Venerdì 10 maggio al Salone del Libro di Torino si è svolto l’incontro di chiusura del call per la narrativa breve indetto per il 2024 dal Premio Calvino. Sono stati presentati i 10 racconti finalisti e si sono annunciati i due vincitori, quello della Giuria (Isabella Ferretti, Orazio Labbate, Andrea Pagliardi e Franco Pezzini), e quello del pubblico che ha potuto votare online sul sito dell’Indice. Il quadro emerso dai finalisti nell’insieme si è rivelato variegato e stimolante. L’incontro è stato preceduto, com’è ormai tradizione, da fruttuosi colloqui di orientamento con gli autori, tenuti dai membri del Direttivo.
La Giuria ha incoronato Polli fritti coi piedi di Pietro Verzina con la seguente motivazione:
La Giuria del Call per la narrativa breve “Trame interspecie” organizzato dal Premio Calvino insieme alla rivista “L’Indice” e al Book Pride, preso atto di una generale buona qualità dei racconti ad essa pervenuti, decide di assegnare il Premio a Polli fritti coi piedi, di Pietro Verzina. Un lucido e paradossale viaggio nell’orrore che, ironizzando amaramente sulle mode imperanti della cucina gourmet ad ogni costo, ci trasporta nel cuore della nostra ipocrisia fino al limite del tabù. In un futuro fin troppo presente, polli e maiali vivi, allevati già cotti e incapaci di provare dolore, offrono mansueti le loro parti migliori agli avventori famelici di ristoranti di lusso che organizzano cene per novelli Trimalcioni. Un’idea folgorante spinta fino alle sue più feroci conseguenze, resa con una prosa chirurgicamente evocativa capace di problematizzare in modo intelligente e non banale i temi centrali della nostra contemporaneità senza mai sfiorare l’apologo, invitando il lettore a riflettere sull’etica del consumo di carne e sulle implicazioni sociali della manipolazione genetica.
Il premio pop è andato invece a Le mie radici della giovane Chiara Sabatini, racconto in cui assistiamo a una barocca vicenda di passaggi da umano a vegetale e da vegetale a umano all’interno di un appartamento cittadino che a poco a poco assume i tratti di un bosco selvatico dove le piante paiono detenere una sorta di supremazia etica e di potere: dall’orchidea-donna, che una volta pienamente trasformata in umana, si farà catturare dallo schermo televisivo prima di essere divorata dai lombrichi, e dal suo connubio con l’uomo-salice nascerà una figlia che si assimilerà al padre ormai albero fronzuto rifiutando il mondo tecnologico e le velleitarie aspirazioni consumistiche materne.
Ringraziamo tutti gli autori per l’entusiasmo con cui hanno partecipato. E ricordiamo ancora che sul numero di giugno dell’Indice comparirà uno Speciale dedicato al tema dell’interspecie, che includerà anche i due racconti vincitori; chi invece volesse leggere i racconti finalisti potrà farlo su questa pagina.
Qui di seguito, il commento del presidente del Premio Mario Marchetti.
I racconti finalisti, selezionati a cura del Direttivo del Premio, attraverso una serie di tappe intermedie a partire dai 913 incipit pervenuti al concorso, hanno saputo sviluppare con una scrittura sempre consapevole e con toni oscillanti nel registro, ma mai estremizzati, una serie di suggestioni germogliate dall’argomento proposto. Sicuramente il tema della metamorfosi nelle sue varie declinazioni è quello che ha più coinvolto: il delicato Il mare arcobaleno dei bambini corallo di Germano Antonucci, pur prendendo spunto dalle mutazioni indotte da un ambiente irreversibilmente sfregiato dall’impronta umana, si chiude con un’inaspettata nota di speranza ‒ i bambini corallo segneranno comunque un nuovo inizio, una nuova nascita di per sé gravida di inedite possibilità come ci ha insegnato la filosofa Hannah Arendt; nel testo vincitore del premio pop, Le mie radici della giovane Chiara Sabatini, assistiamo a una barocca vicenda di passaggi da umano a vegetale e da vegetale a umano all’interno di un appartamento cittadino che a poco a poco assume i tratti di un bosco selvatico dove le piante paiono detenere una sorta di supremazia etica e di potere: dall’orchidea-donna, che una volta pienamente trasformata in umana, si farà catturare dallo schermo televisivo prima di essere divorata dai lombrichi, e dal suo connubio con l’uomo-salice nascerà una figlia che si assimilerà al padre ormai albero fronzuto rifiutando il mondo tecnologico e le velleitarie aspirazioni consumistiche materne; in Memento fiori di Filippo Rossi una situazione di solidarietà esistenziale tra un nonno di matrice contadina e il nipote, uno sradicato dei nostri tempi, dedito un po’ all’alcol, un po’ alle sostanze, s’intreccia in modo struggente con un fenomeno, forse allucinatorio, di trasformazione del vecchio in calicanto, in cui gli eventi del morire e del fiorire si stemperano l’uno nell’altro ‒ anche qui come in Antonucci si intravede un barlume di speranza, ma, diversamente, in una morte vista come tassello di un ciclo di riproduzione e di rigenerazione. A questo punto ci possiamo collegare al pezzo dal medesimo titolo, Rigenerazione di Ernesto Bertolino, in apparenza fuori del coro, ma non invece se si interpreta in senso lato il tema del call che, oltre a mirare a processi metamorfici, intendeva restituire soggettività a ogni altro, umano animale vegetale pietra o cosa; qui, il protagonista, il maliano Mamadou, figlio di una società indigente, sa ridare vita agli oggetti scartati dalla bramosia occidentale facendone riemergere la storia e soprattutto la storia del lavoro in essi compresso e contenuto. Di futuribile ingegneria genetica, ma non solo, ci parlano Michele Ghiotti e Pietro Verzina. Ghiotti, in Carne della mia carne, occhi dei miei occhi, con un’inventiva disposizione grafica mette in scena, all’interno di una clinica stellata, tra aspidistre e musica classica filodiffusa, due esperimenti speculari di ibridazione delle specie: da una parte una scimpanzé destinata a produrre umani, dall’altra una donna a cui viene impiantato il clone del suo amato cagnolino morto, il suo Cal, per farlo rivivere. Le cose non vanno come previsto e alla fine vedremo la scimpanzé fuggire con il bimbo-cagnolino partorito dalla donna: un risarcimento per i tanti neonati che le sono stati sottratti, rifiutando così il ruolo di mera macchina generativa. Analogamente in Polli fritti coi piedi, che si è aggiudicato la palma della giuria, Verzina affronta antifrasticamente, con un tono tra il grottesco e lo scanzonato, la questione delle sofferenze che infliggiamo agli animali non umani ridotti anch’essi a mere macchine, produttive, nel caso, di carne da alimentazione. Nel futuro visionario tratteggiato, la Alive Foods è specializzata in carne cotta viva di cui ci si può nutrire attingendo direttamente alla fonte, ovvero all’animale produttore, senza che esso ne soffra. Le cose si fanno via via più sofisticate in un delirio da gourmet fino ad arrivare a una raffinata antropofagia sempre senza strazio e patimento: un tocco geniale alla Swift. Ci immettiamo in un’originale prospettiva femminista con Femina glucosia di Daniela Tallini: qui le specie in campo sono, da una parte, la donna, appunto glucosia, dall’altra l’homo sapiens, ossia l’uomo patriarcale, nella narrazione una coppia padre-figlia. La figlia, cui è stato impedito di completare gli studi di chimica, perché donna, ed è stata nell’adolescenza presa a cinghiate per i suoi supposti peccati di carne, dopo tanti anni viene chiamata al capezzale del padre diabetico gravemente malato. Certo torna, per prolungarne però, tra vendetta e rivolta, le sofferenze con abili dosaggi di insulina: ma alla fine prevarrà il senso di colpa interiorizzato. Con Scuoiatura di Adriano Russo siamo ancora ai ruoli imposti, per la precisione, di un padre nei confronti del figlio maschio che deve iniziarsi alla pratica virile della violenza e del sangue, cancellando le influenze materne. Tutto avviene nel corso di una angosciosa e spaesante caccia all’uomo. Siamo in un mondo distopico rovesciato dove i lupi sono esseri affini e i cervi creature inquietanti dalle orbite vuote e dove le specie in gioco sono umanoidi scimmieschi ‒ come i protagonisti ‒ e i pochi e impauriti uomini superstiti. L’esperienza iniziatica della scuoiatura umana si rivelerà tanto coinvolgente che il bambino non vedrà l’ora di ripeterla. I due titoli restanti hanno in comune un sottile taglio ironico e come protagonisti degli insetti. In Come sbarazzarsi dei tarli di Stefano Costacurta si dà voce, in una sorta di pseudo saggio erudito con tanto di note, all’ossessione per le larve che vivono nel legno nutrendosene, scavando gallerie e producendo un martellante rumore notturno, tanto più persecutorio se si pensa che l’incubazione dell’insetto adulto prima dello sfarfallamento può durare anni. Il racconto si distingue per una lingua precisa, parodisticamente scientifica, per l’uso controllato ed evocativo di onomatopee e segni grafici e per la sua valenza metaforica. Il tarlo del legno, come si conclude, e com’è noto, è assai difficilmente estirpabile come peraltro ogni nostro tormentoso assillo. Il disturbatore delle mosche di Matteo Fachechi vede all’opera una bizzarra accademia che si riunisce ogni venerdì in una biblioteca per discutere dei massimi sistemi, in particolare ‒ come scoprirà il giovane assunto per tenere lontane dai cinque dotti membri le mosche senza far loro del male ‒ di utopici contratti sociali. Perché trattare con tanta delicatezza le trentaquattro mosche con le quali condividono lo spazio? Si capirà che nel consorzio di questi insetti i sapienti soci vedono, con uno straniante scivolamento simbolico, un’associazione di soggetti liberi, liberati anche dal lavoro per procurarsi il sostentamento, visto che fruiscono delle fatiche altrui. Il solerte giovane disturbatore alla fine sarà avviato a far parte di questa privilegiata comunità facendosi anch’egli mosca tra le mosche, chissà se non tutte ex uomini. Un declassamento o un avanzamento verso l’empireo?
Un quadro nell’insieme stimolante e variegato e di questo ringraziamo gli autori.
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