Ma c’è un terzo elemento che mi ha permesso di venire a capo – ammetto, non senza difficoltà – di questo lavoro: riguarda me stesso, il mio contributo di osservatore diretto. Già, perché io, c’ero. Non posso dire di essere stato un vero amico di persone di tale fama e grandezza, ma, insomma, pure feci parte, a tratti, del loro panorama, del loro milieu. Non potevo pretendere di essere chiamato per nome, o che mi fosse rivolto il ‘tu’ confidenziale da Thomas Mann – e, d’altra parte, chi ebbe mai un tale privilegio! –, né mi pregio di figurare tra i destinatari di una poesia di Bertolt Brecht, neanche nei panni del più meschino tra gli irrisi. Non posso vantarmi insomma di avere ispirato un loro rigo sebbene attingessero, a piene mani, dalla realtà che li circondava, o di aver ricevuto da quei due eccelsi una lettera, una breve epistola, un messaggio, la firma su un libro, con un pensiero accluso, tutto per me… Però, io c’ero, posso garantirlo, ero lì, nei paraggi, li seguivo, spuntavo, ogni tanto, e, soprattutto, li guardavo, li ascoltavo, cercavo di capirli, di assimilarli. Trascrivevo una frase, una sentenza, segnavo un appunto sul mio taccuino, collezionavo intanto immagini dell’epoca, ed è pertanto tutta opera mia, ne vado piuttosto orgoglioso, quel tentativo di illustrazione che accompagna il lavoro – saggio, romanzo, fate voi… –, e lo completa, alla ricerca di un nesso, di un legame tra questi due tedeschi, così vicini, così diversi…
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