Giurie

GITA AL CALVINO di Riccardo Battaglia

mercoledì, 14 Dicembre 2011

Mi chiamo Riccardo Battaglia, ho più o meno trentacinque anni e sono un musicista. Sono anche un traduttore. Un po’. Ma poi neanche. Diciamo musicista, è quello che c’è scritto sulla carta d’identità.

Per anni ho scritto per lavoro (di musica) e anche per piacere, ma un romanzo non l’ho mai scritto.

Qualche estate fa ero in collina. Un posto molto remoto e tranquillo. Ci vado nei mesi estivi, per suonare in pace, comporre, ecc. ecc. Cioè, ci vado anche per questo, ma soprattutto ci vado perché ho un sacco di tempo libero: infatti, prima ancora che musicista (o traduttore che sia) sono un disoccupato. Non un disoccupato tradizionale; uno della nuova generazione. Generazione X, per intenderci. Uno di quelli che alle dieci e dieci del mattino sono a casa a girarsi i pollici.

Apro un piccolo inciso. Avete mai fatto a caso alle pubblicità degli orologi? Quelle sui giornali, sui cartelloni, sulle riviste di moda? Fanno sempre le dieci e dieci. Con la lancetta dei secondi sullo zero. Sempre. Vi sfido a trovare un’eccezione. E sapete perché? Be’, per tanti motivi. Perché 10 è il voto del migliore a scuola. Del vincente. Non importa se è un coglione; anzi, meglio. Perché quella è l’ora del mattino che sprigiona odore di produttività e guadagno: il sole è in rapida ascesa verso lo zenit, il mondo è in moto e le energie migliori della giornata ronzano frenetiche impollinando il Grande Giardino. Se poi volete proprio guardare il mondo con gli occhi del pubblicitario, le tre lancette ricordano le gambe spalancate di una donna penetrata da un membro gigante.

Insomma, può anche darsi che uno sia ancora a zonzo alle otto o alle nove. Ma se alle dieci e dieci è a casa inattivo (invece che in giro a impollinare), allora è fuori dal gioco.

Ecco, quello sono io.

Comunque non divaghiamo, non vorrei dilungarmi troppo.

Ero in collina, dicevo, con un sacco di tempo a disposizione. Così ho deciso che per una volta, invece di passare tutto il giorno a suonare, avrei fatto qualcosa di diverso. In realtà non l’ho neppure deciso, l’ho fatto in modo del tutto inconsapevole… insomma, per farla breve, ho scritto un romanzo.

È il mio primo romanzo, e l’ho intitolato “Inverno inferno”.

L’ho corretto e riveduto, reso decente e presentabile, e dopo un po’ di mesi l’ho spedito al Calvino.

Non saprei come descrivere questo romanzo, comunque ci provo: è un romanzo comico. Non è comico perché lo è, o perché lo volevo scrivere così. Lo dicono quelli che l’hanno letto (amici e parenti stretti): è un romanzo che fa pisciare dal ridere. (Perdonate il termine).

A parte questo, se devo definirlo, direi che è abbastanza comico, sì, e che dentro c’è un po’ di tutto: un po’ da ridere, un po’ da piangere, un po’ da pensare. È anche il ritratto di una generazione (la mia), e anche una caricatura; poi c’è dentro il mondo della musica, anche un po’ quello della traduzione, e c’è anche molto Freud. Alla fin fine è soprattutto la storia di un’amicizia (maschile), e dei muri che ognuno di noi costruisce dentro di sé. Ma è anche la storia di tre donne che rimangono incinte. A un certo punto diventa anche un po’ giallo, o forse un po’ noir. E c’è anche l’amore, il sesso, il tradimento, e anche Petrarca e Dante. Quasi dimenticavo, c’è anche l’India, molta India.

Una descrizione un po’ confusa, lo so, ma la trama non è facile da raccontare.

I miei amici, essendo miei amici, dicono che ho un futuro da scrittore. Me lo dice anche mia madre (essendo mia madre); me lo ha sempre detto. Me l’hanno detto anche i miei insegnanti quando ero bambino (invece al liceo in italiano facevo schifo). Insomma, me lo hanno detto talmente tanto che mi hanno convinto. No, non che ho un futuro da scrittore. Mi hanno convinto a spedire il romanzo al Calvino.

Così l’ho spedito, dopo che mio padre (è uno che di letteratura ne sa a pacchi, per me pochi ne sanno più di lui) mi ha detto che potrei vendere almeno quanto De Carlo. Almeno.

A me non interessa granché un futuro da scrittore. Magari non ne sono neanche capace. Come molti scrivo per l’esigenza di dar sfogo alla creatività. Però vendere mi interesserebbe, quello sì, è inutile che lo neghi. Chi non vorrebbe pagare il conto del supermercato con la propria arte?

Dunque, io il romanzo l’ho spedito, e dopo qualche mese mi è arrivata una lettera. Un’e-mail, per la precisione. Ero in India per un tour. In realtà ero lì per un paio di concerti, ma dire che ero lì per un tour fa molto più fico. Nella musica è così, non bisogna mai chiamare le cose con il loro nome, non paga.

La lettera diceva

Abbiamo bisogno di contattarla. Intanto le comunichiamo che sarebbe stato segnalato per la finale…ecc. ecc.

Devo ammettere che ero un po’ scettico. Cosa diavolo vuol dire sarebbe stato segnalato? Uno è segnalato oppure non lo è. Voi cosa pensereste se io iniziassi a raccontare così?

Mi chiamerei Riccardo Battaglia, avrei più o meno trentacinque anni e sarei un musicista.

Ma capisco che viviamo in un mondo obliquo, perciò le cose vanno dette sempre in diagonale. Nel nostro mondo obliquo, dire le cose dritte non paga.

In India, mentre facevo il tour (be’, ci siamo capiti, no?), ero ospite da un amico. Internet a casa non c’era. A dire il vero non c’era neppure il computer. Gli indiani – fortuna loro – vivono ancora per la strada, e non dentro gli schermi. La posta me la andavo a controllare in un internet café sulla strada del Kalina Market. Una strada infernale che se uno riesce ad attraversarla gli dovrebbero dare il Nobel per il gesto acrobatico. Io non solo c’ero riuscito, ma mi ero anche fermato a togliere una grossa zecca gonfia di sangue dall’occhio di un cane randagio che sonnecchiava all’ombra di un pan walla, un venditore di pan, tabacco e cianfrusaglie varie. Non so perché mi sono fermato a toglierla, a mani nude per giunta. A volte l’urgenza di un gesto è irrazionale. Dopo aver spiaccicato la zecca con il piede, mi sono rimesso in cammino verso l’internet café sotto il sole cocente. Dietro di me un tizio vestito di stracci e con la barba lunga ha sussurrato, Good work, sir. A dispetto dei vestiti e dell’apparenza, aveva una voce profonda e suadente e un ottimo inglese.

Quando pochi istanti dopo mi sono seduto al computer, sono stato felice di trovare la lettera del Calvino.

Abbiamo bisogno di contattarla. Intanto le comunichiamo che sarebbe stato segnalato per la finale.

Nonostante lo scetticismo per il condizionale, e nonostante l’internet café assomigliasse più che altro a una pentola a pressione.

Ecco una bella notizia, mi son detto; ho persino pensato che fosse una fulminea ricompensa karmica per aver tolto la zecca dall’occhio del cane. Good work, sir.

Questo succedeva più o meno a metà febbraio.

Poi è arrivato il 16 aprile. La premiazione. A Torino ci sono andato con una carovana di amici e parenti, che sono poi i personaggi del mio romanzo. Loro sono voluti venire a tutti i costi, si sono persino vestiti e pettinati come i loro personaggi nel romanzo. Qualche giorno prima di partire mi hanno fatto una confessione: speravano tutti che vincessi io. Anzi, ne erano convinti. Bella forza. Quasi stupido scriverlo, no?. Tutti i concorrenti avranno avuto una frotta di amici e parenti che pensavano la stessa cosa.

Io però lo sapevo che non avrei vinto: nel mio romanzo ci sono troppe parolacce, troppe scene di sesso e troppe prese per il culo degli intellettuali.

Immaginate il presidente del premio che mi proclama vincitore, poi davanti all’élite della cultura e della politica torinese declama un saggio della mia bravura di scrittore:

La mattina dopo la festa era seduto sul water con lancinanti dolori di stomaco. La Rolly si alzò, ancora mezza sbronza, con la zazzera sparata da un lato e una vecchia maglietta taglia xxl. Infilò gli occhiali dei tempi delle scuole medie: non vedeva un accidente lo stesso. Si trascinò semi-incosciente fino al bagno, sbadigliando ogni due passi. La serratura era rotta e la porta socchiusa. La Rolly entrò senza fare una piega. Si avvicinò placida al water, si chinò sulle ginocchia di fronte a Conficconi, e senza neppure badare a cosa stava accadendo gli fece un pompino stellare. Finita la fellatio, tornò a letto come se nulla fosse e dormì fino alle quattro del pomeriggio.

Fu così che iniziò la loro convivenza.

Devo dire che è già tanto se qualche anima gentile mi ha mandato in finale (in fondo il libro parla anche di altro, non solo di cose triviali). Comunque, sapendo che non avrei vinto, mi sono goduto ancora di più il viaggio a Torino. Niente stress da competizione.

Con me c’erano anche i miei genitori. Anche loro sono personaggi del mio romanzo, ma solo minori. Siamo partiti sulla Renault giurassica, io, mio padre zoppo, mia madre e un navigatore satellitare che nessuno sapeva usare. Mai usato uno di quegli aggeggi in vita mia. Ce l’ha prestato qualcuno.

I miei amici erano nell’altra macchina. Anzi, nel furgone, il furgone a sette posti.

Io e i miei amici siamo molto legati. Siamo cresciuti insieme, e condividiamo un certo orgoglio anti-intellettuale da classe operaia. Che poi è esattamente quello che sono loro: classe operaia allo stato puro. Io invece no, ho studiato. Anche troppo. Nessuno di noi ce l’ha davvero con il mondo intellettuale. Forse è solo una posa. O forse è il fatto che siamo cresciuti in mezzo ai campi, sputandoci in faccia e rubando motorini. Non vogliamo diventare sofisticati. Se dovessi spiegarlo con parole più efficaci, userei queste:

Ascoltami, i poeti laureati

si muovono soltanto fra le piante

dai nomi poco usati: bossi ligustri o acanti.

Io, per me, amo le strade che riescono agli erbosi

fossi dove in pozzanghere

mezzo seccate agguantano i ragazzi

qualche sparuta anguilla

La premiazione ci è piaciuta. Ci siamo divertiti. Un po’ sì e un po’ no.

Raccontarla tutta non posso. Sarebbe troppo lungo. E poi non ricordo bene, perché i ragazzi erano mezzi sbronzi e ho dovuto badarli quasi tutto il tempo. Perciò, visto che volevo fare un resoconto della premiazione ma ho finito per parlare di tutt’altro, due cose almeno le voglio dire.

Un po’ sì.

Mi è piaciuto incontrare la gente che ha organizzato questo premio. Fra loro, ho visto persone morbosamente entusiaste. Mi è piaciuto che i finalisti erano tranquilli e non se la tiravano. Tirarsela perché sei arrivato in finale a un premio letterario è patetico. E mi è piaciuto vedere come la créme de la créme della cultura nazionale ha dato l’assalto selvaggio al buffet quando ancora i saluti non erano finiti. Vuol dire che per fortuna gli istinti atavici delle origini sopravvivono ancora, anche nei migliori salotti.

Un po’ no.

Un’ora prima del premio c’era l’incontro con i quattro famosi della giuria. Ero impaziente di conoscere gli scrittori, perché sono nomi celebri di cui ho anche letto qualche libro. Pregustavo un incontro stimolante. Chissà se mi avrebbero detto qualcosa del mio romanzo? Chissà se ci avrebbero dato dei consigli? Ma i quattro sono arrivati solo all’ultimo minuto. Sono sfilati senza degnarci di uno sguardo e si sono appartati in un angolo dove non rischiavano di essere disturbati, distanti e irraggiungibili. Fra noi e loro, un muro insormontabile. A me i muri non piacciono. D’istinto ho pensato a Bukowski, una poesia sulla distanza fra i famosi e gli sfigati:

quelli che

hanno successo

conoscono

il segreto:

che non c’è.

La mattina dopo il premio siamo ripartiti in macchina. Per chi non conosce Torino è un casino. Mia madre, che è dotata di un certo buon senso, mi ha suggerito di seguire il navigatore satellitare. Io allora ho pensato a Guerre Stellari, quando Luke sta per distruggere la Morte Nera con l’aiuto di un computer. «Usa la forza, Luke. Segui l’istinto, Luke. Spegni il computer, Luke» gli dice Obi-Wan dall’aldilà.

E così è stato: ho spostato la mano in avanti, e con una leggera pressione dell’indice ho messo a dormire il tomtom.

Ci abbiamo messo due ore ad uscire da Torino. Nella giungla dei semafori e delle tangenziali non bisogna mai affidarsi all’istinto. Non paga.