo spesso violentato fisicamente e psichicamente (dentro la famiglia e fuori) o umiliato (Riva) perché non all’altezza dei modelli dominanti e uno statuto sociale, sia pur sottilmente, di subordinazione all’uomo e alla sua legge (Tosone). Si percepisce nelle autrici un senso rizomatico di ribellione contro questo stato di cose, ribellione che trova paradossale voce nella protagonista di Assassine (Santoro). D’altro canto il corpo femminile più volte appare anche aggredito con virulenza dalla malattia (lo struggente Bianchi e l’elegante Ferrario), mentre quando questa appare nell’uomo assume forma psichica (Giannarini). E aggiungiamo ancora che la precarietà, ormai un dato di fatto accettato, porta talora la donna a concepire il desiderio di maternità e di famiglia quando è ormai troppo tardi (Cappelletti, tra le righe). Tutto ciò tradisce con evidenza un diffuso disagio esistenziale delle autrici di fronte alla condizione femminile qual è. Non che gli autori non siano sensibili alla questione, ma spesso e volentieri dai loro testi traluce un cinismo politicamente scorretto e in un paio di casi del nostro campione di selezionati (Nicola e Sicignano), tra l’altro fra i più letterariamente validi, si coglie un nebuloso background femminicida. Le istanze positive, il miraggio di rapporti diversi, trovano – nel côté maschile − la via traversa del racconto fantastico (Donati e Giacalone) o surreale, come accade in Paganine nel suo Martin adora le vacche. Restando in questo côté si registra un ormai raro interesse politico (nel disincantato Natali o in Cecchini e nel suo suo impotente e sovversivo protagonista) o sociale (per l’epoca Covid, in Toffanetti), e, ancora, una propensione per le architetture metaletterarie (Calò e Nicassio, ai quali possiamo aggregare Marina Spada che fa dell’intertestualità tra cinema e narrativa il filo conduttore della sua opera). Il tifo calcistico anche appare in prospettiva maschile, più rabbioso in Sicignano, più astratto in Fabbri, e così pure la trascinante febbre musicale punk (Valentini). Il romance, le storie sentimentali che hanno notoriamente legioni di lettrici, e sotto sotto di lettori, paiono, invece, abitare poco le menti, i cuori, l’immaginazione dei nostri concorrenti: un’inibizione, un’impossibilità? Chi lo sa. Ma Andreoli e Ragonesi hanno superato l’impasse con storie che evadono dalla coppia tradizionale. Qualcosa di più emerge dalla costellazione famigliare, indagata e colta nelle sue relazioni affettive o disaffettive in atto (non ci riferiamo alle storie o alle saghe famigliari, perché di queste continuiamo a riceverne in gran numero soprattutto da parte di autrici del Sud, che intendono conservare la memoria di ciò che è stato prima che tutto scompaia): Franceschin in questo è certamente maestra, come peraltro Audisio con il suo protagonista all’inutile e vana ricerca di un padre biologico. Soddu infila poi la sua lama tagliente nel microcosmo di un matrimonio giunto all’atto finale. Un inedito rapporto affettivo che sembra guardare in avanti con la sua seminale rivalutazione della vecchiaia femminile è quello che ci offre Martella nel suo Dormire. Più generali sono le considerazioni sullo sguardo temporale che sempre più, di fronte a un futuro sentito come minaccioso, sembra volgersi all’indietro: a un più o meno lontano passato (il rutilante Di Meglio, l’avventuroso Beshirja, il delizioso Dardo), ma anche a un passato da poco trascorso per indagare un’archeologia che rischia di ripresentarsi (Pessina e Stefanutto riaprono per noi le porte dei manicomi di Volterra e di San Servolo prima della Legge Basaglia, Collini ci ricorda il trattamento riservato negli anni cinquanta a Turing, reo confesso di omosessualità). Se lo sguardo si orienta al passato, per l’oltre pare sempre più entrare in scena una domanda di spiritualità (in La Forgia coltamente new age) come pure tornare con forza una riflessione sul male (Ceccaranelli). Non ci resta che dire di Peretto o, meglio di Sildenepro, proiettato in una dimensione dove esistenza e letteratura coincidono: una proposta estrema, la sua.
Auguriamo a tutti i libri citati di trovare la loro strada nel mondo sperando di avere in qualche misura acceso la curiosità intorno ad essi, e vogliamo davvero ringraziare i loro autori per averceli fatti conoscere.
Opere segnalate
Marco ANDREOLI (1974, RM), Milonga
“per aver saputo affrontare con freschezza, autenticità e immediatezza linguistica il classico rapporto amoroso insegnante-allieva tra entusiasmo e naufragio, dal punto di vista di lui”
Antonella AUDISIO (1959, CN), Di carta velina
“per la sensibile analitica di una mancanza – arcaica − sentita come essenziale, quella del nome del padre, da parte di un figlio felicemente adottato e realizzato nel lavoro e nel matrimonio”
Stella Yllka BESHIRJA (1972, Albania), Le navi rosse
“per la scorrevolezza narrativa e la nitidezza linguistica di un ben congegnato romanzo storico con la voce narrante di Manfredi di Svevia immerso nel turbinoso conflitto tra Chiesa e Impero”
Giacomo BIANCHI (1993, FI), Crepe
“per la struggente e sofferta autoanalisi di un figlio ossessivamente coinvolto dalla condizione materna di malattia, cui fa da contrappunto la semplice espressività dialettale della madre”
Salvatore CALÒ (1961, LE), Capri (En Bretagne)
“per la sofisticata costruzione di un noir che fa l’occhiolino insieme a Simenon e alla metaletteratura con una penna intelligente, catturante e, last but not least, divertente”
Greta CAPPELLETTI (1986, PC), Dovevo dire Mick Jagger
“per il sapore di vissuto, che ne emana, della precarietà esistenziale dei trentenni odierni, che dal lavoro abbraccia amori, amicizie, abitazioni, sullo campitura di una Milano febbrile”
Mauro CECCARANELLI (1966, RM), Il fromboliere
“per la riflessione condotta con maestria narrativa e linguistica − seguendo la parabola dello straziato protagonista, un uomo del sottosuolo − sulla pulsione al male radicata nell’uomo”
Lino CECCARELLI (1927, SA), PQM
“per l’esemplare scavo operato nel sistema di giustizia italiano con ammirevole complessità e ricchezza di scrittura e narrazione, rifuggendo da idee ricevute e posizioni partigiane”
Mattia CECCHINI (1992, PG), Nelle mani degli altri
“per la messinscena di una reazione violenta e sbilenca al senso di impotenza di chi vede delocalizzarsi la fabbrica in cui lavora, ovvero disintegrarsi la sua vita”
Ilaria COLLINI (1989, TN), La cura
“per l’impeccabile tenuta stilistica e la finezza interpretativa con cui, nelle lettere a un amico, viene resa la voce di Alan Turing accusato di sodomia nella conformista Inghilterra postbellica”
Fabrizio DARDO (1969, TO), Bartolomeo Leseni
“per la deliziosa ricostruzione dell’atmosfera torinese all’epoca della crisi Calabiana e della guerra di Crimea, attraverso la vicenda intrigante di un fittizio braccio destro del conte di Cavour”
Franco DI MEGLIO (1949, NA), Pazzo è chi contrasta co le stelle
“per la sapiente costruzione – grazie a un ricco italiano e a un vivace dialetto − di un romanzo storico seicentesco, tra Napoli e il Paraguay, protagonista un gesuita libertario e innamorato”
Lorenzo DONATI (1988, AN), Christopher Soltanto
“per l’immaginifica storia di fratello e sorella e un misterioso orso da salvare, voce narrante il bambino e il suo geniale Palazzo dei pensieri: un mondo visto dall’infanzia, non immune dal male”
Andrea FABBRI (1987, CN), Paradiso
“per il depurato, emblematico e preciso disegno della costellazione − giocatori, giornalisti, cameramen, tifosi − al cui centro ci sono una fittizia partita di calcio e un attaccante idolo”
Francesca FERRARIO (1983, CO), Nature incoerenti
“per l’efficace mescolanza di reportage di viaggio e reportage esistenziale, tra paesaggi inglesi non massificati e una patologia rara, amalgama raggiunto con rara eleganza stilistica”
Giuseppe GIACALONE (1975, MI), Le avventure di Delio e Giumatto
“per la creazione di un’ironica e divertente favola postmoderna dal ritmo incalzante in cui un orfano si fabbrica un padre per potersi muovere libero nel mondo”
Davide GIANNARINI (1998, PI), Epidemia nel Vivaio o nell’ombra di un parassita
“per il suggestivo rispecchiamento tra la malattia che si diffonde nel vivaio e il senso di insignificanza che sempre più si impossessa del protagonista fino al drammatico gesto finale”
Jacopo LA FORGIA (1990, RM), Prepararsi alla notte
“per la commistione tra reale e visione in un percorso spirituale che indaga con limpidezza di scrittura sulla soglia tra la vita e la morte nello sfondo di un esotico e mistico atlante orientale”
Renato NICASSIO (1987, BA), Storie che non lo erano
“per l’originale osmosi tra realtà e narrazione che si sviluppa attraverso cinque racconti nati da una notizia che metamorfizza in storia mettendo in questione l’autorialità”
Giorgio NICOLA (1978, BG), La bottega delle felicità
“per la straordinaria e avvolgente affabulazione, onirica e allucinata, di un equivoco personaggio che ci trascina nei suoi meandri mentali dissimulando, forse, un femminicidio”
Giuseppe PAGANIN (1958, MI), Martin adora le vacche
“per l’aggraziata parabola tra reale e surreale sullo scompiglio originato nel mondo chiuso di una sonnolenta provincia francese dall’apparizione del bizzarro Martin, misterioso animalier”
Luisa PESSINA (2000, PI), Lo storto
“per aver affrescato con empatia, in un abile intreccio di storie tra realtà e invenzione, il mondo del più grande manicomio d’Italia, quello di Volterra, negli scorsi anni Cinquanta”
Giovanni RAGONESI (1975, CT), Abbandonare agosto
“per l’eccellenza della prosa e la minuta analisi della ferita emotiva di un quarantenne lasciato dal compagno, con discesa agli inferi e ripresa, sullo sfondo di un notturno weekend londinese”
Valentina RIVA (1980, LT), All’ombra del vento
“per l’efficacia di un testo che pur nella sua brevità sa farsi interprete della vicenda di umiliata e offesa della protagonista nata col labbro leporino nel misero e superstizioso Sud postbellico”
Federica SANTORO (1971, PR), Assassine
“per la sottile e straniante drammaturgia dell’incontro in carcere tra due donne colpevoli di assassinio: non si capiscono, divergono, per questioni di classe e del concetto di sé”
Stefano SICIGNANO (1970, RM), Blu Bar Osman
“per la stupefacente voce monologante che maltratta lessico e sintassi nella cornice di una tifoseria laziale borderline: un romanzo potente e multifacce, ambiguo sul ruolo della donna”
Daniela STEFANUTTO (1959, VE), Storia di un manoscritto perduto
“per la stratificata e coinvolta indagine su un ospite del manicomio di San Servolo pre-Basaglia: una perfetta e densa docufiction, da cui emerge un affascinante personaggio inconciliato”
Christian SODDU (1976, SS), L’orribile verità
“per l’acribica e lucida descrizione – con l’ausilio di una scrittura duttile e ricca di sfumature − delle dinamiche interne di una coppia prigioniera di un matrimonio diventato un vicolo cieco”
Marina SPADA (1957, MI), Il codice del volo
“per il montaggio particolare di un testo che alterna ricordi, esperienze personali e di lavoro nel mondo del cinema e racconti di invenzione che ad esse attingono in una prospettiva dal basso”
Rudy TOFFANETTI (1994, MI), Storia del fuoco
“per il regesto, dalla scrittura insieme asciutta e appassionata, dell’esperienza di tre anni a contatto col Covid di un volontario della Croce Rossa nell’intreccio con le sue vicende personali”
Anna TOSONE (1990, CH), Matricole
“per il carattere inedito di una storia che tocca temi attuali legati allo status femminile ambientata nell’Accadenia Navale di Livorno al momento del primo ingresso delle donne nel 2000”
Dario VALENTINI (1993, PD), Distruggere Venezia
“per la capacità di coinvolgere il lettore nel vortice esistenziale e musicale di una band hardcore punk, sfruttando, ma superandolo originalmente, il cliché di sesso, droga e vitalismo”
Si ribadiscono inoltre le segnalazioni per due testi già presentati, rispettivamente, alla XXXVI e XXXVII edizione:
Lamberto CHIODI (1972), Samogon
“per l’onirica e ironica avventura, tra alcol e inganni, di un folle innamorato della letteratura russa in una primordiale Siberia di neve e di belve”
Anna GASCO (1954, TO), La storia taciuta
“per l’inusuale focus sui tempi della Resistenza attraverso la storia, ispirata alla realtà, di una donna libera tra partigiani e nazisti, uccisa ingiustamente come spia nell’ora della liberazione”
Si conferma poi il nostro caldo e convinto apprezzamento per gli autori finalisti non ancora arrivati alla pubblicazione o in procinto di arrivarvi, segnalando:
Loretta FRANCESCHIN (1951, PD), L’esperienza del tre
“per l’intensa e sfaccettata figura femminile di Adelia, un personaggio woolfiano immerso nella provincia veneta anni 80, e per le impalpabili dinamiche famigliari di cui è al centro: un sequel del luminoso Di acque e d’ombra con la sua cornice polesana”
Licia MARTELLA (1958, Sudan), Dormire
“per la garbatezza e la levità di una storia che amplia i confini dell’affettività coinvolgendo in un insolito e delicato rapporto un giovane e una donna matura”
Giulio NATALI (1975, MC), Sotto il diluvio senza Noè
“per la dissacrante rappresentazione del gioco politico visto come mero esercizio di potere, eroe un inossidabile e carismatico dinosauro democristiano dalla tentacolare rete di interessi”
Giulio NATALI (1975, MC), Fumata bianca
“per il talento di raccontare − in virtù di una scrittura ironica e tagliente − il mondo del lavoro dall’interno e con cognizione di causa, agente narrativo un sindacalista in crisi matrimoniale”
Roberto PERETTO (1946, VA), Sildenepro, da cinquant’anni irredento scrittore engagé
“per la programmatica e radicale cancellazione di ogni diaframma tra letteratura e vita, condotta con la magistrale perizia linguistica di sempre da Sildenepro, ovvero da Peretto”
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