Giurie

LA BELLA MADAMIN di Giovanni Vergineo

martedì, 13 Dicembre 2011

La città dorme, all’ombra delle Alpi, all’ombra della Mole, all’ombra del cielo silenzioso che comunque la sovrasta, nonostante il traffico, nonostante il caos giovanile primaverile, nonostante la Fiat e le Olimpiadi, nonostante la Sindone.

La città dorme, e quando il mio aereo atterra a Caselle dormo anch’io.

E’ assurdo quanto questa città assomigli a quella di Gozzano, quanto sia quella di Gozzano restando col passare degli anni inequivocabilmente la stessa, quanto si possa sentire, fra gli sproloqui dei punkabbestia e della fauna fricchettona che comunque la popola, sempre la vecchia canzone della “bela madamin, la völo maridé”, la vecchia canzone che emerge dalle parole dei suoi abitanti, dei torinesi veri e di quelli acquisiti, degli ex terroni ora naturalizzati, dei nuovi terroni studenti, dei nuovi terroni dalla pelle scura od olivastra.

In fondo, penso mentre atterro in quest’aeroporto dormiente all’ombra delle Alpi, sono solo un altro terrone a Torino, un altro venuto qui a cercare la sua America vicina, la sua America di acciaio e cemento, di piazze meravigliose e sonnose, di aristocrazie pacate e perdute, il suo sogno raggiungibile con una traversata su ruote che non aveva nulla da invidiare a quella per mare, a quella che intraprendevano i disperati coraggiosi.

La bela madamin, la völo maridé / A ’l Düca di Sassònia i so la völo dè.

Anziché prendere un treno della speranza ho preso un volo low cost della speranza, e al posto delle classiche valicie é carton’ ho uno zainetto Nike, ma questo non cambia molto le cose.

Quello che senti subito, quando arrivi a Torino, è che la gente non si vergogna a parlare il proprio dialetto.

La loro lingua, sarebbe meglio dire, che dolcemente si posa di sillaba in sillaba, con i suoi accenti delicati e caratteristici, col suo ritmo altalenante. Io invece porto con me il mio dialetto sporcato dalla storia; ogni parola, ogni sillaba si intreccia con le vicende di migliaia di persone venute qui come me, che parlavano la mia stessa lingua, che pensavano nella mia stessa lingua lordata dalla disfatta della conquista subita e dall’umiliazione dell’emigrazione. Noi, noi del Sud che cerchiamo di nascondere le nostre radici, che però ti danno la caccia e ti stanano quando meno te lo aspetti, quando sei ad una festa e ti sei scordato da dove sei venuto, da dove sono venuti i tuoi genitori, quando accidentalmente qualcuno ti fa cadere addosso il vino e tu stringi i denti e ringhi: all’anim’ e mamm’t ed ecco, sei fottuto, improvvisamente sei tu e nessun altro e l’immensa mole del tuo passato ti schiaccia e ti divora. Ed ecco che, cercando di sfuggire al tuo linguaggio, vorresti parlare e invece sei parlato.

Che ci faccio qui?

Ah già, il premio Calvino.

Chissà se ho vinto. No, ovviamente no, ma in fondo cosa cambia? Sono qui, sono stato scelto, e questo mi provoca un piacere arcaico e ineguagliabile, il piacere di essere giudicato, il piacere di essere sezionato e analizzato e poi apprezzato. Siamo in 12: non c’è speranza che io vinca. Siamo in 12, ma io sono sicuramente il più bello. O, almeno, quello con i capelli più belli, consentitemelo.

Eccomi nella capitale, la prima, la vera capitale, da dove tutto è partito, da dove è iniziata davvero quell’impresa folle e ridicola chiamata Italia. Cosa ci faccio io qua? Non eravamo nemici, una volta? Perché questa gente mi vuole qui? Non sa che i miei antenati hanno fatto strage di ufficiali piemontesi, di giovani bersaglieri mandati a pacificare l’Italia fatta e finita, di ragazzi nel fiore degli anni uccisi dai briganti di montagna, simili ai lupi, della natura del lupo come Apollo, che li aspettavano e poi li ammazzavano perché vaffanculo all’Italia, l’Italia non s’ha da fare, né ora né mai?

Era il 1861 e l’Italia era fatta, fatta e finita, e i Rossi avevano vinto e l’esercito borbonico si era liquefatto in un momento assieme al suo Regno, e in un attimo noi eravamo diventati il Sud di Qualcosa.

Era il 1861 e c’erano ancora dei nuclei da domare, dei cafoni maledetti che non volevano rassegnarsi al nuovo, alla sconfitta, che volevano proseguire una guerra personale antistorica, una guerra contro la storia stessa che giustamente li ha rimossi e cancellati, una storia di briganti leggendari e di bastardi senza nome. Che furono cancellati.

Era l’undici agosto 1861 quando un drappello di quarantacinque soldati del XXXVI Fanteria e quattro Carabinieri comandati dal Tenente Bracci fu mandato a Pontelandolfo, un nome che non dice nulla pur gridando il suo dolore da centocinquant’anni, al fine di contrastare le azioni della banda di briganti comandata da Cosimo Giordano che il sette agosto aveva compiuto razzie e scorribande in paese, uccidendone un abitante. Il drappello di soldati del Regno fu però attaccato dalla banda e costretta a rifugiarsi nella torre del paese, da cui tentò una strenua quanto inutile difesa cui fece seguito la fuga. Lungo la strada però i soldati furono di nuovo attaccati e trucidati dalla banda filoborbonica di Angelo Pica: fu un massacro per le truppe piemontesi che si concluse con soli 4 sopravvissuti: una strage della più bella gioventù piemontese. Bastoni, fucilozzi alla buona, armi del defunto esercito di Franceschiello ebbero la meglio sulla giovinezza rivoluzionaria e moderna, sull’Idea di una Nazione che andava cucita assieme a tutti i costi, i cui brandelli sanguinanti andavano assemblati ed amalgamati in modo permanente, e le ferite sarebbero guarite, anche le più profonde. Ma la pelle non si aggiusta, si dice, e le cicatrici ancora si vedono.

Era il quattordici agosto quando un intero battaglione composto da 400 bersaglieri al comando del colonnello Negri fece il suo ingresso in paese: i bersaglieri erano tornati, ed erano molto più incazzati.

Quello che successe a Pontelandolofo, un paese in mezzo al nulla, in mezzo ad un Sud sterminato e impenetrabile, un labirinto di selve e superstizioni non fa parte della storia come non ne fanno parte le storie non raccontate, le storie taciute e mugolate al buio, al lume del rancore insonne e del dolore: le parole morte casuale, devastazione, urla nella valle e sangue sulle strade non rendono giustizia all’evento, ancora una volta il linguaggio ci frega con i suoi stupidi giochetti.

“Difatti, un pò prima di arrivar al Paese incontrammo i Briganti, attaccandoli ed in breve i Briganti correvano d’avanti a noi, entrammo nel Paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitava […] ed infine abbiamo dato l’incendio al Paese, abitato da circa 4500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case […]”

Era il 1861 e la sala del premio in via Bogino, 9 era gremita di scrittori e spettatori, autori e critici, editor e gente di questa risma, e c’erano anche tutti i briganti di montagna lì con noi, e c’erano pure i bersaglieri a sparare sulla folla e sui giornalisti, sui segnalati e sui vincitori, sui finalisti felici e soddisfatti come me di essere lì, nella capitale di Gozzano, nella città morta, a Golconda, a Goa, nella capitale vittoriosa e poi abbandonata.

Quant’è bella ‘sta città, cazzo, è proprio bella.

E quanto sono felice di essere qui, solo perché ho scritto due stupidaggini, solo perché certe volte preferisco battere sui tasti morbidi anziché pizzicare corde o spizzicare olive o grattarmi le ascelle.

Dopo la cerimonia e la cena, rallegrata da schizzichetti di pioggia sulla pizza, tornando all’hotel a Borgo Dora, c’era una ragazza bionda sotto al portone. Era vestita di tutto punto ma dormiva, la testa reclinata sulle ginocchia, il collo sporco incorniciato dai capelli ossigenati e luridi. Non volevo svegliarla, ma in realtà non c’erano molti modi per entrare. Ho manovrato un po’ vicino alla serratura del portone e alla fine sono riuscito a sgattaiolare dentro, ma lei si è svegliata e mi ha guardato. Poi si è alzata: era magra, magrissima, e dimostrava certamente molti più anni di quanti non ne avesse. Gli occhi, azzurrissimi, erano secchi di sonno e di lacrime secche. Occhi slavi. “Hai dei soldi?” – “Eh?” – “HAI DEI SOLDI?”

L’accento era fortemente esteuropeo, ma l’italiano era impeccabile. “Non parli italiano? Ti ho chiesto se hai dei soldi.” – “No…no Italiano” e all’improvviso lo straniero ero io. Del resto, sono un terrone…Parlez vous francais? Je voudr…..no, no, aspetta…sei qui per il premio, vero?” Ok, ok… la commedia è finita. “Come sai che sono qui per il premio?” – “E capirai che ci vuole. Sei uno scrittore, no?” – “No. Ma sì, sono qui per il premio. E sono italiano, certo che sono italiano.” Presi due euro e glieli diedi. Lei li prese e poi mi guardò con i suoi occhi slavi e mi porse la mano. Era davvero lercia. Esitai un attimo, poi gliela diedi; me la strinse forte, con determinazione. “Non te lo scordare, hai capito?” – “Cosa? Cos’è che non mi devo scordare?” – “Non ti scordare. Che io sono la figlia di un Generale della Patria, hai capito?Io sono la figlia. Di un generale. Della Patria” – anche se la mia patria non esiste più, anche se il mio accento è ridicolo, anche se sono una puttana e devo scopare per campare, anche se chiedo soldi a te, stupido coglione arrogante nato dalla parte giusta dell’Europa, non te lo scordare. Io sono la figlia di un generale della Patria.

“E io sono un finalista che non ha vinto.”

Divincolai la mano dalla sua schifosa presa e salii in stanza.