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Alessandro Tuzzato

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – marzo 2016
Illustrazione di Davide Lorenzon

Alessandro Tuzzato insegna italiano e storia in una scuola superiore nei pressi di Venezia. Ha conseguito il dottorato di ricerca in letteratura italiana nella leggendaria California, dove ha vissuto per ben nove anni che ricorda ancora come uno dei periodi più belli della sua vita. Riservato e affascinante, si dedica da sempre alla scrittura, spaziando dalla narrativa alla trattazione scientifica di figure storiche più o meno legate al mondo della letteratura.

Alessandro si è guadagnato l’accesso alla finale della 28° edizione del Premio Italo Calvino con L’inutilità dei buoni, breve romanzo a tratti inquietante, magistralmente costruito intorno alla figura di uno schizofrenico che racconta il suo percorso di vita, tra apparenze di normalità e deliri, tra memorie perdute e riconquistate, tra illusione e realtà.

1) Il titolo del tuo romanzo colpisce subito per il sapore amaro che trasmette. Chi sono i buoni a cui ti riferisci?

L’inutilità dei buoni richiama una frase che Daniela, una dei protagonisti, urla al fidanzato Roberto durante un litigio. Roberto infatti è convinto di essere stato troppo buono con lei, in tante occasioni, e spesso glielo ricorda con rancore. Daniela, per quanto sia stata davvero cattiva, a un certo punto si stanca di essere vista in maniera negativa e, per difendersi, lo accusa “d’essere inutile come tutti i buoni”, scatenando così una serie di reazioni emotive imprevedibili e problematiche. Si tratta di una frase centrale, perché dopo questo momento il protagonista precipita nella malattia psichica di cui parlo nell’ultima parte della storia. Comunque, non avendo concepito il romanzo come una trattazione sulla bontà, trovo difficile spiegare con precisione chi siano i buoni. Ciò che ho fatto è stato sottolineare come sia facile essere fraintesi quando ci sono in ballo i sentimenti e come la normalità sia, per così dire, soggettiva. Roberto crede di essere un buono, ma in realtà viene visto da tanti come un debole. Una specie di Griselda al maschile, ma senza lieto fine, insomma.

2) Cosa ti ha spinto a trattare un tema spinoso come quello della malattia mentale?

Prima che L’inutilità dei buoni diventasse il testo che è diventato, non sapevo che avrei parlato di malattia mentale. Volevo scrivere un romanzo in cui il protagonista, scampato a un omicidio da ragazzo, da adulto sarebbe diventato una specie di giustiziere solitario. Poi però è arrivato Dexter, protagonista di una serie televisiva basata proprio su una storia del genere e quindi ho cambiato argomento. Ho gettato nel cestino centinaia di pagine e dozzine di descrizioni di omicidi e mutilazioni. Per fortuna, mi viene da pensare adesso. E mi sono rimesso a scrivere fino a quando, stesura dopo stesura, la trama è emersa nella sua versione definitiva. Perciò la schizofrenia di uno dei personaggi è stata un’acquisizione tardiva, inserita semplicemente perché mi pareva che la storia girasse meglio. Così ho nuovamente dovuto riscrivere interi capitoli, aggiungendo dettagli e situazioni che prima non servivano. E siccome non ho alcuna esperienza nel campo della psichiatria, sono stato costretto a informarmi. Ho letto dei manuali universitari, ho consultato qualche blog sulla farmacologia e ho cercato testimonianze di persone che hanno sperimentato questo problema.

3) Perché hai scelto di utilizzare il punto di vista del malato? Che tipo di lavoro hai svolto per disegnare il tuo protagonista?

La scelta di far parlare in prima persona il personaggio malato è stata meditata. In origine avevo pensato di usare la terza persona, ma poi ho capito che il suo disagio emergeva in maniera molto più diretta se veniva espresso da un io narrante. E l’uso della prima persona non è stata l’unica attenzione linguistica che ho dedicato al personaggio di Roberto: da quando la malattia si manifesta le sue frasi diventano più brevi, spesso sconnesse, sintomo sottile ma lampante della sua confusione mentale. Ho investito un bel po’ di tempo in questa caratterizzazione e credo che mi sia riuscita abbastanza bene. È stato un lavoro impegnativo che però alla fine ha presentato pure un risvolto divertente: infatti alcuni amici, dopo aver letto il libro, mi hanno chiesto se fosse un’autobiografia, cioè se fossi io il malato di cui parlo. “Certo che lo sei”, hanno insistito, “parli in prima persona!”

L’ho già fatto, ma vorrei cogliere l’occasione per ribadirlo per iscritto: NO, cari amici miei, lo schizofrenico – a tratti quasi autistico – vittima d’innumerevoli complessi e omicida del mio romanzo non sono io!

4) Documentandoti sulla malattia mentale ti sei fatto un’opinione sul mondo della psichiatria?

Questa domanda mi coglie un po’ impreparato, perché non ho nessuna competenza professionale al riguardo e non so come rispondere. Della psichiatria ne so poco o niente, anche se mi è stato detto più di una volta – e lo riferisco con una certa soddisfazione – che ho saputo rappresentare in modo molto verosimile la malattia mentale di Roberto. Il primo a fare questo commento è stato proprio Paolo Giordano, durante la cerimonia di premiazione del Calvino. Ha detto che secondo lui sono riuscito a disseminare l’opera di dettagli che avvicinano lentamente il lettore alla scoperta della malattia del protagonista. Però, sebbene sia ovvio che la schizofrenia di Roberto rappresenti un tema molto importante del romanzo, credo che nella trama ci siano pure altri aspetti altrettanto interessanti. Ad esempio il ruolo della memoria – e perciò della storia – nella vita di tutti i giorni. Più Roberto impazzisce, meno ricorda il suo passato; arriva progressivamente a dimenticare anche ciò che ha fatto il giorno prima, fino a doversi rifugiarsi in un presente ripetitivo più facile da gestire. Ecco, l’influenza della storia passata sul presente era, in origine, la riflessione che volevo proporre con il mio romanzo.

5) “Pensa che vergogna se si venisse a sapere”. Questa è senza dubbio una delle frasi ricorrenti del romanzo. Qual è il suo significato?

Pensa che vergogna se arrivassi in ritardo”, oppure “Che vergogna se la gente pensasse che ci diamo delle arie”. Sono alcune delle tante varianti del commento che la mamma di uno dei personaggi ripete di solito. Ma non sono commenti necessariamente collegati alla malattia. Sono espressioni che ho inserito allo scopo di rafforzare la connotazione delicata e ipersensibile del personaggio. Pronunciate troppo spesso perdono però il valore positivo che tutto sommato dovrebbero avere. Come ho già detto, ritengo che proprio in questi leggeri scarti risieda uno dei nodi della vicenda: la constatazione che il confine tra salute e malattia o, nel caso in questione, tra gentilezza e ossessione, sia molto esile. Perché alla fine la volontà di essere educata a tutti i costi fa emergere l’aspetto poco naturale e, per così dire, ossessivo di questa madre.

6) Come ti sei sentito quando infine hai deciso che bastava rimuginarci sopra e hai inviato il manoscritto al Calvino?

Se fosse stato per me probabilmente ci starei ancora lavorando. Sono tuttora convinto che si potrebbero fare dei leggeri cambiamenti, accorciare un po’ la storia, renderla più essenziale. Ecco, se dovessi modificare L’inutilità dei buoni sicuramente toglierei qualcosa. Credo sia tipico di chi è alle prime armi gettare nel calderone elementi che non sono necessari. Comunque, prima di convincermi che era ora di far circolare il romanzo, l’ho fatto leggere a un gruppo di amici che mi hanno elargito consigli e suggerimenti. Visto che tutto sommato i commenti erano positivi, alla fine ho deciso di partecipare al Calvino. Mi dispiace solo di non aver dato retta a chi mi aveva consigliato d’invertire l’ordine dei primi capitoli. Mi spiego meglio: fino a circa metà dell’opera la storia riguarda diversi personaggi e procede per episodi paralleli. La posizione dei primi capitoli può perciò essere cambiata tranquillamente. Ho preferito essere prudente e ho aperto il romanzo con una sezione scritta in modo molto tradizionale. La seconda parte è più originale e, adesso ne sono convinto, meritava di essere messa all’inizio, come del resto avevo pensato di fare prima della partecipazione al PIC. L’esito sarebbe stato lo stesso se fossi stato più coraggioso? Non lo so, in fin dei conti sono proprio le pagine iniziali a determinare la prima impressione.

7) Cosa hai provato quando hai saputo di essere un finalista?

Di solito non rispondo alle chiamate da numeri che non conosco. Però nei giorni a ridosso della comunicazione dei finalisti avevo il cellulare sempre a portata di mano, e tutta l’intenzione di rispondere a qualsiasi cosa fosse apparsa sul display. Insomma, ci speravo. Non credo molto a chi dice di avere dimenticato la propria partecipazione al concorso, mi pare davvero strano. Io sicuramente non l’ho fatto. Appeno ho ricevuto la telefonata ho provato grande soddisfazione. I dubbi che avevo avuto e che dipendevano dal fatto che nessuno, oltre ai miei amici, aveva letto qualcosa di mio si sono dissolti in un secondo. Ovviamente ero in uno stato di agitazione totale che non mi ha permesso di capire date, orari e dettagli che mi venivano trasmessi. Per fortuna il giorno dopo è arrivata anche un’email di conferma. I due giorni a Torino sono stati molto piacevoli. Ricordo tutto con grande gioia: la premiazione, il rinfresco, le chiacchiere coi lettori e con gli altri finalisti. Ecco, è questa una delle grandi opportunità offerte dal Premio: la possibilità conoscere personalmente chi ha letto il tuo lavoro in maniera professionale e chi, come te, coltiva la passione della scrittura.

8) Com’è stato l’impatto con il mondo dell’editoria?

Qualche giorno dopo la cerimonia di premiazione sono stato contattato dagli editor di due case editrici molto importanti. Entrambi erano presenti alla premiazione ed entrambi avevano ricevuto il mio romanzo direttamente dagli organizzatori. Dopo averlo letto, si sono dimostrati entusiasti e decisi a proporlo ai rispettivi comitati di valutazione (non sono sicuro che si chiamino così). Uno di loro, però, complici le vicende Mondazzoli, ha dovuto rivolgere altrove la propria attenzione. L’altro, invece, avendo già qualche autore esordiente da seguire, mi ha spiegato che avrebbe rischiato troppo aggiungendo alla lista un nuovo esordiente.

Qualche settimana fa ho ricevuto una telefonata da una piccola casa editrice che però, l’ho scoperto dopo, lavora quasi sempre a pagamento. Anche se a me non hanno chiesto soldi, ho rifiutato perché vorrei un destino più felice per L’inutilità dei buoni. Comunque devo ammettere di non essere mai stato molto attivo nella promozione del mio libro. A questo punto penso che contatterò qualche agente per vedere se avrà voglia di propormi. Avevo pensato di mettermi al telefono e farlo personalmente, ma mi sto accorgendo di quanto sia difficile destreggiarsi nel mondo degli editori e rivolgersi a un professionista è sicuramente più sensato.

9) A prescindere dal destino editoriale che incontrerà L’inutilità dei buoni, scriverai altri romanzi?

Guarda, subito dopo aver concluso questo romanzo sono stato tentato di partire dalle pagine che non avevo usato per comporne un altro. Ma sarebbe stato un lavoro di riciclo che avrebbe prodotto qualcosa di troppo simile al primo libro, perciò ho scartato l’ipotesi quasi immediatamente. Da qualche mese ho iniziato a scrivere il secondo romanzo. Sono a buon punto, però mi mancano gli ultimi dettagli, quelli più impegnativi: qualche dialogo, qualche episodio per i personaggi secondari e un’attenta lettura d’insieme per vedere se il tutto è equilibrato. Io lavoro così, prima costruisco l’architettura generale, poi aggiungo tutto il resto. È la fase più difficile ma anche la più bella, perché è nell’ultima stesura che la storia può diventare una storia raccontata bene. Se sarò soddisfatto lo spedirò alla prossima edizione del Premio Italo Calvino, anche se ti confesso che la pubblicazione de L’inutilità dei buoni mi farebbe rinunciare con piacere alla seconda partecipazione.


Mariapia Veladiano

martedì, 20 Marzo 2018

Intervista di Ella May – Dicembre 2015

Illustrazione di Davide Lorenzon

Mariapia Veladiano è nata a Vicenza nel 1960. Dopo essersi dedicata con passione all’insegnamento, attualmente è preside di una scuola vicentina. Nel 2010 si è aggiudicata la vittoria nella 23°edizione del Premio Italo Calvino grazie all’opera Memorie mancate, diventata poi nel 2011 il bellissimo romanzo La vita accanto edito da Einaudi Stile Libero, che l’ha portata in finale al Premio Strega. Oggi è una delle scrittrici più amate del panorama italiano. La ritroveremo in libreria a partire dal 28 gennaio [2016] con Una storia quasi perfetta, edito da Guanda.

N.d.R.: sempre per Guanda, Mariapia Veladiano ha pubblicato il suo ultimo libro Lei (ottobre 2017). È stata scelta come giurata della 31° edizione del Premio Italo Calvino.

 

1) Prima di qualsiasi altra cosa, puoi raccontarci il tuo rapporto con i libri e con la scrittura?

Allora partiamo dal fatto che sono stata una lettrice appassionata. Da piccola mi perdevo nei libri e provavo a scrivere storie simili a quelle che leggevo. Mi piaceva inventare mondi e come tutti i bambini sognavo di essere io la protagonista di tutte le storie. Scrivere mi è sempre piaciuto anche perché mi riusciva facile, facile rispetto alle richieste della scuola, ad esempio, e le soddisfazioni arrivavano senza sforzo. È una sensazione bellissima quella che ci accompagna quando le parole si scrivono quasi da sole. Tutti i bambini intorno fanno sforzi tremendi per scrivere qualcosa e noi invece no, scriviamo e scriviamo. Poi è arrivato un altro tipo di scrittura. Scrivere per capire quel che mi capitava e per trasformarlo anche. Raccontare storie che intercettano le vite degli altri e ne trovano il comune segreto. Segreto perché non sappiamo chiamarlo per nome ma lo sappiamo riconoscere se qualcun altro lo nomina. Qui la scrittura è diventata molto più faticosa. Una bella fatica, ma del tutto diversa dalla spontaneità con cui si scrive da bambini.

 

2) Parlaci del manoscritto che hai inviato al Premio Italo Calvino: com’è nato e perché l’hai scritto?

La storia di Rebecca bambina che si sente bruttissima è arrivata proprio da sola. Del resto ho scritto sempre così, con la libertà di chi non ha in mente di pubblicare e si dedica alle storie che scrive per riscriverle più avanti e poi ancora riscriverle e ogni tanto rileggerle. Però a posteriori riconosco di avere raccolto dai ragazzi, dal mio vivere a scuola, una crescente paura di non essere accettati, un rischio epocale di esclusione, una specie di cattivo segno dei tempi. Viviamo un’epoca “giudicante”. Tutti spettatori davanti a uno schermo, seduti, pronti a giudicare secondo canoni rigidi e costruiti. Non è facile vivere così. Rebecca lo racconta. “La vita accanto” è stato scritto in molto tempo, a pezzi, un pensiero alla volta. Proprio niente a che vedere con la scrittura vorticosa di quando si è bambini.

 

3) Qual è stato il percorso che ti ha portato fino al Calvino?

Nel 2010 ho compiuto 50 anni. Un piccolo trauma. E mi è venuto il pensiero di provare a vedere se a qualcuno potesse interessare quel che scrivevo. Forse un bisogno di conferma di valere, chissà. O forse ho superato la paura del giudizio. Sulla scrittura, voglio dire. Ho scritto molto prima. Racconti, qualche romanzo tutto intero, poesie. Ma non avevo cercato la pubblicazione. Difficile dire che cosa spinge davvero a esporsi attraverso la scrittura. In realtà io vivevo già da anni una piccola esposizione, ho lavorato per Il Regno, ho fatto la redattrice di un settimanale, ma si trattava di scrittura di servizio. La narrazione espone molto di più. È una consegna di sé al romanzo e non per il banale motivo che sempre quel che si racconta passa attraverso la propria vita e ne conserva la traccia, ma anche perché tutto proprio tutto è nostro in un libro, ogni parola scelta, ogni nome, ogni luogo. È uno squadernamento anche quando ci si nasconde programmaticamente.

 

4) Come hai vissuto la partecipazione al Calvino?

In realtà avevo un mare di pensieri. Io non credo a chi racconta di avere inviato un manoscritto e di averlo poi dimenticato. È proprio una piccola o grande consegna di sé. Io non pensavo di essere segnalata né di vincere ma speravo. La premiazione è stato un momento intenso. Non conoscevo assolutamente nessuno, ero arrivata a Torino da sola, non avevo amici né conoscenti. È stato facile essere accolta. In realtà i “lettori” e giudici del Premio costituiscono un gruppo molto eterogeneo ma capace di rapporti di amicizia vera. Da allora non ci siamo persi più. E ho relazioni di amicizia e affetto anche con i finalisti di quell’anno: Antonio Bortoluzzi e Pierpaolo Vettori ad esempio. Che poi hanno pubblicato e continuato a scrivere.

 

5) A seguito della vittoria è arrivata la pubblicazione; quale effetto ha avuto su di te l’ingresso nel mondo dell’editoria in veste di scrittrice?

L’arrivo in Einaudi è stato un vortice. Non sapevo che cosa aspettarmi, non avevo nessuna esperienza di case editrici e pubblicazioni. Non conoscevo nessuno. Einaudi Stile Libero ha creduto molto nel libro, un bel lavoro di squadra. Ho imparato a mettere in fila periodicamente le cose importanti, a riassumermele, perché l’esposizione improvvisa può diventare pericolosa, far perdere l’equilibrio. L’età mi ha aiutata.

 

6) Dopo l’esordio è cambiato il tuo rapporto con la scrittura?

Un poco sì è cambiato. È cresciuto il peso di uno sguardo esterno sulla scrittura. Scrivere sapendo di non pubblicare ci lascia più liberi. Poi arrivano le scadenze, i tempi da rispettare. Il fatto di non essere una scrittrice “seriale”, si può dir così? Cioè di scrivere storie molto diverse fra loro, dà un senso di esordio ad ogni uscita. Un doversi chiedere: e questo romanzo come sarà accolto? C’è da dire che intanto erano cambiate altre cose nella mia vita. Nei mesi del Calvino ho anche vinto il concorso per fare la preside, in Trentino. Un’esperienza bellissima in una regione che ha uno straordinario reale attento interesse per la scuola e che è un laboratorio continuo di sperimentazione didattica e anche organizzativa. La mia vita ha avuto una accelerazione impensata.

 

7) Di recente il tuo romanzo La vita accanto è diventato uno spettacolo teatrale. Com’è avvenuto il passaggio dalla pagina scritta al palcoscenico?

Quando un libro diventa teatro cambia natura, diventa un’altra cosa. Il romanzo è diventato un monologo. È stato riscritto dalla poetessa Maura Del Serra, quindi una scrittura d’artista, straordinaria. Un monologo vive completamente della identificazione con l’attrice che lo interpreta. Monica Menchi, che lo porta in teatro, ha una personalità fortissima, fin dalla prima battuta molto più potente rispetto alla voce di Rebecca nel libro. È giusto così. Io non ho avuto alcuna parte nella trascrizione teatrale e anche questo è giusto che sia così.

 

8) È vero che hai una passione particolare per il colore azzurro?

Sissì. Amo l’azzurro e ho proprio chiesto che ci sia nelle copertine. Ma sono stata sempre fortunata perché tutti gli editori, Einaudi per i due romanzi, Rizzoli per il giallo per ragazzi, e ora Guanda, mi hanno sempre coinvolta nella scelta delle copertine. La finestra de La vita accanto, con la tenda che vola nell’azzurro, è assolutamente perfetta. È tutta di Riccardo Falcinelli, splendido creatore di quasi tutte le copertine di Einaudi Stile Libero. È completamente sua anche quella di Ma come tu resisti, vita (2013). Io ho solo chiesto che fosse la coda di un pavone bianco, simbolo di resurrezione, perché il libro racconta le mille resurrezioni di cui possiamo diventare capaci anche quando non lo sappiamo. E lui ha inventato questa coda che è anche un’esplosione, di vita appunto. Per Il tempo è un dio breve (2012) ho proposto un dipinto di un pittore giapponese che amo, Yamaguchi Kayo. Ed è lo stesso della copertina del prossimo libro. L’unica senza azzurro, ma era ben tempo di cambiare, altrimenti il lettore pensa che sia sempre lo stesso libro!

 

9) Il successo letterario ha in qualche modo cambiato la tua vita?

Tutto molto veloce, ecco. Ho difeso bene la mia vita dalla eccessiva esposizione, ho viaggiato molto con il libro evitando per quanto possibile le occasioni di esposizione impropria. Ma è davvero oggi tutto troppo compresso.

 

10) A gennaio [2016] sarai in libreria con Una storia quasi perfetta. Qual è il tema del tuo nuovo romanzo? E dove potremo incontrarti?

È una storia di seduzione. C’è una donna, l’incanto della sua arte, lei disegna, e soprattutto della sua vita, rinata già una volta. C’è un uomo, presente dall’inizio alla fine. Il romanzo è quasi un duetto. Torna Vicenza, come nel primo romanzo, luoghi nuovi della città, che continua a non essere nominata. Le prime presentazioni saranno a Vicenza, Roma, Milano. È bello accompagnare i propri romanzi, incontrare i lettori e farsi restituire da loro la storia, diventata diversa attraverso la loro vita.