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Valerio Callieri

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – febbraio 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

Valerio Callieri è un tipo che rimane impresso: il sorriso un po’ sospeso, lo sguardo diretto e l’espressione oscillante tra lo svagato e l’attento che porta a chiedersi cosa stia vedendo mentre guarda il mondo.
Classe 1980, nato e cresciuto a Roma e dintorni, ha deciso di assecondare la sua vocazione di scrittore durante un ricovero ospedaliero che lo ha costretto a fermarsi e a fare i conti con la sua passione di sempre. Quando non scrive, legge; quando non legge, corre. Si definisce “la banalità fatta persona”, ma lui è tutto fuorché banale e il suo esordio ne è la dimostrazione più lampante.
Vincitore (in ex aequo con Cristian Mannu) della 28° edizione del Premio Italo Calvino, è arrivato per direttissima alla Feltrinelli, che lo scorso 12 gennaio [2017] ha pubblicato il suo Teorema dell’incompletezza. L’opera prima di Valerio è un romanzo teso e toccante, in bilico tra giallo e noir, intriso di storia, sostenuto da una raffinata immaginazione, ricco di sfumature che compongono (e ri-compongono) uno dei volti più sofferti dell’Italia appena passata e, speriamo, tutt’altro che dimenticata.

 

1) La storia che ci racconti è incentrata su due fratelli e sul loro rapporto. Due figure diverse nate dalla medesima radice, due personaggi che potremmo definire “archetipi”.

Di uno di loro non veniamo mai a sapere il nome: è il narratore. L’altro invece è Tito. Sono figli della stessa assenza. Sia il narratore che Tito non sono fieri della vita del padre, un barista che governava con le risate un pezzo di periferia romana, una persona apparentemente innocua e senza desideri. Entrambi però ne hanno ereditato alcune caratteristiche. I due fratelli si ritrovano dopo cinque anni di silenzio proprio grazie a un indizio che riguarda l’omicidio del padre. Diventerà un’occasione per scoprirne il passato, ma soprattutto un percorso emotivo. Come si supera il dolore? Un lutto? Il narratore ha ereditato un’allegria che ha tinto di malinconia. Un’allegria con cui cerca di allontanarsi dalle questioni “pesanti” della vita, etiche, politiche, metafisiche. Una barriera ironica, diciamo così, con cui mantiene la sua indolenza. Tito invece è figlio di una forza strana (nascosta negli anni sconosciuti del padre) che diventa una fede ferrea. Un poliziotto con una fede senza pietà, senza colpa e senza peccato. Una fede lontana dalle religioni a cui non crede. Adesso mi viene in mente, parlando di archetipi, che è un guerriero che vuole diventare re. Un senex bianco: crede nella lealtà, nel futuro e nella responsabilità. Non concepisce la debolezza e forse ha troppa fiducia in se stesso. I due fratelli entreranno spesso in collisione ma, ecco, almeno per me è veramente difficile parteggiare per l’uno o per l’altro e spero che lo sia anche per l’eventuale lettore. La storia li porterà in territori che non avevano mai desiderato percorrere e che rivelerà la loro natura profonda.

 

2) Come hai costruito il protagonista-narratore?

È fondato su una ferita di malinconia. La morte del padre lo ha privato della vitalità e dello sguardo verso il futuro. Lui non lo sa, ma è veramente un Telemaco in attesa di un ritorno impossibile. Anche se poi, in qualche maniera, dalla riva del mare qualcuno arriverà: il fantasma paterno. Il protagonista è quasi sempre ironico, un atteggiamento che gli permette di evitare il confronto con un possibile amore, Elena, e con ogni impegno reale. Ci sono delle “cavallette” nel suo cervello che amministrano la sua indolenza e con le quali ha imparato a convivere. Il problema più grande è che gli eventi lo metteranno a contatto con dinamiche quali il Conflitto, l’Amore, la Vendetta, lo Scavo Interiore. La Storia italiana lo chiamerà con la voce del fantasma e gli spalancherà gli occhi sulla fabbrica torinese degli anni ’60, le lotte operaie, le stragi di stato e il mistero del Memoriale Moro. Così come il fratello Tito lo sfiderà continuamente sui fatti di Bolzaneto e del G8 di Genova. Il protagonista capirà che non può essere un eroe da tragedia greca, come Oreste o Edipo, ma dovrà comunque scegliere e accettare l’imperfezione (l’incompletezza del titolo, appunto) e superare la sua “comoda” malinconia.

 

3) Le vicende narrate nel tuo romanzo ci portano tra le strade di Roma, in particolare a Centocelle. Cosa rappresentano per te questi luoghi?

Centocelle per me è innanzitutto un luogo dell’infanzia, però la scelta di ambientare qui la storia è dovuta alle sue caratteristiche contraddittorie. Da una parte è stato un serbatoio periferico di militanti dei movimenti degli anni ’70 e della lotta armata. Dall’altra è anche il luogo di quella forza di cui scrive Pasolini ne Le ceneri di Gramsci: “attratto da una vita proletaria a te anteriore, è per me religione la sua allegria, non la millenaria sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza”. Un luogo in cui convivono la militanza severa e l’ancestrale allegria, la connivenza con il terrorismo e il qualunquismo spensierato, per banalizzare. Un luogo che esprime la ferocia e l’ironia della Storia.

 

4) Tutto il racconto ruota intorno alla ricerca che il protagonista, assieme al fratello, mette in moto per ricostruire la storia segreta del padre, scoprendo che forse non era l’uomo che loro credevano.

Sì, insieme al fratello Tito cercano di ricomporre i pezzi della vita del padre prima della loro nascita. Tito ha delle esigenze professionali, da poliziotto, il protagonista viene invece “investito” e spinto in questa missione dal padre. Al di là degli obiettivi della storia, quello che secondo me è interessante è il tema dell’eredità emotiva. Entrambi accettano la loro provenienza e sono costretti, in maniera differente, a farci i conti senza più rifiutarla con il consueto istinto adolescenziale. Questa è stata anche una porta d’accesso per me. Una scoperta emotiva durante la scrittura.

 

5) Come “controparte” di questi due caratteri maschili hai creato due donne, che vivono e si muovono in un alone di mistero. Chi sono Elena e Clelia?

Sono due figure che spero di essere riuscito a delineare sfuggendo agli stereotipi sul femminile che si attivano spesso nelle narrazioni più disparate. Non sono ammaliatrici, né angeli del focolare e neanche uomini con la “a” finale (qui si apre il “caso Andrea”, ma lasciamo stare…). Elena è un’amica del protagonista, un matematico che disvela le emozioni con roba che dovrebbe essere gelata e cerebrale come i teoremi della logica. Elena è fondata su una sofferenza di fondo a cui gli uomini intorno non hanno accesso e che lei non rivela. È un personaggio che intuisce e rende semplice la complessità, senza mai compiacersi di questa sua abilità. Clelia invece è un mistero legato al mondo del padre. Lei ha un obiettivo molto più definito nella storia e porta addosso i segni di conflitti politici laceranti. Porta con sé la morte e il tradimento e vuole provare a cambiare il suo passato, per quanto possibile. Entrambe sono figure centrali, in grado di prendere le redini della storia senza aspettare che qualcuno conceda loro il permesso. Due donne autonome in maniera completamente diversa.

 

6) Per quale motivo hai scelto di rievocare questo particolare volto dell’Italia?

Egoisticamente parlando, ti dico che ho scelto di raccontare questo periodo perché sono un grande appassionato della storia degli ultimi sessant’anni. Poi credo che ci sia l’esigenza di continuare a riscrivere la nostra storia all’interno di filoni che non siano solo quelli del noir con sfondo complottista e quindi consolatorio, oppure con uno sguardo lontano e freddo in cui il lettore progressista riesca subito a individuare il Bene e il Male grazie all’apparato didascalico fornito dall’autore. Siamo (stati) abitati da forze storiche potenti e tragiche. Ognuna portatrice di ragioni che hanno coinvolto migliaia di persone. Vogliamo parlare del fascismo, del brigatismo e dello stragismo di stato? Dobbiamo essere in grado di dare voce realmente a questi spigoli appuntiti. Dobbiamo provare ad abitare territori estremamente scomodi. Secondo me, la letteratura è il solo luogo in cui possiamo farlo. “Dobbiamo” farlo, perché è l’unica possibilità di comprendere posizioni diverse che, guarda caso, a un certo punto ritornano nella Storia a presentarti lo scontrino, come possiamo vedere un po’ ovunque oggi. E dubito che la mostrificazione di queste forze storiche possa essere una via di uscita.

 

7) Se tu dovessi etichettare questo romanzo definendolo per genere, in quale scaffale della libreria lo metteresti?

Non lo so… Credo che all’interno ci siano gli stilemi e le tecniche del romanzo popolare e di vari generi. Al noir, al giallo e allo storico, forse aggiungerei il fantasy. Non so se esiste uno scaffale specifico. Però, ecco, mentre ti rispondo penso che alcuni dei romanzi che ho amato di più (come Amatissima di Toni Morrison o Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov) e che riescono a descrivere in maniera ineccepibile e profonda lo schiavismo dei neri negli Stati Uniti e la burocrazia sovietica, lo fanno utilizzando elementi sovrannaturali, magici, con una forza narrativa che il realismo sociale, per capirci, non riesce a raggiungere. Non è troppo importante capire quale sia il genere, ma cosa si vuole raccontare. Bisogna farlo con ogni mezzo necessario e adatto a raggiungere la verità profonda (che non è la semplice realtà).

 

8) Parlaci della tua esperienza con la Scuola Holden.

Tanto per cominciare, ci sono andato a causa di una polmonite. Stavo facendo tutt’altro lavoro, un lavoro attinente al mio ramo di studi che è la sociologia della comunicazione. Lavoravo all’interno di un’azienda che studiava la comunicazione di altre aziende e dei competitor, curandone l’immagine sociale, diciamo così. Non era male. Però, quando mi sono ammalato, guardando il soffitto grigiastro del policlinico Umberto I per una decina di giorni, ho capito che se non mi fossi buttato a capofitto nel mio desiderio non ce l’avrei mai fatta, o comunque avrei finito per non provarci nemmeno e sarei diventato un burbero signore che ripete sempre “se avessi potuto”. Quindi la Holden mi sembrò la soluzione ottimale (avevo anche piani di riserva, come cercare un lavoro non cognitivo e nel frattempo frequentare corsi di scrittura nel fine settimana). Visto che mi hanno pure concesso la borsa di studio, ho scelto di andarci. Così ho imparato un atteggiamento “alla Holden” e credo di capirlo adesso più di prima. Vedere persone in carne e ossa che scrivono per mestiere e ti mostrano alcuni strumenti del loro lavoro diventa la prova che si può fare. A costo di tanti sacrifici, solitudine e perseveranza, ma si può fare. Fornisce anche un’armatura contro il mondo di fuori, che tende sempre a svalutare la letteratura o a vederla come rifugio di bohemien che osservano la luna cercando l’ispirazione.

 

9) E poi, il Premio Italo Calvino.

Senza esagerare: a me il Calvino ha cambiato la vita. Perché poi uno si scorda un sacco di cose, tipo l’incredibile e silenzioso malessere che ti porti dentro mentre scrivi e scrivi e riprovi a scrivere senza nessuna legittimazione esterna. Un malessere che non riveli mai pienamente perché, almeno nel mio contesto di riferimento, fa un po’ ridere: cioè, tu sei preoccupato perché nessuno ti fa la carezza di riconoscimento mentre “là fuori” non c’è uno straccio di lavoro e la gente muore per malattie infami? Ovviamente banalizzo un po’, per far capire cosa intendo. Nel momento in cui il più importante concorso nazionale per inediti ti premia significa qualcosa di enorme, perché non c’è nessun interesse lobbistico a far vincere nessuno, c’è un comitato di sconosciuti che giudica altrettanti sconosciuti. E dai risultati letterari che mi hanno preceduto sembra che questo comitato sappia tremendamente cosa sta facendo. Mi fermo qui, perché finirei con il tessere lodi stucchevoli che potrebbero suscitare l’effetto contrario a quello voluto.

 

10) Ormai hai imboccato il percorso di scrittore: come lo vivi e cosa ti aspetti dal futuro?
 
È tutto molto forte: l’improvvisa apparizione del libro sugli scaffali delle librerie, le presentazioni, le prime recensioni. Cosa mi aspetto non lo so bene, spero sia l’inizio di un bel percorso. Il rapporto con Feltrinelli è stato inaspettato; avevo paura di trovarmi di fronte un’azienda grande e un po’ anonima, invece è stato come essere accolto all’interno di una famiglia. Quando sono andato a Milano mi hanno presentato tutti, in ogni settore. Persino Carlo Feltrinelli ha trovato il tempo di fare una chiacchierata con me… Insomma, che dire? Sono felice e frastornato. E la foto che ho scelto di mandarvi (al posto di quella del mio volume cartaceo) testimonia appunto le cose incredibili che posso vivere grazie a questo romanzo, in primis i rapporti inaspettati con i lettori. Mi è stata spedita da un reporter che sta seguendo le Farc in Colombia nel loro processo di smilitarizzazione. C’è dentro un miscuglio di elementi contrastanti: le armi del conflitto, la mano che impugna l’e-reader, il brand di una corporation, gli alberi della giungla e, spero, la magia della terra di Garcia Marquez…
Sono frastornato, l’ho già detto?

 


 

Claudia Cautillo

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – giugno 2017

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Claudia Cautillo, nata e cresciuta a Roma, è di sicuro una donna sorprendente; minuta, elegante, sorridente. A vederla così, ci si aspetterebbe qualcosa di “politically correct”, invece lei ti guarda dritto negli occhi e ti mette in mano un libro spiazzante come Il fuoco nudo.
A conoscerla meglio, si capisce che invece c’era da aspettarselo. In fondo ha avuto il coraggio di fare qualcosa che in molti sognano di fare, me compresa: di punto in bianco se n’è andata a Las Vegas e si è sposata con il suo compagno senza dir nulla a nessuno fino a cose fatte. Da applauso.
Perciò ci sta che una donna come lei tiri fuori un romanzo “scorretto”, controverso e di grande impatto senza perder tempo a preoccuparsi troppo del polverone che può sollevare. Claudia “ha osato” trattare il tema scottante della pedofilia con un approccio nuovo, coraggioso e originale. Si può essere d’accordo con la sua visione della cosa oppure no, legittime entrambe le posizioni; ma sicuramente il suo è un libro che fa discutere e fa riflettere e che, proprio per questo, va letto e affrontato, perché è un libro che pone domande scomode, inquietanti, capaci di squarciare il pesante velo dell’indicibile.
1) Partiamo dalle parole: definizione di “pedofilia”, di “passione”, di “relazione”, secondo il dizionario e secondo te.
Scientificamente, la definizione della pedofilia è quella di una devianza che implica attività sessuali con bambini prepuberi. Ma dal mio punto di vista è un tratto umano, per quanto aberrante, che ci apre territori sconosciuti della psiche e dell’anima, affascinanti e misteriosi, attraenti e respingenti. Infatti il mio libro racconta la storia di una passione, e cosa sono le passioni se non quegli stati di emozione violenta, in contrasto con la razionalità, capaci di turbare l’equilibrio psichico e la capacità di controllo? Ecco il perché del titolo Il fuoco nudo: una passione che arde e consuma mettendoci a nudo. Tant’è che il termine “passione”, dal latino “pati” cioè patire, indica una condizione di passività, di schiavitù. Proprio come i due protagonisti, il sacerdote e la bambina Violante, e la loro complessa relazione, malsana e contorta ma che attrae proprio perché ci conduce nell’universo inesplorato del rimosso, della colpa, di quella parte negata e oscura che tuttavia è presente in ciascuno di noi.

 

2) Perciò chi sono don Marco e Violante, i due protagonisti del romanzo?

Il romanzo si articola a due voci che si alternano, quella di don Marco e di Violante, per uno sguardo dal ponte che dia ai protagonisti lo stesso peso ponderale. Lui è un giovane sacerdote cresciuto a cavallo degli anni ’70 e ’80, ma la sua ricerca di riscatto dal decadentismo generazionale fin de siècle si infrange a causa della passione per una bambina, che lo mette in crisi come religioso e come uomo. Lei è una donna adulta che rievoca la sua infanzia abusata e al contempo i suoi tratti di conturbante, consenziente “Lolita” persa in un’incantata “isola che non c’è” di giochi proibiti nascosti agli occhi degli adulti.

 

3) Nel tuo romanzo Violante si dimostra in qualche modo “consenziente”, all’interno della dinamica adulto-bambino. Secondo te può una bambina, all’interno di una relazione pedofila, essere realmente consenziente?

La tradizione letteraria è ricca di riferimenti pedofili, basti citare la Lolita di Nabokov, la serie delle Claudine di Colette o l’Alice nel paese delle meraviglie del reverendo Carroll. Anche il personaggio di Violante è ambiguo e ci offre una lettura dell’erotismo infantile che può essere considerata spiazzante. Ma l’aspetto più inquietante della pedofilia è proprio l’incapacità, per il bambino, di differenziarsi dall’abuso dandone un giudizio netto. Non è in grado di “uccidere” la figura paterna dell’adulto, che tende paradossalmente a giustificare e proteggere. Infatti Violante proietta su don Marco l’acerba attrazione che nutre per i divi della musica e del cinema, confondendone la figura tra quella di padre e quella di fidanzato. Gli iniziali giochi erotici tra i due, che nel corso della relazione culmineranno in rapporti sessuali completi, vedono la piccola Violante divertita e affascinata da quell’universo di complicità nascoste e segreti proibiti, non meno che dall’oscuro potere che sente di esercitare su quell’uomo tanto più grande di lei.

 

4) Il protagonista maschile: come succede, secondo la tua personale opinione, che un uomo possa nutrire un certo tipo di sentimenti per una bambina?

Don Marco è forse, tra i due, il personaggio che paga il prezzo più alto, cristallizzando la sua passione morbosa nell’idealizzazione di un passato che non può tornare. Ai suoi occhi Violante-bambina incarna e riassume, come per il miracolo di una serie di sorprendenti coincidenze, ciò che è precluso alla sua coscienza razionale, specchio delle profondità nascoste di se stesso e lucido testimone della sua debolezza. Incapace di superare le proprie pulsioni, l’inevitabile approdo è la deriva pedofila, sospeso in un limbo in cui la combatte strenuamente tanto quanto ne cerca un’impossibile e contraddittoria giustificazione.

 

5) Come cambia la relazione tra i protagonisti quando si incontrano dopo tanti anni e Violante è ormai una donna adulta?

Quando don Marco e Violante si incontrano, dopo molti anni nei quali non hanno più saputo niente l’uno dell’altra, lei è ormai una giovane donna e non più una bambina. Vengono ripresi entrambi nella spirale di una passione sado-masochista, attratti dal richiamo di un passato con cui credevano di aver definitivamente chiuso i conti, trovandosi senza preavviso di fronte ad un bivio esistenziale che esige delle risposte. È qui che la storia assume una svolta imprevista, una virata di coda che ridiscute le posizioni di vittima e carnefice e pone al lettore nuove domande.

 

6) Perché hai voluto raccontare questa storia?

Sono attratta dai temi forti, da ciò che è capace di emozionarmi nel profondo. Ma soprattutto amo le sfide, perciò ho voluto parlare di un argomento spinoso e tabù, che spesso si preferisce non affrontare per non incorrere in critiche o fraintendimenti. Oppure, quando se ne parla, lo si fa solo in modo pornografico e “sensazionalista”. Le stesse case editrici sono reticenti a pubblicare argomenti di questo tipo, preoccupate nella loro prudenza di alienarsi le simpatie del pubblico. Io invece non nutro questa diffidenza verso i lettori, al contrario penso che oggi ci sia una grande voglia di storie che scuotano, la gente è stufa di leggere libri rassicuranti scritti con l’intenzione di non pestare i calli a nessuno. In neanche due mesi il Premio Calvino mi ha trovato un editore, Mario Tricarico delle Edizioni A Nordest. Ho ricevuto diverse recensioni molto favorevoli, un articolo su “Il Tempo” e ne ho parlato a “La vita in diretta”. Ma la soddisfazione maggiore mi viene dai commenti entusiasti dei “non addetti ai lavori”. Non professori, critici letterari o intellettuali, ma gente comune a cui Il fuoco nudo è piaciuto tantissimo.

 

7) Tu hai una bella carriera di successi alle spalle, in campo letterario. Poi, alla fine, il Calvino. Raccontaci l’esperienza con il Premio torinese.

Avevo già partecipato a diversi premi letterari per scritti inediti, arrivando finalista o vincendo, come ad esempio “Giallo Mondadori”, “Io Scrittore” del Gruppo Editoriale Mauri-Spagnol, lo “Scriba Festival” di Carlo Lucarelli, “Il mio esordio” dell’Espresso e altri, ma non avevo ancora mai vissuto un’esperienza come quella del Premio Italo Calvino, che è stata bellissima ed emozionante, tanto che quasi quasi mi dispiace di aver già editato, perché non potrò partecipare una seconda volta! Ho trovato un ambiente di persone preparate e cordiali, dal presidente Mario Marchetti e i Lettori del Circolo a tutti i ragazzi dello staff, che colgo l’occasione per ringraziare. Un grazie anche a Filippo Tuena e Franco Pezzini, per la stima e la simpatia che mi hanno accordato. Consiglio a tutti gli aspiranti scrittori di partecipare, perché è un’occasione di dialogo e confronto davvero imperdibile. Il Premio Italo Calvino esiste proprio per seguire da vicino i suoi esordienti, aiutandoli nel loro percorso verso la pubblicazione.

 

8) Quindi com’è stata la tua esperienza con la pubblicazione?

Il romanzo è andato in stampa così come l’avevo scritto, senza modifiche di sorta né al testo né al titolo. All’editore è piaciuto molto, e non c’è stato bisogno di rimetterci le mani. Anche questa è stata un’avventura emozionante, perché essendo esordiente mi si è aperto un mondo nuovo nel quale non si smette mai di imparare. È stato particolarmente divertente andare in televisione, credevo mi sarei sentita in imbarazzo e invece è successo il contrario, ero a mio agio. Alla presentazione ufficiale mi ha fatto da relatore Giovanni Floris, perché aveva letto Il fuoco nudo e lo aveva trovato bellissimo. Successivamente l’ho presentato al Premio Augusta, e ora è tra i finalisti. Vedremo gli sviluppi futuri, incrocio le dita.

 

9) Quali critiche e quali apprezzamenti ti hanno colpito di più?

Non mi ero fatta piani. Non programmo il futuro ma, più semplicemente, lo aspetto. Un po’ per carattere, un po’ per scaramanzia. In ogni caso per un esordiente il difficile, nell’inesauribile marea di titoli che vengono editati ogni anno, è soprattutto quello di far sapere che il proprio libro esiste. Dunque in proporzione, rispetto alla mia capacità di essere visibile sul mercato, sono piuttosto soddisfatta. Critiche ne ho ricevute per la copertina, che alcuni ritengono troppo forte e in qualche misura fuorviante. È opera di un artista cubano molto bravo, Erik Ravelo, dalla campagna choc “Gli intoccabili” per Fabrica di Benetton sul tema dell’infanzia, tra abusi e diritti negati, e l’editore l’ha scelta perché è di grande impatto emotivo. Rappresenta un cardinale e un bambino crocifissi insieme, a denuncia della pedofilia negli ambienti della Chiesa. C’è chi dice che faccia pensare ad un feroce atteggiamento di accusa che nel romanzo in effetti è assente. In questo senso hanno ragione perché al contrario la storia è molto bilanciata, ho scelto di raccontarla in modo da lasciare massima libertà al lettore di formarsi la sua opinione, senza schieramenti esibiti o accuse manifeste. Altri invece l’hanno apprezzata, perché non solo il bambino ma anche il sacerdote è rappresentato in croce, è cioè anch’egli vittima del suo stesso abuso. È un’immagine che si apre a molti livelli di lettura.

 


 

 

Alessandro Calabrese

giovedì, 5 Aprile 2018

Alessandro Calabrese è un venticinquenne emiliano; aspetto un po’ rude, temperamento passionale, atteggiamento sorridente, voce calda e profonda. Neolaureato in Letteratura, allenatore di una squadra giovanile di rugby, bracciante al bisogno nell’azienda agricola familiare. Viene da chiedersi se ci sia qualcosa che non sappia fare.

Irrimediabilmente contaminato dalle più peccaminose sonorità Rock e Metal, ha scritto un testo intriso di musica e riflessioni, il cui stile diretto e apparentemente lineare rivela il grande pregio di saper scegliere sempre il ritmo più intonato alla narrazione.

Con il suo primo romanzo, intitolato “T-Trinz”, è arrivato dritto in finale alla 29° edizione del Premio Italo Calvino, dimostrando a se stesso che quando ci si mette sa fare bene pure lo scrittore.

 

1) Il tuo romanzo parla di ragazzi molto giovani, tra 16 e i 20 anni al massimo. Perché hai scelto di raccontare questa particolare e travagliata fascia d’età?

La ragione è semplice: – io non voglio crescere, andate a farvi fottere -. Anche se in realtà non è mai proprio così. Perché poi si cresce. E a quel punto ci si chiede se quel “Charlie che fa surf” dei Baustelle, che ora dovrebbe avere circa 24 anni, abbia continuato a farsi di MD (ecstasy, ndr) fino a oggi. Senz’altro sarebbe un eroe. Ma poi? Per sua fortuna la domanda è superflua perché lui è nato e morto in quella canzone, esattamente come i personaggi di T-Trinz nascono e muoiono tra le righe del mio racconto. La vita di un adolescente sembra più autentica della vita di un adulto, sotto ogni punto di vista. I miei personaggi non hanno mai bisogno di compromessi e, compiuta un’azione, non si voltano indietro: nessun rimpianto. Agiscono e basta. Non devono giustificare le proprie scelte o il proprio stile di vita. Fuori dagli schemi prestabiliti della società adulta non si è ciò che si mangia, non si è ciò che si fa per vivere. Si è e basta. L’adolescente, o almeno i miei adolescenti, non portano maschere, non sono determinati dalla loro storia passata o dai loro progetti futuri. Vivono nel presente e la loro personalità è autentica perché non ha sovrastrutture. Un’etica c’è, però riguarda solo il gruppo, non il mondo esterno. Quindi ci si droga, ci si mena, si spaccano le auto. Ma è il prezzo da pagare per conservare un’integrità, un’autenticità a cui, col tempo, si è costretti a rinunciare. E non a caso T-Trinz si ferma lì e non si avrà mai l’occasione di vedere il Biondo, il protagonista, in giacca e cravatta, così come non riusciremmo a immaginare un Charlie senza MDMA (ecstasy, ndr).

 

2) I tuoi personaggi si muovono in un ambiente periferico, abbastanza degradato, all’interno di famiglie un po’ storte e zoppe. Panorami tutt’altro che paradisiaci.

Si dice che esistano soltanto libri scritti bene o scritti male. Per fortuna per me non è così. L’unica distinzione che approvo è tra un libro sincero, schietto e un libro falso, agghindato. Probabilmente ho scritto una schifezza, ma ho cercato di renderla una schifezza sincera. Non c’è un’estrazione sociale che accomuna i personaggi di T-Trinz. Le storie familiari e le educazioni ricevute sono diverse ma, per quanto inventate, non sono finte. Non ho scelto queste ambientazioni e queste vite a scopo narrativo. Si sono scelte da sole, necessariamente. I miei personaggi esistono veramente, da qualche parte. O quantomeno per me sono esistiti, forse con facce diverse e storie diverse, ma reali e vivi. E così potrebbero essere per i lettori. Non c’era altra ambientazione possibile e non ci sono esagerazioni. I miei personaggi si incontrano per caso, e allo stesso modo è casuale la famiglia in cui sono nati e l’educazione che hanno ricevuto. La scelta di spaccare auto, drogarsi e frequentare posti abbandonati non c’entra niente. Il T-Trinz è un edificio abbandonato che non ha più nessuna funzione per la società, esattamente come i ragazzi che lo abitano. Non si tratta di una fuga da una vita disagiata e piena di difficoltà, e nemmeno di un rifugio che garantisca una vita più facile e spensierata. Nessuno si lamenta. Mimmo ad esempio, vittima di violenza domestica, prende a calci suo padre e se ne fotte. L’appartenenza al gruppo è una scelta. Consapevoli della loro diversità, i personaggi si rifugiano in un’autarchia fatta di fiamme, finestrini spaccati ed edifici in rovina. La differenza tra loro e il resto del mondo è che loro sono sinceri, schietti nel loro modo di essere, così come schietta e sincera è la loro storia.

 

3) Per scrivere T-Trinz ti sei ispirato a qualche modello particolare?

No, non direi. Non ci sono riferimenti importanti. L’unico vero spunto sono stati i tanti testi di canzoni Metal che ho in parte citato nei titoli dei capitoli (ogni capitolo viene introdotto da un verso di una canzone Metal, ndr). Poi sì, ho visto il grande schifo generazionale di Radiofreccia, ho letto Jack Fruciante è uscito dal gruppo e ho avuto la sfortuna di leggere Moccia. Anche se qualche paragone facile potrebbe essere suggerito da alcune somiglianze, tutto questo non c’entra niente. Se devo essere sincero, ci sono altri esempi più meritevoli a cui mi piacerebbe essere associato, ma anche in questo caso non posso parlare di veri e propri punti di riferimento. Penso a serie TV come Shameless, o altre di genere un po’ differente ma illuminanti per la caratterizzazione dei personaggi, come Romanzo Criminale. In questo senso potrei citare anche Vallanzasca, il film. Mentre sul genere di Shameless mi vengono in mente film come Ex Drummer, Trainspotting o La Haine. Poi c’è il background Rock/Metal dei film di Rob Zombie, o del più noto This must be the place. Oppure ancora mi viene da pensare ai manga come Nana, ai film di Marilyn Manson, passando per Non è un paese per vecchi e la serie The Osbournes. Non escludo nemmeno una possibile parentesi legata all’universo skater con le serie sulla vita di Bam Margera o gli episodi e i film di Jackass. Forse l’unico vero e proprio collegamento letterario lo percepisco con Gianni Celati, che ricollego immediatamente alle fotografie di Luigi Ghirri. Al massimo potrei forse sconfinare in Tondelli. Ma in realtà tutto ciò ha poco a che fare con il romanzo e sono tutti paragoni che ho fatto a posteriori. L’unica cosa che posso affermare con certezza: tanto tanto Metal.

 

4) “Sesso, droga e Rock’n’Roll”: frasi fatte a parte, i tuoi ragazzi fanno uso di sostanze e sono divisi in base alle rispettive identità musicali.

Sesso: secondo una mia personale media, si inizia tra i 12 e i 15 anni e non si finisce più. Le uniche variabili sono la qualità e la quantità.

Droga: la droga! Ma sì, dai, qualcosa come tutti tra i 13 e i 20 anni. La droga non esiste, esistono solo i drogati, ma quelli esistono anche senza droga. Non sono un drogato e non lo sono mai stato, e nemmeno i miei amici.

Rock‘n’Roll: sì, ho sempre avuto un problema con la musica. Non sono mai riuscito ad ascoltare generi diversi da quelli citati nel romanzo: Rock, Metal, Punk (qualcosa) e quasi nient’altro, escluse poche eccezioni.

Per quanto riguarda tutto il resto: la storia è inventata, ma allo stesso tempo è vera. Diciamo che non è successo niente di quello che ho raccontato nel romanzo, ma cose molto simili con le quali potrebbe venir fuori un romanzo parallelo a T-Trinz. A dire il vero, c’è uno spunto concreto preso dalla realtà che posso rivelare. Si tratta proprio del T-Trinz: nella realtà è l’ex stazione delle corriere di Modena, ora in disuso.

 

5) Il Biondo (protagonista del tuo libro) e il narratore: a un certo punto le due voci sembrano sovrapporsi fino a coincidere, ma chi è l’uno e chi è l’altro?

Io non sono il Biondo. Anche se lo fossi stato, ora non lo sarei più. E non sono nemmeno il narratore. D’altra parte nemmeno il narratore è veramente il Biondo. Diciamo che forse sono stato qualcosa di simile al Biondo fintanto che il mondo in cui vivevo era circondato dalle mura del mio T-Trinz. Il fatto è che, a prescindere da quale sia stata la mia storia o quella del narratore, la fine della storia del Biondo coincide inevitabilmente con la fine del libro. Sono convinto che di gente come il Biondo e la sua compagnia ne esista ancora. Sono gruppetti rari e hanno sempre una scadenza, ma esistono e, cazzo, hanno tutta la mia stima! Il Biondo esiste tutt’ora e probabilmente adesso sta rubando dei cellulari al Grandemilia, o incendiando qualche bidone dell’indifferenziata. Ma non sono io, non più almeno. Però ho un consiglio per lui e i suoi amici: per staccare gli “stemmini” Mercedes ci vuole un colpo secco.

 

6) Ti sei mai chiesto chi (o cosa) potrebbe essere un “Biondo” quando diventa adulto?

Secondo me non c’è futuro. La fine è già scritta e i ragazzi del T-Trinz lo sanno e lo si legge chiaro e tondo: “hai mai avuto la consapevolezza della fine? L’amaro in bocca di quando ti rendi conto che le cose in cui hai creduto stanno per essere cancellate per sempre? Loro sì, i Thanatos sì, ma tu e io no. E mai capiremo, mai saremo come sono loro in questo momento”. Chiedersi cosa ne sarà del Biondo è una domanda che può riguardare il narratore, ma la verità è che alla fine il Biondo muore e rimane un involucro vuoto. Oppure il Biondo vive e allora non saprei raccontare la sua storia, perché non sarebbe una storia sincera.

 

7) Come hai affrontato il lavoro della scrittura e perché alla fine hai deciso di farti “giudicare” dal Premio Italo Calvino?

Con un minimo di metodo ho buttato giù una scaletta dell’intreccio e in sei giorni avevo un manoscritto grezzo tra le mani. Illeggibile forse, ma la sostanza era quella. Il grosso del lavoro è stato fatto successivamente. Ho riscritto il finale due o tre volte e ho smussato un po’ il linguaggio, che in alcuni punti risultava troppo dialettale o gergale. Devo dire che non ho avuto grosse difficoltà. Potendo contare sull’esperienza di alcuni amici, nel giro di un mese tutto era sistemato e pronto per essere spedito. Si tratta del mio primo romanzo compiuto, perché più spesso ho l’abitudine di lasciare a metà i miei lavori. Non si tratta di mancanza di voglia, ma di una serrata autocritica. Questo racconto invece è venuto da sé, avevo materiale autobiografico e ho cercato di utilizzare un linguaggio che si prestasse ai dialoghi e all’immediatezza. Non ho nemmeno provato a pubblicarlo per conto mio. La mia carriera universitaria punta in un’altra direzione, così ho pensato di inviarlo al PIC per avere un riscontro e la risposta alla domanda: “potrei mai funzionare nelle vesti di scrittore?” La risposta è stata un gigantesco: “MAH, POTREBBE ESSERE”.

 

8) La tua esperienza con il Premio Italo Calvino e il percorso verso la pubblicazione.

La selezione e la scheda di lettura sono state davvero utili per fare il punto della situazione. Ho ottenuto un risultato discreto. Allo stesso tempo ho avuto modo di riflettere sulle mie mancanze, anche in confronto alle opere degli altri concorrenti. Quando mi sono reso conto dell’impegno e della costanza con cui i primi classificati hanno lavorato ai loro libri, non ho potuto che pensare: “Merda, ma cosa ci sto a fare io qui, che ho lavorato un solo mese?”. La risposta che mi sono dato è che una storia può essere buona anche se scritta in breve tempo, però manca senz’altro il valore aggiunto della perseveranza, che non si può non notare in lavori come quelli di Martina Prosperi e Cesare Sinatti. Dopo la premiazione stato messo in contatto con alcuni editori (ringrazio tutto lo staff del PIC per questo), ma ancora non ho avuto riscontri. Ho trovato una strada alternativa e interessante per conto mio, ma ancora provvisoria. Si tratta della neonata casa editrice online Il Dondolo, creata su iniziativa delle biblioteche e del Comune di Modena, che ha pubblicato gratuitamente il mio romanzo e sarà operativa nei prossimi giorni (potete trovare qui l’e-book di T-Trinz).

 

9) Quale destino vorresti per questo libro?

Questo libro non si porta dietro né pretese letterarie né interessi pecuniari. L’ho scritto e basta. L’unico desiderio che ho è che venga letto, o almeno sfogliato. Sarebbe bello se qualche fumettista lo leggesse e lo illustrasse per farne una graphic novel, o magari se qualche regista in erba ne volesse fare un pessimo cortometraggio. La resa grafica potrebbe funzionare, a mio avviso. Poi potrà piacere o non piacere, poco importa. L’unico giudizio che avevo a cuore nel momento della scrittura era quello dei vecchi amici del mio T-Trinz. Alla fine non tutti l’hanno letto, ma alcuni sì e mi pare che l’abbiano apprezzato. Questa è la sola soddisfazione che cercavo realmente. Per il resto, cavalco la mia piccola onda finché dura e poi, quando ci sarà tempo, passerò al prossimo romanzo.


 

Daniel Di Schüler

giovedì, 5 Aprile 2018

Intervista di Ella May – agosto 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Daniel Di Schüler è nato nel 1964 in provincia di Como. La sua storia personale, fatta di viaggi e soggiorni all’estero, è un vero e proprio romanzo, ricco di personaggi e di luoghi. Attualmente vive in Galizia, vicino a Finisterre, in un piccolo villaggio che conta circa duecento anime. Qui si dedica alle sue molte passioni che vanno dalla pittura alla scultura, dalla scrittura alla navigazione. Entrato tra i finalisti della 28° edizione del Premio Italo Calvino, il suo manoscritto si è aggiudicato la menzione speciale della giuria. Il 12 maggio [2016] è stato pubblicato dalla Baldini&Castoldi con il titolo di Un’Odissea minuta, ed è stato presentato al grande pubblico durante il Salone del Libro di Torino 2016.

Con il suo romanzo d’esordio, Daniel Di Schüler ha saputo creare un’opera inusuale, complessa e insieme scorrevole, densa di richiami e di significati, capace di svolgersi passo dopo passo grazie alla collaborazione del lettore che può così scoprire – o riscoprire – l’intenso piacere della lettura attiva.

 

1) Un’Odissea minuta è un testo talmente particolare che chiederti quali siano i tuoi autori di riferimento e quali letture ti abbiano ispirato diventa un primo step quasi obbligato.

I miei autori di riferimento? Certamente il sacro trio: Joyce, Proust e Kafka. Amo poi Musil, Joseph Roth e Svevo. Cito loro e mi pento di non aver nominato Thomas Mann, mi rendo conto di dover perlomeno accennare a Céline e di non poter dimenticare il genio di Karl Kraus (la coralità de Gli ultimi giorni dell’umanità è tra gli obiettivi che prima o poi vorrei raggiungere). Sono un europeo figlio del ‘900, insomma. E sono un italiano. Amo Calvino e Buzzati. Considero Mario Rigoni Stern e Primo Levi due grandissimi. Amo la memorialistica più della finzione: quando ascolto chi è sopravvissuto sto molto attento per poter rinarrare. E amo Fenoglio, forse più di tutti, forse perché nelle sue pagine trovo tracce di quasi tutti, forse perché mi è tanto facile immedesimarmi in lui, se non altro per il suo rapporto con l’inglese così simile al mio. Troppi nomi? In realtà dovrei citarne ancora altri, di sommi e di autori che non tutti considerano tali. Un modo per dire che, prima di diventare uno scrittore, sono stato un lettore. Tutto quel che ho letto fa parte di me e della mia scrittura.

 

2) Tra i vari elementi che rendono insolito il tuo libro c’è senza dubbio la struttura: scritto in forma di romanzo per una ventina di pagine iniziali e poi sviluppato attraverso circa seicento pagine di note. Perché hai scelto questo tipo di costruzione?

Senza originalità, volevo raccontare la storia di un uomo qualunque; di uno Zeno o di un Ulrich dei nostri giorni. Non volevo però che il mio protagonista entrasse in una casa borghese per chiedere la mano di una ragazza e ne uscisse fidanzato come un’altra. Volevo narrare di un Fallmerayer capo di una stazione dove non avvengono incidenti. Come farlo? Come non annoiare il lettore? Come renderlo partecipe di una vita in cui non accade nulla di notevole e che non offre appigli per una trama avvincente? Picasso diceva che nell’arte non si cerca, ma si trova. Io ho trovato la risposta che cercavo scrivendo tutt’altro, mettendomi a sviluppare l’apparato di note necessario a un mio lavoro sulla Prima Guerra Mondiale. Dallo scrivere quelle note al capire che, in modo del tutto analogo, avrei potuto raccontare i mille ricordi di cui è fatta anche la più scialba delle biografie, il passo è stato brevissimo.

 

3) Da dove viene la storia di Alberto Cappagalli e perché hai sentito il bisogno di raccontarla?

La storia viene dagli anni spesi come impiegato nel settore industriale, facendo più o meno lo stesso lavoro del ragionier Cappagalli. Perché raccontarla? Perché i nostri figli e nipoti guarderanno con orrore alla nostra barbarie e si chiederanno come abbiamo potuto. Tra le opere che mi hanno influenzato in questo senso, un posto d’onore tocca a La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, di Hannah Arendt. Ecco: Alberto Cappagalli, con il suo razzismo “bonario” e con la sua misoginia qualunquista non è un Eichmann nostrano, ma è la materia prima di cui gli Eichmann sono fatti. È uno come tanti, come tutti o quasi, tanto vittima quanto carnefice di una società che ha perso la bussola. Raccontare la sua storia ha richiesto solo pochi mesi di scrittura, però ci sono voluti anni di riflessione per completare il lavoro; io scrivo velocemente ma a strappi, tra punti morti che mi tengono bloccato a volte molto a lungo. Anni di riflessione che poi hanno portato alla stesura di diagrammi sempre più complessi, necessari a tenere sotto controllo il protagonista e tutto il suo mondo. Insomma, ho costruito diversi “schemi Linati dei poveri”, o dei miserabili.

 

4) Un’Odissea minuta è un’opera a due voci, recitata in tre tempi diversi: la voce protagonista (quella di Alberto Cappagalli) enuncia le venti pagine-romanzo d’apertura e la prima serie di note, mentre l’altra (quella di Daniele Scolari) fa da controcanto nella seconda serie di note. Chi sono e cosa rappresentano Alberto e Daniele?

Di Alberto ho già detto quasi tutto. È viscerale e irragionevole, banale e sciatto. È il peggior qualunquista, l’eterno sommerso, lo sconfitto di sempre. È tutto questo o rischierebbe d’esserlo se non trovasse la forza di salvarsi, se i vaghi ricordi di antichi valori non gli consentissero di arrivare, proprio alla fine del libro, alla parola chiave che è la vera e propria essenza delle civiltà europea. Daniele, suo cognato, è un po’ il Dedalus della situazione. Cerca di portare la luce della ragione nelle tenebre di Alberto, di mettere ordine nei suoi pensieri. Con le sue note alle note, inoltre, proietta il libro nel tempo; lo renderà leggibile – e spero godibile – anche quando i protagonisti della nostra epoca saranno, appunto, delle piccole note a piè di pagina nei libri di storia. (Sì, ho una visione altissima della mia opera. Chi professa umiltà e pretende che altri spendano del denaro per leggere quel che scrive è a dir poco un bigotto.)

 

5) Un’altra cosa che salta subito all’occhio è il “gioco dei nomi”: dai personaggi alle località geografiche in cui si muovono, ogni nome che hai scelto è denso di richiami e di significati.

Il gioco dei nomi è, prima di tutto, un gioco. Un modo per divertirmi e divertire il lettore, che magari sorriderà scoprendo come Rosa e il nostro ragioniere si siano sposati a Figliate Appiano. Ovviamente ne ho approfittato anche per far passare altri messaggi. Non è certo casuale che il ragionier Cappagalli – a chi alluda il “cappa” del cognome è evidentissimo – viva a Commiserate Ontona e che la città vicina, capoluogo delle provincia eterna rivale, si chiami Compiangete Laltro. Un gioco in cui ho però cercato di rispettare alcune regole: tutti i cognomi inventati ricalcano cognomi reali e i nomi geografici seguono la reale distribuzione delle località lombarde; infatti i nomi con la desinenza celtica si trovano principalmente lungo la fascia prealpina, mentre quelli goti e longobardi si snodano verso la pianura, e così via.

 

6) Mettiamo un attimo da parte il Daniele co-protagonista e veniamo al Daniel autore. Tu vivi da molto tempo in Galizia: perché hai scelto d’imboccare la strada del Premio Italo Calvino e perché pubblicare in Italia?

Ho voluto pubblicare in Italia per la banale ragione che sono italiano e l’italiano è la mia lingua madre. Scrivo anche in inglese e spagnolo, ma la mia abilità in queste due lingue non va oltre la decenza. Sono venuto a sapere del Premio Italo Calvino pochi anni fa, grazie a un’amica torinese che me ne ha parlato. Lo avessi conosciuto prima, mi sarei iscritto prima: lo ritengo, semplicemente, la strada maestra verso la pubblicazione.

 

7) Raccontaci la tua esperienza con il Calvino, dall’iscrizione al concorso fino alla pubblicazione con Baldini & Castoldi.

Ho partecipato a tre edizioni consecutive del Calvino. Non avessi trovato un editore, avrei continuato a iscrivermi anno dopo anno. Credo che questo sia un buon indice della stima che nutro per il Premio e per i suoi organizzatori: trovo il loro lavoro sempre cristallino. La loro analisi delle opere in gara, inviata a tutti gli autori partecipanti sotto forma di scheda di lettura, è una fonte preziosa d’indicazioni. Nel mio caso, ad esempio, le schede di lettura sono state la guida che mi ha spinto a migliorare lo stile, liberandomi dai vezzi eccessivi. Quanto alla pubblicazione, ritengo di essere stato fortunato nel trovare in Baldini&Castoldi un editore che ha davvero creduto in me. Fortunatissimo, poi, nel lavorare a fianco di Corrado Melluso, il direttore editoriale, che si è personalmente occupato del mio libro. Un lavoro che ha condotto mostrando un estremo rispetto tanto del mio testo quanto delle mie idee. Se per qualcuno l’editing è stato fonte di mille dolori, a me è costato solo qualche goccia di sudore e poco più; posso sicuramente annoverarlo tra i bei ricordi di quest’avventura.

 

8) Cosa ne farai, adesso, del tuo provato talento di scrittore? Che tipo di rapporto hai instaurato con il mondo letterario italiano?

Da quando ho iniziato a scrivere Un’Odissea minuta ho portato a termine perlomeno altri cinque libri. Da quando il libro è entrato nella rosa dei finalisti del Calvino ne ho completati due. In questi giorni sono impegnato in una traduzione. Appena l’avrò finita, spero di avere le idee abbastanza chiare per iniziare un romanzo a cui sto pensando da molto tempo: so benissimo cosa voglio dire ma, una volta di più, non sono certo di quale sia il miglior modo di dirlo. Il mondo letterario mi sembra una foresta in cui ho mosso solo un paio di passi; troppo pochi per dirne qualcosa. Mi è ignoto, ecco, e proprio per questo mi spaventa. O quasi.


Fabio Massimo Franceschelli

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Per Fabio Massimo Franceschelli, romano, classe 1963, la scrittura è senza dubbio una grande passione. Il suo curriculum è talmente ricco che diventa impossibile elencare in poche righe tutto ciò che ha prodotto. Laureato in storia e antropologia delle religioni, Franceschelli è sicuramente una delle penne più interessanti della drammaturgia nostrana. Redattore per la rivisita Perlascena, studioso, appassionato di cinema e teatro, ha dato prova di essere uno scrittore a tutto tondo guadagnandosi la finale della 28° edizione del Premio Italo Calvino. Il prossimo 19 maggio [2016] pubblicherà con Del Vecchio Editore il suo primo romanzo, intitolato semplicemente Italia; un testo capace di trasportarci fin dentro al cuore di una realtà parallela che riflette -e allo stesso tempo trasforma- il volto confuso del nostro Paese.

Anche lui il 13 maggio [2016] sarà ospite del Salone del Libro di Torino, all’interno dello spazio riservato ai talenti del PIC.

 

1) Partiamo proprio dalla parola “Italia”: questo nome accomuna il “Bel Paese” e la donna anziana che in qualche modo diventa il personaggio chiave del romanzo. In cosa si somigliano le tue due “Italie” e in cosa sono diverse?

Direi che sono complementari, che sono due immagini della “mia” Italia, ovvero di come mi rappresento la nostra nazione in questi anni. L’Italia narrata tra le corsie de “La Cattedrale” è una comunità allo sbando, travolta dal caos, vittima inerme di un meccanismo storico (di cui è essa stessa colpevole) che è già innescato e che nessuno può più fermare. Meccanismo che la porterà alla distruzione, e non parlo necessariamente della distruzione cruenta raccontata nel romanzo – che, anzi, sarebbe per certi versi liberatoria e produttiva almeno di un nuovo inizio – parlo semmai di una sorta di stagnazione, di rassegnazione alla decadenza che i più ormai nemmeno sono in grado di riconoscere. C’è ma nemmeno la si vede, perché per vederla ci vogliono strumenti culturali che stiamo perdendo. L’Italia personaggio, invece, è la vecchia Italia di cinquanta o più anni fa, che parla una lingua ormai morta, estranea a questo mondo ma che eppure vive, da qualche parte ancora vive grazie alla sua ostinazione (la “tigna”, nel romanzo). La sua lunga vita, la sua sorprendente sopravvivenza è il mio augurio per tutte quelle Italie chiuse nei nostri ricordi e che non ritroviamo più nel presente, ma rimpiangiamo e speriamo ancora di rivedere. Mi rendo conto che, detto così, il mio è un sentire alquanto nostalgico e conservatore.

 

2) Perché hai scelto di presentare singolarmente i personaggi della narrazione, prima di calarli a pieno nell’intreccio?

È stata una scelta che ha risposto a varie esigenze. In primo luogo una mia necessità di narratore di conoscere molto bene i personaggi, entrare nella loro testa, calarmi nei loro problemi e, di conseguenza, invitare il lettore a fare altrettanto. Poi, da vecchio autore teatrale quale sono, il gusto del monologo non lo perdo mai. Trovo il monologo lo strumento più efficace in direzione del realismo narrativo. Il monologo, inteso come flusso interiore di pensiero, è immediato, cioè senza mediazione dell’autore (o perlomeno con tale mediazione ridotta al minimo). Infine si è trattata di una scelta che risponde a un mio gusto di montaggio narrativo che definirei cinematografico.

 

3) Chiami “La Cattedrale” il centro commerciale che fa da sfondo all’azione, mescoli sacro e profano, provochi una vera e propria inversione dell’idea di divinità. È questo il fulcro della metafora? E fin dove arriva la tua metafora?

Domanda complessa, meritevole di un trattato. Provo a cavarmela così: l’ipermercato, il moderno centro commerciale, “La Cattedrale” del mio romanzo, non rappresenta un profano che si fa sacro. Al di là del luogo comune che innalza il denaro a nuovo Dio, direi che questi moderni templi del consumismo agiscono più sul versante del civico che su quello del religioso. Ma la cosa è ancora più sottile: se il religioso è sempre più un fatto privato e individuale e sempre meno pubblico, direi allora che il centro commerciale si candida a luogo deputato alla rappresentazione del “pubblico”, sia in direzione del civico (moderna agorà) che del religioso (spazio di ritualità e quindi chiesa, o cattedrale, desacralizzata). Il grande centro commerciale è la struttura che la moderna città non ha più e che le periferie non hanno mai avuto, è contemporaneamente il nuovo centro storico e la cattedrale cittadina, entrambi antichi spazi di rappresentazione pubblica. Tuttavia, direi che ormai ogni riflessione antropologica e sociologica sui centri commerciali è già vecchia, spazzata via da una società che si costituisce (e quindi si frammenta) sull’immaterialità della rete.

 

4) Ci spieghi il senso dei linguaggi che usi e del dialetto che hai costruito per la vecchia Italia?

Mi aspettavo questa domanda, me l’aspetto anche in future interviste, me l’aspettavo e la temevo. Il fatto è che non c’è chissà che lavoro dietro, il capitolo di Italia è stato scritto molto velocemente e senza pensarci troppo, appena in un paio di giorni, dopodiché ho lavorato sostanzialmente alla coerenza grammaticale e sintattica del suo dialetto. Ho sempre avuto difficoltà tanto con le lingue straniere quanto con i dialetti italiani. Non li capisco i dialetti italiani, soprattutto quelli meridionali, alla fine mi restano in testa solo una serie “di ì, ù e ò accentate” (cito dal romanzo). E questo è il dialetto d’Italia, condito da qualche buffa espressione popolare di chissà quale provenienza, da improbabili prestiti dal latino, dal greco e addirittura dall’inglese. Mario Marchetti del Premio Calvino ha amato molto il “becose” in luogo di “perché”, che ovviamente va letto così come è scritto e con l’accento che cade sulla prima vocale. Ho cercato un dialetto immaginario ma al tempo stesso riconoscibile, una lingua che non esiste se non nella mia mente, come probabilmente non esiste, se non nella mia mente, Italia, la vecchia Italia, non esiste più o addirittura non è mai esistita.

 

5) I ritmi della narrazione: dall’analisi sociologica all’emotività, dalla singolarità alla collettività. Ci sono sia il cinema che il teatro dentro il tuo romanzo.

Il ritmo della mia narrazione è debitore di un preciso formalismo cinematografico. Tutto ha un andamento spiraliforme e centripeto (complimenti a chi ha concepito la copertina: ha colto perfettamente questa struttura), tutto tende a passare gradualmente dall’esterno all’interno, dall’aperto al chiuso, dal calmo al caotico, dal pensiero all’azione e, infine, visto che nomini il teatro, direi anche dal narrativo al teatrale, il teatrale della “pièce bien faite”. Se fosse musica rock parlerei di struttura post-rock, rilassante all’inizio e culminante in un terrificante “wall of sound”. Se fosse cinema direi che Tarantino è stato per me un buon modello. Il cinema, poi, è presente anche per le esplicite citazioni di Antonioni con Zabriskie Point, di Hitchcock con The Birds, di Monicelli con Un borghese piccolo piccolo. Diciamo che ho voluto scrivere con una telecamera in mano.

 

6) Tu, in questa giostra di personaggi e di vicende, da che parte stai? Sempre che tu stia da una parte piuttosto che dall’altra, sempre che esista una parte piuttosto che un’altra.

Sono italiano e quindi sto un po’ dappertutto. Sono un po’ Sabelli e un po’ Strangio, un po’ Mario e un po’ Conte, e sono anche la vecchia Italia e la giovane Luana e il sindacalista Sammaroni e così via. Sono un po’ tutti i miei personaggi. Ma la tua domanda me ne porta un’altra: c’è del moralismo da parte dell’autore? Non lo so, spero tanto di no, ho paura di sì. Attendo i commenti dei futuri lettori. Io ho provato a narrare “dall’alto”, tenendomi molto distante e senza parteggiare, ma non so se ci sono riuscito.

 

7) Tu scrivi da sempre per il teatro: cosa ti ha spinto a sperimentare un’altra forma narrativa e a farlo attraverso il Premio Italo Calvino?

Da ragazzo scrivevo brutte poesie, da giovane, dopo la laurea, ho affrontato la saggistica, nello specifico l’antropologia culturale e la storia delle religioni. Da vent’anni scrivo drammaturgia e negli anni passati ho prodotto anche tanta critica, su varie riviste. Ora è il momento della narrativa. Direi che la distinzione tra i generi non mi piace e che secondo me uno scrittore non deve mai chiudersi nei propri comodi territori.

Riguardo al Calvino la risposta è semplice: con gli anni ormai si è meritatamente imposto come il principale premio letterario italiano per autori esordienti; è la vetrina più seguita dalle case editrici e nello stesso tempo anche il premio che dà maggiori soddisfazioni al partecipante, a cui viene comunque garantito il ritorno di un’accurata scheda di lettura.

 

8) Parlaci del tuo percorso di pubblicazione, un cammino non del tutto nuovo per te, anche se questo è il tuo primo romanzo.

Bella esperienza, ma estenuante: ho iniziato a scrivere Italia nel maggio 2013, l’ho pubblicato esattamente tre anni dopo. Scrivendo sostanzialmente teatro sono abituato a tempi molto più veloci. Riguardo all’editing, ne approfitto per dichiararmi molto fortunato ad aver incontrato una editor come Vittoria Rosati Tarulli, che ha amato il mio testo e lo ha saputo sfrondare con intelligenza e sensibilità. Lavorare con lei mi è piaciuto molto.

 

9) Preferisci il teatro o la narrativa? In quale territorio ti senti più a tuo agio?

Di teatro ne ho scritto tantissimo e mi piacerebbe molto realizzare nuovi progetti nell’ambito della narrativa, ma non sono un grafomane, scrivo se e quando sono ispirato e, soprattutto, se ho qualcosa di “urgente” e interessante da dire. Il presentarsi di entrambe le condizioni è evento abbastanza raro, staremo a vedere.


Simone Giorgi

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – febbraio 2016 (libro uscito il 26 gennaio 2016)
Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Simone Giorgi, romano DOC, si definisce troppo pigro perfino per avere un hobby.

Eppure ne ha fatte di cose, per essere poco più che trentenne.

Dopo la laurea al DAMS ha sperimentato con coraggio tutti i sintomi della “sindrome da occupazione inefficiente”, nota patologia sistemica tipicamente indotta dal precariato: operatore di call center, biografo su commissione, addetto carico/scarico merci, insegnante in una scuola di recupero. E così via, la lista è lunga.

Oggi è un apprezzato autore televisivo, in forza al programma TV Sconosciuti che da anni trova spazio nel palinsesto di Rai 3.

Ha partecipato al Premio Italo Calvino per ben due volte. La prima nel 2012, con il testo intitolato Il peggio è passato che gli è valso la finale. Poi nel 2014 ha meritato addirittura la menzione speciale della giuria. Lo scorso 26 gennaio [2016] ha pubblicato con Einaudi (collana Stile Libero) il suo splendido romanzo L’ultima famiglia felice, nel quale analizza con disincantata acutezza i meccanismi che caratterizzano il nucleo sociale più importante e controverso della nostra società.

 

1) Il tuo romanzo esplora una famiglia come tante, eppure unica nelle sue peculiarità. Prova per un attimo a fingere di dover scrivere una voce su Wikipedia: riesci a definire l’essenza della “famiglia”?

Purtroppo no. Più ci penso, meno trovo una formula in cui racchiudere quell’universo che è la famiglia. Tutti i miei tentativi di analisi annegano nel senso di smarrimento: quello familiare è un istituto millenario, eppure ancora non funziona a dovere. Da cosa dipendono la sua vitalità e la sua perenne precarietà? Non so rispondere. Del resto è proprio questo interrogativo, questo smarrimento che guida il protagonista del romanzo, Matteo Stella; per tutta la vita ha cercato di fare della sua famiglia un nido felice, un riparo non oppressivo. Ma scoprirà a sue spese che nessuno, neppure il migliore dei padri (e lui, con le sue imperfezioni, è forse il miglior padre che io riesca a immaginare) o la migliore delle madri (e Anna, senza essere infallibile, è senz’altro una buona madre) o il più amorevole dei figli (Stefano lo è stato, prima di cambiare del tutto; Eleonora lo è ancora, a modo suo) può davvero dire a se stesso di non aver sbagliato nulla, di non aver partecipato in nulla all’infelicità dei propri familiari.

 

2) Come mai hai deciso di analizzare proprio questa tra tutte le impalcature sociali di cui facciamo parte?

Perché la famiglia è la struttura-base della nostra società. Quello che succede in famiglia, succede nella società che la contiene. Penso, per esempio, alla crisi del modello autoritario. Oggi spesso i politici, che sono i campioni del racconto mainstream, tendono a porsi non più come autorità irraggiungibili e infallibili, ma fingono di mettersi al nostro livello, si mostrano vicini, aperti al dialogo, disponibili alla rettifica. Matteo fa la stessa cosa, mentre sua moglie Anna vorrebbe una gestione dei figli meno morbida, non proprio all’antica ma certamente più decisa. L’impostazione di Anna sembra quasi insostenibile, all’inizio lei sembra la cattiva della situazione. Salvo che poi, col procedere della narrazione, anche Matteo si rende conto che nessun genitore può esimersi dall’essere un’autorità, la prima incarnazione del potere contro cui scontrarsi. Anna gli fa capire che a volte è proprio questo che cercano i figli: qualcuno così amorevole da assumersi il rischio di rendersi odioso. Certo, e qui sta il problema, nessuno può dirti quanto in là puoi spingerti, e nessuna teoria pedagogica ti mette al riparo dal fallimento: ogni essere umano è diverso, ognuno reagisce a modo suo all’imposizione delle regole, o alla loro assenza. Matteo Stella si attiene da sempre allo stesso credo pedagogico. La sua prima figlia, Eleonora, lo adora per questo. Stefano, il suo secondo figlio, lo odia per lo stesso motivo.

 

3) La tua riflessione sulle problematiche della famiglia è stata innescata da esperienze che hai vissuto in prima persona?

No, in questa storia non ci sono corrispondenze strettamente biografiche. Certo – come sempre accade quando si scrive – nel testo ci sono andati a finire i riflessi delle emozioni, dei pensieri e delle sensazioni che più hanno risuonato in me. Ci sono finiti dentro stralci di ricordi, dettagli di vissuto che comunque servono a rendere più viva la narrazione e più credibili i personaggi. Ma narrazione e personaggi rientrano a pieno titolo nella finzione. La mia famiglia non assomiglia quasi in nulla a quella del racconto. D’altra parte non conosco nessuna famiglia che sia davvero uguale a un’altra. E, al contempo, non ne conosco nessuna che non abbia la stessa “anima” di tutte le altre. Qual è quest’anima? La mia intenzione era appunto fare di questa domanda un romanzo.

 

4) Perché, secondo te, proprio all’interno della famiglia si manifestano i lati più oscuri dell’essere umano?

La prendo alla lontana. Nello studio dell’universo, in tutte le sue propaggini più remote, in un modo o nell’altro si finisce sempre col chiedersi: ma questo fenomeno che stiamo osservando da cosa è stato provocato? E poi a ritroso. A ritroso. Fino alla domanda delle domande: da dove nasce l’universo? Ecco perché il Big Bang ci affascina così tanto. La famiglia è il nostro Big Bang. L’Eden meraviglioso in cui siamo stati felici. La pastoia da cui è impossibile liberarsi. Il momento aurorale, quando la nostra coscienza non era ancora pienamente formata, e dunque ogni ribellione era impossibile: prima ancora di farci un’idea di noi stessi, il nostro carattere si era già plasmato a contatto coi nostri familiari. Possiamo provare a cambiare il nostro stile, il modo di fare, i gusti, ma non possiamo fare niente per cambiare il nostro imprinting, il nostro Big Bang. Non potevamo allora, eravamo troppo piccoli. Non potremo più, siamo già troppo grandi. Stefano però ha tredici anni; è in quella “terra di mezzo” in cui la ribellione è o sembra possibile, persino inevitabile. Ma nessuna ribellione è indolore.

 

5) Sulla porta della camera di Stefano campeggia un cartello che urla: “Qui papà non può entrare”. Quali sono i confini che i genitori da una parte e i figli dall’altra non dovrebbero mai valicare?

Matteo Stella ti risponderebbe senza pensarci: i limiti che un genitore deve rispettare sono quelli imposti dai suoi stessi figli. Anna a questo punto scuoterebbe la testa in un moto di disapprovazione. Eleonora disapproverebbe la disapprovazione della madre. Stefano sfoggerebbe il suo sorrisino strafottente, a sbeffeggiare tanto la tolleranza del padre quanto la fermezza della madre. Insomma, un gran casino. L’unica certezza è che nel contesto familiare tutti dovrebbero ricordarsi che gli altri, oltre ad avere un ruolo all’interno della famiglia, sono anche persone con una propria vita privata. Persone che commettono errori, in buona o cattiva fede. E questo noi figli fatichiamo a ricordarcelo e a tenerlo in considerazione.

 

6) Tu ci racconti una famiglia tradizionale” composta da padre, madre e due figli. Però il tuo romanzo è arrivato in libreria proprio il 26 gennaio, in piena bufera “family-day”. Troppo ghiotta la coincidenza per evitare la domanda: qual è la tua opinione sulle famiglie “non convenzionali” e sulle loro richieste per la parificazione dei diritti?

Ti dico la verità, io non ho capito cosa voglia chi si oppone alla parificazione. Il “family-day” mi sembra una pantomima che non fa ridere, un racconto fuori tempo massimo interpretato da attori inadeguati al ruolo. Fare ricorso al sentimento dello scandalo – per ottenere una censura – mi sembra inaccettabile. Se sei sicuro di quello che fai e le pratiche altrui non limitano le tue, perché mai dovresti protestare? Forse i sostenitori del “family-day” sono solo alla ricerca di un nemico, per sentirsi uniti e non guardare i dissesti all’interno delle proprie mura. Mi fanno pensare a marinai che, messi alla prova dalle mutate condizioni climatiche, abbiano scoperto quanto la loro nave fatichi ad affrontare i lunghi viaggi. E per tutta risposta, invece di adattare la loro imbarcazione alle nuove condizioni, quei marinai vanno a incendiare le navi di ultima generazione che da qualche tempo solcano i mari.

 

7) Torniamo al romanzo: che tipo di lavoro hai affrontato per scriverlo?

Tutto è partito da un racconto che ho sentito da un amico, mentre ero in vacanza. Da lì ho cominciato a ragionare su una possibile storia, e ne ho ragionato con Bruna, la mia compagna. Ecco, direi che lei è stata ben più di una lettrice privilegiata; è stata il mio story-analist personale. Parlando con lei ho sviluppato una scaletta e quando lei l’ha approvata ho iniziato la prima stesura. Per circa un anno ho scritto. Quindi per un altro anno, in attesa di trovare un editore, ho messo a posto, riscritto, riscritto, riscritto, riscritto. E Bruna ha riletto, consigliato, approvato, rifiutato…

 

8) Perché hai deciso di consegnare il tuo manoscritto al Premio Italo Calvino? Con quali speranze e con quali paure l’hai spedito?

Io ero già arrivato al Calvino nel 2012. Quindi, più che speranze e paure, avevo certezze. Sapevo che la finale del Calvino fa sì che molti editori leggano il tuo libro. Certo, nessuno può garantirti che quelle letture si trasformino in proposte di pubblicazione. Ma è chiaro che, per chi ancora non ha pubblicato, il primo e a volte più difficile passo è proprio farsi leggere. Così, quando Mario Marchetti (attuale presidente del Premio) mi ha chiamato per dirmi che ero in finale, ho sperato che stavolta qualcuno tra gli editori avrebbe deciso di trasformare il mio manoscritto in un libro vero e proprio.

 

9) Ci racconti l’incontro con le persone che animano il Calvino?

Guarda, già ti riempie d’orgoglio l’idea che lettori qualificati abbiano passato ore e ore del loro tempo a sorbirsi pile di manoscritti e poi abbiano trovato il tuo, lo abbiano discusso, appoggiato, amato. Poi arrivi lì, e ti senti subito protetto, coccolato. Dal giorno della finale del 2014 è stato tutto in discesa.

La prima persona che mi si è avvicinata è stata Francesco Colombo, editor di Einaudi Stile Libero. Non lo conoscevo di persona e guardandolo ho pensato: “Oddio, è uguale a come ho immaginato il protagonista del mio libro!”

Se fossi stato uno dal carattere più entusiasta avrei pensato a una magica coincidenza. Invece ho pensato a un caso singolare, magari di buon auspicio. Pochi giorni dopo Francesco mi ha detto che Stile Libero voleva pubblicare il romanzo. Forse stavolta avrei dovuto davvero considerarla una magica coincidenza. In effetti, quando ho iniziato a scrivere il romanzo, fantasticavo spesso di vederlo diventare uno dei libri con la costa gialla di Stile Libero.

 

10) E il percorso di editing con Einaudi?

È stato bello, non me l’aspettavo così. Ho avuto il piacere di lavorare a stretto contatto con Rosella Postorino. Non abbiamo fatto cambi strutturali, ma Rosella mi ha preso per mano e mi ha condotto attraverso una minuziosa, e a tratti esaltante, revisione del testo. Non c’è una sola parola, una sola virgola su cui Rosella non si sia soffermata, a volte mostrandomi che avevo commesso un errore, altre chiedendomi il perché delle mie scelte: se non avevo una risposta, significava che qualcosa non funzionava. Mi ha sorvegliato, Rosella, come una sorella maggiore che vuole renderti consapevole di quello che fai. Lavorare con lei è stato come quando, da adolescente, vai a dormire dal tuo migliore amico: quella sensazione di libertà, la sintonia senza ansie, e poi il desiderio di discutere di tutto prima che arrivi l’alba, la voglia feroce di scandagliare la propria vita e il modo in cui la stai affrontando.

 

11) Esiste “LA famiglia felice”? Come immagini la tua eventuale futura famiglia?

Non esiste “LA famiglia felice”. Esistono famiglie più o meno felici, a seconda del momento che stanno attraversando. E non conosco nessuna felicità che sia convenzionale. Nessuna che sia replicabile. Nessuna che sia immacolata: la felicità è sempre imperfetta, sempre a lato delle definizioni con cui la bracchiamo. Per ora, oltre a quella di origine, la mia famiglia è composta solo da me e dalla mia compagna. Non so se si allargherà e non so come la gestirò. Forse alla fine queste cose non si scelgono, si vivono come una ricerca, per tentativi ed errori.


 

Fabio Greco

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – Gennaio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Fabio Greco, classe 1977, è un biologo italiano che vive e lavora in Inghilterra; abita vicino alla foce del Tamigi, zona di cui parla con stupore divertito perché ospita improbabili foche e viene chiamata “mare” dagli inglesi.

Nato a Saronno ma cresciuto sotto il sole del Salento, Fabio riesce a intrecciare nella sua scrittura la poesia del Sud con l’incisività del Nord.

Ha scritto diversi racconti per la collana Le meraviglie di Milano, nata da un progetto di Luca Doninelli e del Centro Culturale di Milano (cMc), poi sviluppato in collaborazione con Guerini e Associati; tra questi spicca Milano è una cozza, che ha dato il titolo a uno dei volumi dell’antologia e che è stato interpretato dall’attore Fabio Rosafio nei “barbonaggi teatrali” di Ippolito Chiarello.

Il suo romanzo Genti a cartapesta, finalista della 27° edizione del Premio Italo Calvino, si è guadagnato appassionati apprezzamenti sia dalla Giuria che dai Lettori del concorso e ha riscosso un importante plauso da Gabriele Pedullà all’interno del laboratorio di RicercaBo.

N.d.R.: Genti a cartapesta è uscito con il titolo Il nome dell’isola per Autori Riuniti nel 2016.

 

1) Il tuo è un romanzo davvero molto particolare, perché intreccia senza soluzione di continuità i sapori del mito, della tradizione e del quotidiano. Le storie che racconti prendono spunto dalla realtà o sono frutto della tua fantasia?

Sono tutte storie inventate, ricordate, immaginate, metaforiche. I luoghi esistono, esiste l’isola delle Pazze, esiste il Salento, esiste Otranto, Ugento esiste: eppure nel libro non sono quelli delle guide turistiche, le distanze sono mutuate in funzione della narrazione, i nomi sono gli stessi, ma si tratta in realtà di luoghi immaginari. Non si provi per esempio a individuare una tale piazza, o una tale casa diroccata, o un tale bivio, o l’Ospedaletto, perché nella realtà non esistono, o esistono come sommatoria di tutti i bivi e le strade e le case diroccate e gli ospedaletti che io possa aver visto in quei luoghi o altrove. Questo vale anche per le storie raccontate nel libro, alcune vivono nella realtà come sottofondo culturale, come orizzonte comune, vivono come “cunti” per e nella tradizione, altre invece sono inventate, altre ancora prendono spunto da fatti reali, senza però alcun intento documentaristico, storico o di ricerca. Dove non potevo arrivare con la conoscenza, ci sono arrivato spudoratamente con l’immaginazione.

 

2) Le prime cose che saltano all’occhio leggendo Genti a cartapesta sono il trasporto e la poesia con cui descrivi i paesaggi della Puglia. Cosa rappresenta per te questa terra?

La prima risposta, la più autentica è: la Puglia è casa, in tutte le sue accezioni, nel senso di famiglia, di nido, ma anche nel senso di luogo elettivo e di formazione. Facendo un rapido calcolo, il periodo di tempo in cui ho vissuto in Puglia è minore rispetto al periodo in cui ho vissuto altrove, in Italia e all’estero. In Puglia però ho vissuto gli anni centrali, quelli che modellano l’identità personale e il proprio approccio al mondo. Questo fa la differenza. Da quasi cinque anni vivo in Inghilterra e più che “emigrante” mi definisco “esiliato”, per l’impossibilità del ritorno, per il miraggio del ritorno. Questo probabilmente incide sul mio modo di scrivere, sul mio modo di vivere, sulla mia idea (o idealizzazione, romantica forse) della Puglia. Che poi: prima di essere pugliese, sono soprattutto salentino e anzi, prima di essere salentino, sono leccese (il Salento include anche alcune zone del tarantino e del brindisino) e anzi, ancor prima di essere leccese, sono ugentino, e così è per quelli di queste terre, un campanilismo, un orgoglio della propria terra, viscerale, ingenuo, infantile. Ho un amico di Maglie, Marcello, per il quale le donne del Salento sono le più belle, il mare di Otranto è il più azzurro, la pizzica viene prima della taranta e così via: questo è bello, ha un forte carattere identitario, di appartenenza. Fermandosi però a questa dimensione idilliaca e stereotipata del Salento si rischierebbe di non vedere le storture e le contraddizioni di questa terra, che esistono e sono dolorose. In “Genti a cartapesta”, per esempio, un ruolo importante lo hanno gli ulivi, i marcantoni centenari o i Titani, come li definisce Roberto Gennaio; come non sentire una fitta dolorosa, una lacerazione nel vedere le foto di questi giorni dell’eradicazione di questi Monumenti della natura, a causa dell’infausto Piano Silletti (Silletti, commissario straordinario per l’emergenza, dimessosi da qualche giorno) nell’affaire Xilella? Si legga, in proposito, il libro-inchiesta di Marilù Mastrogiovanni, “Xilella Report”, dove viene evidenziato un miscuglio di inadeguatezza, dolo, opportunismo, superficialità, malaffare che stanno minando, prima ancora dell’ambiente o delle terre, i simboli e l’identità di una popolazione. Si tratta solo di un esempio, ce ne sono altri che riportano la Puglia a una realtà più drammatica (e forse più reale) di quella immaginata. Ecco quindi che a volte, a volte, la lontananza può essere un auspicio, può essere un desiderio, per poter vedere con più distacco la situazione, per poter utilizzare, al più, il potente filtro della memoria nel ricordo di una terra meravigliosa.

 

3) Le vicende narrate in Genti a cartapesta sembrano ruotare intorno alla fantomatica origine del nome di un isolotto, chiamato da sempre “Isola delle Pazze”. Perché hai scelto di usare proprio questo dettaglio come fil rouge del romanzo?

In realtà la storia del libro non è nata per ruotare intorno al nome dell’Isola delle Pazze. È un racconto con molti strappi, retromarce, aggiustamenti, infinite revisioni che nascevano dalla volontà di portare a galla qualcosa che è stato chiaro solo alla fine della prima stesura, cioè il valore forte della tradizione orale e della musica che sopravvivono nel Tacco. Non è un caso che uno dei libri più venduti nel Salento sia “La terra del rimorso” di Ernesto de Martino (un antropologo!). E l’Isola delle Pazze ha quel nome lì per ragioni che non sono documentate e nessuno può dire esattamente la genesi di quel nome. Ho pensato di aggiungere alle varie storie raccontate, le mie personalissime, a modo mio.

 

4) Anche i tuoi personaggi sono molto particolari: quanto somigliano alle persone che frequentavi quando vivevi lì?

Per i personaggi vale quanto detto prima: non si riferiscono in alcun modo a persone conosciute, non esistono i Vecchiarazza come non esiste la vecchi’Amanda o la Mariabbondanza. Epperò, da qualche parte, esistono anche dal vero, li si può trovare qui e lì, in alcuni borghi sperduti della provincia, in alcune masserie e parrocchie e, quelli sì, sembrano prendere ispirazione, per vivere, dai personaggi del mio testo.

 

5) Genti a cartapesta: perfino il titolo sa d’invenzione e di metafora. Ti va di spiegarlo?

Penso che la risposta migliore possa arrivare leggendo il breve stralcio riportato di seguito.

 

Gli pareva d’essere un tutt’uno con quelle genti di prima e con le genti di ora, genti di lassotta che tenevano intra agli occhi lo stesso orizzonte, tenevano intra al naso gli stessi profumi e intra alle orecchie lo stesso mare; genti d’altrove che si portavano appresso la tremula dei secoli di tutte le genti inquiete che cercavano requie lassotta; genti raminghe, che vagavano senza meta intra a luoghi e tempi; genti a cartapesta che le storie gli s’appiccicavano addosso foglio a foglio a macerare, frammenti e parole che divenivano intra un colpo solo, passato e storia e veste e carne e cuore, s’appoltigliavano intra a un miscatiglio, e immantinente originavano nuove storie e nuove vite che s’artigliavano dritte dritte intra alle carni, a sensazione; genti che arrivavano e partivano per nostalgia della nostalgia, in cerca dell’assenza, della mancanza, per farsi apparire più bello quel loro sud del Sud, gent’indifese affogate intr’a quella vita loro che gli arrivava addosso come una mareggiata.

 

6) Il passaggio che hai appena riportato dimostra perfettamente la caratteristica più evidente del tuo testo: il linguaggio. Perché hai utilizzato questa sorta di semi-dialetto al posto dell’italiano?

Nello scrivere il testo, mi sono reso conto quasi subito che i fatti che avevo intenzione di narrare avevano una loro forza metaforica e metafisica, che però non emergeva appieno utilizzando la pulizia dell’italiano. La contaminazione dialettale invece mi permetteva di raggiungere con una grande forza espressionista i punti “alti” della narrazione, quelli più lirici e poetici, e allo stesso tempo, di scendere in maniera più decisa verso i punti “bassi”, quelli più gretti e mitologici. La mia non è stata un’operazione di stampo verista, un tentativo cioè di restituire la parlata e il dialetto del Salento, per rendere più reali i fatti narrati. Tutt’altro. Mi sono preso la libertà di utilizzare, in una sorta di mutuo equilibrio con l’italiano, le parole che mi permettevano di restituire un certo colore al racconto, parole che per assonanza ed etimologia potrebbero assomigliare, o essere esattamente, quelle del dialetto salentino, ma che magari venivano permutate e utilizzate in una maniera diversa; ho poi utilizzato anche parole di altri dialetti meridionali; parole di dialetti del nord Italia (Mi che te vardo mò,/ Mariabundansia,/ d’intra alle nìure balote de l’oci…); parole inventate (boterosa, champagnoso, leggiuto…); in tutto questo ho tentato di mantenere una coerenza linguistica e narrativa per tutto il libro. Ad un certo punto mi sono reso conto che il linguaggio che stavo utilizzando non era più solo il mezzo necessario per raccontare: era diventato, esso stesso, il fine del mio scrivere, la mia realtà narrativa e che il racconto emergeva in maniera più aderente alle mie intenzioni soprattutto grazie a un certo andamento della frase, a un certo ritmo, a un suono, a una particolare scelta di vocaboli e alla loro posizione all’interno della frase. Tutto questo deve essere ben calibrato, non è un arido esercizio di stile. Il fine ultimo della Letteratura è, e deve sempre essere, quello dell’emozione.

 

7) Al termine di questo lungo percorso hai deciso di spedire il manoscritto al Premio Italo Calvino. Perché?

Ho inviato il manoscritto al Calvino come reazione al silenzio delle case editrici. Conoscevo già il Premio ma non vi avevo mai partecipato. Ho inviato il manoscritto nell’ultima settimana utile prima della scadenza, fine settembre mi pare. I manoscritti ricevuti nell’annata 2013/2014 sono stati circa ottocento (ottocento!). Nove (9!) i finalisti. Ci vuole una certa dose di ottimismo, di ambizione e d’incoscienza nello sperare di essere lì, alla fine.

 

8) Come hai vissuto i mesi di suspense prima della finale? E cosa ti è rimasto di questa importante esperienza?

Io al Calvino non ci stavo proprio pensando più, giacché da pochi mesi avevo scoperto che sarei diventato padre e questo aveva già stravolto le priorità in maniera totale. Poi è arrivata la telefonata da parte di Mario Marchetti, un gentiluomo, oggi Presidente del Premio, che mi ha ufficializzato l’accesso alla finale: a emozione si è aggiunta emozione.

Non ho pensato realmente di poter vincere, ma ho sperato che il libro ricevesse una menzione per la dose di rischio che comportava l’utilizzo di quel linguaggio. Le cose sono andate diversamente, ma va bene così. Nutro grande affetto per i finalisti di quell’anno, per la condivisione di questa esperienza che ha segnato ciascuno di noi. Il Premio Italo Calvino del 2014 è stato vinto meritatamente da Pier Franco Brandimarte con L’Amalassunta, un libro bellissimo poi pubblicato da Giunti.

Con Pier Franco, con Gianni Agostinelli (Perché non sono un sasso, Del Vecchio Editore), con Francesco Paolo Maria Di Salvia (La circostanza, Marsilio) e con Simone Giorgi (L’ultima famiglia felice, Einaudi Stile Libero, in uscita il 26 gennaio [2016]) sono costantemente in contatto: nonostante la lontananza imposta dalle nostre scelte di vita, si è creato un forte legame di amicizia.

 

9) Cos’è successo dopo il Calvino? Perché Genti a cartapesta non ha ancora trovato un editore?

La credibilità di questo concorso nell’ambiente letterario italiano è data soprattutto dal sistema di lettura e di selezione che i Lettori del Premio (persone appassionate e competenti) mettono in atto per diversi mesi all’anno, prima di decretare i finalisti. Essere un finalista del Premio Italo Calvino, proprio in virtù di questa credibilità, diventa una sorta di bollino verde sulla bontà della scrittura e sulla qualità del tuo scritto. La pubblicazione dei finalisti tuttavia non è automatica, perché il mercato editoriale deve soddisfare altre esigenze che non sono strettamente legate alla qualità.

Genti a cartapesta è stato inviato a numerose case editrici. La maggior parte non ha avuto la decenza di rispondere, un malcostume che puzza di arroganza e mancanza di rispetto. Quel silenzio lì è più logorante, sfacciato, antipatico e maleducato di una risposta negativa precompilata inviata tramite email. Ringrazio pertanto quelle case editrici (cinque) che mi hanno inviato una risposta, anche se negativa. Al netto dei complimenti, che rendono la risposta un po’ meno amara, le motivazioni più frequenti per la mancata pubblicazione sono state: una difficile collocazione del testo nel mercato editoriale, un linguaggio bellissimo ma non accessibile (a detta loro) a tutti, un libro poco commerciale (il libro non garantirebbe un ritorno economico), una trama scarna.

Io, dalla mia, penso solo di aver scritto un testo che meriterebbe di diventare libro, che meriterebbe di stare in libreria, di essere letto e giudicato dai lettori.

Un paio di mesi fa, grazie a Davide Orecchio, due stralci di Genti a cartapesta sono stati ospitati su Nazione Indiana e hanno ottenuto dei buoni riscontri. Questo mi fa ben sperare. Al momento sembra ci sia l’interessamento da parte di alcune case editrici e di alcuni agenti letterari. Non mi sbilancio. Valuterò la soluzione migliore per il libro qualora dovessero arrivare proposte concrete.

 

10) Nell’attesa di ulteriori sviluppi hai scritto altro? Hai già un nuovo romanzo nel cassetto?

Di solito questa domanda arriva subito dopo la pubblicazione del primo libro. Quindi potrei svicolare e non rispondere. Rispondo, però. Non ho un altro romanzo nel cassetto, ho alcuni pezzi, progetti, movimenti che aspettano di venire amalgamati in un disegno unitario e che non necessariamente porteranno a un romanzo (li definirei “voci per teatro”). Ci sarà poi una sorpresa per quanto riguarda il racconto Milano è una cozza: comparirà in un libro di tecniche narrative, assieme ad altri testi firmati da noti nomi del panorama letterario italiano (per esempio Paolo Zardi, Dario Voltolini, Gianluca Morozzi, Raffaele Riba solo per citarne alcuni). L’antologia, intitolata Questo libro si può anche leggere, verrà pubblicata da una nuova casa editrice di Torino, la Autori Riuniti, nata da un progetto interessante e innovativo che riporta lo scrittore al centro della filiera editoriale.

Inoltre c’è un abbozzo di progetto per un libro di divulgazione scientifica che mi permetterebbe di affiancare l’esperienza della scrittura alla mia professione di biologo.


 

Giuseppe Imbrogno

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – ottobre 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Giuseppe Imbrogno è un progettista sociale milanese che coltiva da tempo un tenace rapporto con la scrittura.

Ama il tennis, le serie TV di David Simon, i film di Werner Herzog e i libri di Carrère.

Durante gli studi ha vissuto per due anni in Germania, dopodiché ha lavorato nel marketing e infine è approdato al no profit, settore in cui oggi lavora.

La Giuria della 29° edizione del Premio Italo Calvino ha conferito al suo romanzo, intitolato Il perturbante, una menzione speciale meritatissima; utilizzando uno stile moderno e suggestivo, Giuseppe ha infatti costruito un romanzo molto particolare e praticamente perfetto, in grado di mostrarci come le nostre vite siano ormai connesse alla rete e quanto siano arrivate a coincidere con essa. La storia che ci racconta potrebbe riguardare chiunque ed è proprio per questo che il suo testo risulta così magnetico e inquietante.

N.d.R.: Il perturbante è stato pubblicato a ottobre 2017 da Autori Riuniti.

 

1) Il tuo romanzo ci presenta un tema estremamente attuale, cioè il rapporto tra l’uomo e la “rete”. Partiamo dai social network, che ne sono il fenomeno più evidente: come funziona secondo te il meccanismo che ce ne rende in qualche modo “dipendenti?”

Nel Perturbante il fenomeno dei social network è strettamente connesso a quello del desiderio, dell’osservazione, della conoscenza tra individui. Un uomo (Lorenzo) incontra per caso un altro uomo (Sergio). Raccoglie delle prime informazioni. La curiosità e l’interesse aumentano. La sua professione (analista di big data) e le infinite possibilità offerte dalle nuove tecnologie gli consentono di ampliare ulteriormente questa ricerca e ad ogni nuova informazione aumenta la sua sete di ulteriori informazioni. Questo tipo di relazione, in cui “si conosce” e “si ignora” allo stesso tempo, è caratteristica dei social network. Pensiamo ai diversi “amici” che nella vita reale quasi mai incrociamo e di cui, però, sappiamo tantissimo. Oppure alle relazioni con “oggetti” e “fenomeni” che riguardano non il singolo ma i gruppi, le comunità e che, per certi versi, sono ancora più interessanti. Nei vari #JeSuis che durano una settimana o nelle bufale che portano le persone a litigare in rete e a volte a scendere in piazza, ci si illude di essere realmente in contatto con l’oggetto, si perdono di vista gli strati, le mediazioni, i limiti della consapevolezza. “Conosciamo” e insieme “ignoriamo”, appunto.

 

2) L’esposizione personale nelle vetrine virtuali: quanto è auto-determinata e quanto invece è pilotata senza che l’utente se ne renda conto? In questo teatrino chi è il vero burattinaio?

Entro in un locale, riconosco un volto, quella persona è tra i miei contatti di Facebook, i nostri sguardi si incrociano, a volte ci si saluta imbarazzati, spesso nemmeno quello. Eppure di quella persona io conosco diverse cose, anche private: se gli/le piace il sushi, dove è stato/a in vacanza, se è fidanzato/a, quali sono le sue posizioni politiche, se ha vissuto di recente un lutto. Alcune informazioni me le ha fornite lui/lei, altre me le sono costruite io a partire da quelle che lui/lei, spontaneamente, ha fornito. Premesso che FB è un’azienda privata che vive dei dati che noi forniamo, penso non sia possibile ascriverle responsabilità che, di fondo, sono nostre. Se da una parte siamo da sempre immersi nel desiderio per l’Altro, allo stesso tempo, da sempre, amiamo essere cercati, osservati, ammirati, conosciuti. Il social ci dà questa possibilità e, in una qualche misura, alimenta la nostra inclinazione a esporci. Grazie a queste nostre inclinazioni Zuckerberg e altri fanno soldi, molti soldi.

 

3) Il protagonista del tuo romanzo, tramite la rete, riesce a scoprire un’infinità di cose sulla vita di Sergio, il suo “oggetto del desiderio”; secondo te è la presenza di internet ad alimentare la curiosità o è la curiosità umana a determinare l’uso di internet?

Credo che il desiderio e la curiosità più o meno morbosa per l’Altro siano, di fatto, alla base della nostra evoluzione. È per questo che abbiamo iniziato a interrogarci sul mondo, è per questo che siamo usciti dal brodo primordiale e mosso i nostri primi passi sulla terraferma. Lorenzo è un data analyst: “lo studio degli altri” è per lui tanto una professione quanto una passione personale che grazie alle nuove tecnologie (i social network, ma anche le carte di credito, i lettori delle casse dei supermercati, ecc.) può essere soddisfatta anche di sera e nei weekend, diventando un’attività che occupa la sua intera esistenza. Per lui tutto ciò che è presente in rete (le previsioni del meteo, gli ordini su Foodora, le recensioni su Tripadvisor, ma anche gli sms inviati alla fidanzata, la cronologia delle ricerche su Google) è automaticamente “a disposizione”. Non esistendo confini fisici, non ne esistono nemmeno di morali. Le colonne d’Ercole appartengono al passato.

 

4) Non solo la nostra socialità, anche i nostri conti, il nostro lavoro e perfino la nostra salute viaggiano sui canali della rete. È ancora possibile la privacy o è solo un’illusione?

Scrivo una lettera, la metto in una busta, la sigillo, la spedisco. A Poste Italiane non interessa il contenuto della lettera, ma solo che io la stia spedendo. Se invece scrivo un post, a Facebook non interessa l’atto della trasmissione, bensì il suo contenuto. I social network la lettera vogliono leggerla e vogliono che siano in tanti a poterla leggere. Lo stesso avviene quando uso una carta di credito (a Visa interessa, eccome, sapere che cosa sto comprando) o quando faccio una ricerca su Google e dopo un secondo mi arriva della pubblicità mirata. I nostri dati sono una merce molto ricercata e, come tale, redditizia. Lo scambio che ci viene continuamente proposto è quello di cedere parte dei nostri dati al fine di poter accedere a qualche servizio. Esistono delle alternative? Certamente. Ad esempio negli ultimi tempi i contenuti personali su Facebook sono di molto diminuiti a scapito delle news, fatto che sta preoccupando non poco Zuckerberg e soci. La possiamo considerare una forma di “resistenza”? Allo stesso tempo, però, qualche giorno fa, un mio collega: “Hai visto Googlephoto? Certo, poi loro hanno tutti i miei album, però che comodità!”. Gli album di fotografie, cartacei, sono gli stessi che la mamma o la nonna mostravano in un preciso momento della vita, una sorta di cerimonia laica. Oggi la stessa cosa la fai con un clic e accetti di offrire tutta la tua vita a un’azienda privata, per sempre.

 

5) Cosa ti ha spinto a scrivere questo romanzo?

Se quello del desiderio è sicuramente un tema classico nella letteratura, credo che un elemento nuovo del romanzo Il perturbante sia quello di assumere il punto di vista di chi “interpreta” persone, esistenze e rapporti traducendoli in dati, numeri e connessioni. Io uso i social network con una certa frequenza, li trovo degli ottimi aggregatori di informazioni; spesso, come tutti credo, faccio pure fatica a “mettere insieme” o a “fare ordine” tra queste informazioni. Volevo esplorare questo aspetto, provare a raccontare la Weltanschauung di chi ha fatto della raccolta, dell’analisi e dell’interpretazione di queste informazioni la propria professione e la propria principale occupazione. Assumendo la “prospettiva dei big data”, come interpreto il quotidiano? Come leggo certi fenomeni? Quali diventano i miei criteri di scelta e i miei valori, ammesso che ancora di valori si possa parlare? Se tutto è informazione, ha ancora senso parlare di giusto e sbagliato? Di pubblico e privato? Di passato e futuro? Non diventa tutto terribile e, allo stesso tempo, paradossalmente liberatorio?

 

6) Parlaci un po’ della tua esperienza con il Premio Italo Calvino: perché hai partecipato e cosa ti ha dato il PIC?

Il Premio lo conoscevo già, ma fino all’anno scorso non avevo mai pensato di parteciparvi. Durante la scrittura del testo Il perturbante ho avuto la fortuna di poter fare leggere il testo ad alcune persone i cui giudizi e consigli sono stati fondamentali. Parlando con uno di loro, un giorno, è nata l’idea del Calvino.

Ovviamente tutto quello che è successo è stato per me inaspettato. Credo che una delle principali necessità per chi scrive sia quella di ricevere validi “riscontri”. La propria cerchia personale, come detto, è fondamentale, ma non può essere esaustiva. I Lettori e la Giuria del Calvino mi hanno dato soprattutto questo: un riscontro oggettivo, un giudizio professionale e la consapevolezza che il mio romanzo possa interessare qualcun altro.

 

7) Dopo la menzione del Calvino, cosa ti aspetti dal tuo romanzo e quali progetti hai per il futuro?

Chi scrive lo fa per diversi motivi, certo, ma alla base c’è una prima, semplice ragione, in fondo la stessa per cui scriviamo un post on line: essere letto da altre persone. In questo, se vogliamo, il rapporto tra Lorenzo e Sergio ha qualcosa del rapporto tra scrittore e lettore. La mia speranza è, quindi che Il perturbante possa essere letto da altre, possibilmente tante persone. Quanto al futuro immediato, tra la fine del 2016 e l’inizio del 2017 dovrebbero essere pubblicati alcuni miei racconti, mentre sono impegnato nei lavori di ricerca e di prima stesura di un nuovo romanzo.