Diari

Davide Martirani, Il Regno

mercoledì, 26 Luglio 2017

C’è un appunto, in un mio vecchio diario, che recita: “in fondo chi sa che tutte le mie aspirazioni letterarie, il desiderio di scrivere sopra ogni altra cosa, non siano che una peculiare forma di bovarismo, la fantasticheria velleitaria di chi sogna una vita migliore della propria e se la modella con l’immaginazione sulla base di ciò che ha letto nei libri”.

Non c’è data, ma dev’essere del 1999. Avevo sedici anni.

Il dubbio è rimasto, e per molto tempo ha regnato incontrastato come un vero e proprio demone. Fino ai ventotto anni ho negato a me stesso la possibilità di scrivere (se non per gioco, saltuariamente, senza impegno). Dopo l’università avevo lavorato in minuscole case editrici: vedevo l’afflusso incredibile di manoscritti e provavo vergogna per i tanti autori goffi e impreparati ma dotati di un altissimo concetto di sé. Almeno questo posso farlo, pensavo, evitare di essere come loro. E non scrivere mi sembrava l’unico tributo degno dell’amore che avevo per la letteratura.

Così è andata avanti: cambiavo lavoro cercandone uno che mi desse soddisfazione, sperando di trovare altrove la gratificazione che mi era sempre mancata. Crescevano gli impegni, migliorava la situazione economica, ma tutto mi rimaneva estraneo, come se stessi lì a recitare un ruolo. Per quanto mi sforzassi, non provavo mai l’agognata sensazione di aver finalmente un posto definito nel mondo. Vedevo gli altri costruirsi una carriera con voglia e determinazione, e non capivo perché solo a me la cosa restasse indifferente. Allora ho realizzato che mi restava solo una via da tentare.

Ogni giorno, rosicchiando – come tutti – il tempo all’ufficio e al sonno, mi sedevo alla scrivania e scrivevo per almeno un’ora. E ogni giorno il demone era lì, appollaiato sulla mia spalla, a ripetermi quanto patetico, ridicolo e inutile fosse quel mio tentativo. Prima ancora di pensare allo stile, ai personaggi o all’intreccio, la mia preoccupazione era quella di metterlo a tacere. E l’atto di scrivere somigliava a quella scena di Indiana Jones in cui Harrison Ford deve camminare su un ponte invisibile sopra un precipizio. Un atto di fede da ripetere quotidianamente. A volte andava meglio, e ciò che scrivevo mi sembrava degno di interesse, ma spesso ero preso dal disgusto al punto di non poter proseguire.

In queste condizioni (ma aiutato dal sostegno di alcuni amici) ho scritto una ventina di racconti, per poi tentare con un romanzo. Solo allora mi sono arrischiato a uscire davvero allo scoperto, mandandolo in giro. Ma i risultati – come spesso accade – oscillavano tra la freddezza e la completa indifferenza. Nessuno degli editori e delle agenzie che avevo contattato – nessuno dei pochi che hanno risposto – lo considerava pubblicabile. E il demone si fregava le mani sghignazzando.

Per questo quando ricevo la chiamata – il numero sconosciuto, la richiesta di confermare la mia identità, la voce che annuncia serafica il suo testo è tra i finalisti del Premio Calvino – prima della gioia, della gratitudine, delle reazioni scomposte, quello che arriva è il sollievo. Un enorme macigno che di colpo mi viene tolto dalle spalle, lasciando i polmoni liberi di respirare come mai hanno fatto in vita loro. E la consapevolezza che, quando il demone tornerà a soffiare, non sarò più completamente solo ad affrontarlo.

Igor Esposito, Alla cassa

mercoledì, 26 Luglio 2017

DELIRIO D’UNO SCRITTORE INESISTENTE

Biografie di eccellenti pittori, poeti, scrittori ne ho lette a bizzeffe, a iosa, a caterve, a carriole, in poche parole ne ho lette una marea e vi dico che alcune sono proprio affascinanti; ma la mia non è da meno. Anzi, a dire il vero, la mia, in quanto a fascino, alcune le supera di gran lunga. Io, per esempio, ho partecipato a 2571 premi letterari. Ora trovatemi voi uno scrittore che può vantare un primato così singolare. State indagando? non perdete tempo! perché io sono l’unico scrittore al mondo che ha partecipato a 2571 premi letterari. Ricordo, come se fosse ieri, la mia prima partecipazione ad un premio letterario: avevo sette anni e tre giorni ed inviai al prestigioso premio di poesia della città di Canicattì un sonetto e due ballate rigorosamente in endecasillabi sciolti. Detto tra noi il regolamento richiedeva due componimenti, ma io come tutti i grandi poeti sono un essere generoso e allora invece di inviare due componimenti ne inviai tre. Speranzoso che la giuria sapesse riconoscere non solo il mio talento poetico ma anche la mia generosità. Risultato: nessuna risposta, neppure una misera segnalazione. Avari, aridi, questo pensai. Ma io non mi sono mai perso d’animo. E così fino ai quindici anni ho continuato a comporre mirabili sonetti e ballate da capogiro. Poi, appena ho compiuto sedici anni e tre giorni sono passato alla prosa, perché sulla via di Damasco mi sono illuminato ed ho capito che la poesia la leggono solo i poeti, mentre la prosa la leggono anche i dromedari e i pipistrelli. E così ho scritto 571 romanzi e siccome so bene che ormai la letteratura è consumo tra questi 571 romanzi si trovano capolavori per ogni consumatore, perché io sono uno scrittore poliedrico; e così ho scritto romanzi per professoresse racchie, per critici pederasti, per teatranti ruffiani, per pugili froci, per pedagoghi impotenti e segretarie ninfomani e potrei andare avanti all’infinito, ma mi fermo, perché io non sono uno scrittore prolisso. Io sono uno scrittore poliedrico e pure polifonico! Ora vi confesserò pure che per anni ho cercato un falegname geniale e alla fine l’ho trovato e così mi sono fatto costruire una scrivania con un cassetto che può contenere 571 romanzi. Ora ditemi voi se al mondo esiste uno scrittore che nel cassetto conserva 571 romanzi inediti. State indagando? non perdete tempo! perché io sono l’unico scrittore al mondo che nel cassetto non conserva il solito, unico, triste e malinconico romanzo, ma ben 571 capolavori!

E così un anno fa ho messo la mano nel cassetto e, a caso, ho tirato fuori un manoscritto. Alla cassa, questo è il titolo del romanzo che di colpo è saltato fuori. Non ho perso tempo. L’ho imbustato e l’ho spedito al Premio Calvino. Ora, gli editori lo dovrebbero pubblicare subito, perché Alla cassa è un romanzo per scommettitori mistici e voi potete solo lontanamente immaginare quanti scommettitori mistici vivono in Italia. Senza esagerare, invece, io posso affermare con certezza che in Italia vivono circa 5 milioni di scommettitori mistici e così, una volta pubblicato, il romanzo venderebbe un botto di copie e il fortunato editore andrebbe al settimo cielo. Sono passati sette mesi da quando ho spedito il romanzo e di colpo mi squilla il telefono. Io dico pronto. Sono Mario Marchetti, il presidente del Premio Calvino. Io dico salve. Lui dice il suo romanzo è in finale. Io dico bene, però poi aggiungo: lei lo sa che ho partecipato a 2571 premi letterari. Il presidente non parla più, resta basito. Allora io vado avanti e gli dico: lo sa cosa ho ottenuto? l’indifferenza cinica dei vivi e il silenzio degli obitori. Il presidente lentamente si riprende e inizia a farmi una sfilza di domande. Io rispondo, però, mentre rispondo, penso pure che Marchetti è mosso da un’insana curiosità, perché non è cosa giusta fare una sfilza di domande a chi non si conosce. Ma di colpo mi illumino, come sempre sulla via di Damasco, e capisco al volo. Marchetti prima del crollo del muro di Berlino doveva essere una spia comunista, perché si sa che le spie comuniste sono sempre state esperte di letteratura; e così lo perdono, perché essendo stato una spia comunista gli è rimasto il vizio di fare troppe domande anche in situazioni inopportune. Ed ecco che rispondo ad ogni sua domanda senza omettere nulla, anzi, per soddisfare il suo vizio di vecchia spia comunista, mi soffermo anche sui particolari più ininfluenti. Alla fine del lunghissimo interrogatorio il presidente mi dice ci vediamo a Torino, il 30 maggio al Circolo dei lettori per la premiazione. Io dico va bene sarà un piacere, a presto. E così la mattina del 30 maggio prendo il treno e sono contento. Salgo sulla prima carrozza, non mi seggo, e a voce alta dico sono un finalista del premio Calvino! Mi aspetterei una stretta di mano, un applauso, un complimento e invece niente. Passo nella seconda carrozza e ripeto l’affermazione a voce sempre più alta, fino all’ultima carrozza del treno. Sono un finalista del premio Calvino! Ma l’unica cosa che ottengo è silenzio e qualche passeggero che sospira timidamente questo è pazzo. Il treno giunge a destinazione. Scendo. E finalmente sono al Circolo dei lettori. Il presidente mi stringe la mano e mi accoglie con un bel sorriso ma, dall’alto della mia sensibilità, nei suoi occhi scorgo una velata malinconia. È la struggente malinconia dell’ex spia comunista che non ha mai visto i carri armati sovietici occupare le sponde del Po e la regale città di Torino. Appena mi lascia la mano, Marchetti mi dice lei secondo me ha un chiodo fisso nella mente. E quale sarebbe questo chiodo fisso nella mente? Lei vuole divenire un grande scrittore. Io mi faccio tutto serio e gli dico Dottor Marchetti lei forse non sa che nel mio cassetto ci sono 571 romanzi frutto del mio talento poetico e prosastico e dunque sono già un grande scrittore. Marchetti sorride, ma è un sorriso di circostanza, perché io so già cosa sta pensando: questo è pazzo. E no caro presidente, c’è un equivoco, mi dispiace. E così gli dico lei lo sa al giorno d’oggi l’unica cosa che può fare un saggio? No, sinceramente non mi sono mai posto questo quesito. Faccio passare qualche secondo, poi lentamente rispondo, scandendo molto bene le sillabe. L’unica cosa che può fare un saggio al giorno d’oggi è impazzire. Marchetti mi mette una mano sulla spalla e dai suoi occhi scompare la struggente malinconia dell’ex spia comunista; e il suo sguardo, mentre mi contempla, si fa tutto tenerezza, perché io sono certo che anche le ex spie comuniste, nonostante quel porco di Stalin, sanno abbandonarsi alla tenerezza. E così, con garbo, mi dice si accomodi stiamo per iniziare la cerimonia di premiazione. Mentre mi avvio nella sala gremita i nostri sguardi si incrociano ancora una volta ed io, con certezza matematica, riesco a leggere l’ultimo pensiero del Dottor Marchetti prima che la cerimonia di premiazione del Premio Calvino abbia inizio. Questo prima o poi lo ricoverano…

Andrea Esposito, Città assediata

mercoledì, 26 Luglio 2017

Dopo la premiazione. Dopo che la sera siamo andati a bere. Dopo aver discusso per scherzo su quale fosse la piazza più grande d’Europa. Dopo che il cameriere ci ha detto: Questa, di quelle senza monumenti al centro. Dopo aver bevuto e ancora bevuto. Dopo il ritorno per le vie ortogonali di Torino. Dopo il rumore infernale del condizionatore acceso. Dopo il risveglio ovattato. Dopo le voci roche e la luce elettrica a colazione. Dopo l’ascensore della Mole. Dopo esserci chiesti di che palazzo fosse quella sagoma in cima alla collina. Dopo aver visto un clown chaplin ubriaco che mandava via una bancarella perché quello spazio era suo. Dopo che il clown ha alzato la musica accanto al nostro tavolino. Dopo averlo trovato terribile e aver capito che avevo visto troppo e dovevo andare, avevo visto le quinte e non era rimasto mistero o bellezza. Dopo le chiacchiere calme con un amico. Dopo aver passeggiato per perdere tempo tra le vie ortogonali di Torino intorno alla stazione. Dopo aver perso ancora tempo alla stazione e aver scoperto di non avere niente da leggere perché il libro scelto non era quello giusto. Dopo essere saliti sul treno e aver aspettato la partenza come se ci aspettasse o ci inseguisse qualcuno. Dopo essere partiti. Dopo tutto questo a un certo punto il treno si è fermato. Il treno si è fermato poco prima di una stazione. Eravamo davanti a un niente di radura con dei palazzi abbandonati in fondo. Ce n’era uno fatto a X che sovrastava altri binari stretti e solitari. In fondo non c’era ancora la città ma poche case sparse. E alberi, e in fondo le montagne. E nessuno può scendere e dobbiamo solo aspettare. E sappiamo tutti che stiamo già quasi per ripartire. C’è chi si alza e cammina lungo il corridoio e chi viene a vedere fuori dal finestrino. Io resto seduto e guardo fuori sull’orlo del sonno, come se fossimo ancora in movimento. Mi aspetto di veder qualcuno scendere e camminare fuori. E so che non può succedere ma non smetto di guardare come se aspettassi qualcosa. Sappiamo tutti che ripartiremo, che stiamo quasi per ripartire. Per un attimo qualcuno può voler restare e insieme ripartire. Qualcuno può voler guardare fuori e insieme dormire. Qualcuno può voler cominciare e insieme finire.

 

Emanuela Canepa, L’animale femmina

mercoledì, 26 Luglio 2017

Il cinque maggio del 2017- era un venerdì – ho scoperto per caso leggendo un articolo che Alice Munro e Margaret Atwood sono molto amiche. Non era un fine settimana qualsiasi. Le selezioni del Calvino erano quasi concluse e di lì a poco sarebbero partite le telefonate. Se ero entrata in finale il presidente avrebbe chiamato per avvisare. Se invece nel giro di qualche giorno non mi avesse chiamato nessuno, sapevo di dovermi togliere ogni illusione dalla testa. Per cui quando ho letto di Alice Munro e Margaret Atwood mi è sembrato un segno. Ho la tendenza ad attribuire un senso e una direzione di marcia ai fatti che mi capitano, e nessuna simpatia per il caso fortuito. Magari esiste, ma mi annoia.

Alice Munro e Margaret Atwood sono tra le scrittrici che amo di più. L’idea che fra loro ci sia anche un legame sentimentale, una sorellanza, e quindi un travaso di suggestioni tra due universi così dissimili, tra i silenzi sospesi di Munro e la ferocia distopica di Atwood, mi ha emozionata. Allora sono andata in rete a cercare delle immagini che le ritraessero insieme. Ne ho trovata una bellissima presa a un party di Natale, sullo sfondo si vede l’albero con i festoni. Credo sia stata scattata nel 2013, durante i festeggiamenti per il Nobel di Munro.

L’ho guardata per dieci minuti e poi ho pensato: mai viste due autrici che portino l’impronta della loro scrittura incisa nel corpo in modo più esplicito. Alice, che tra le due è la più alta, ha l’autorevolezza amorevole di una matriarca, la sua forza è il letto di un fiume che trascina tutto, lasciando che la vita fluisca come parte di un processo quieto e inarrestabile senza inizio né fine. Margaret è più piccola, ha una testa di riccioli grigi, una fronte immensa, e due occhi accesi come un puntatore laser. È intelligenza incandescente, lungimiranza, chiarezza di visione. Margaret guarda al prossimo secolo e vede già quello che accadrà, o quello che potrebbe accadere, specie se non stiamo attenti.

Allora ho deciso di stampare la foto, e poi di attaccarla sul muro con il preciso intento di elevare Alice e Margaret al ruolo di divinità domestiche, sussurrando una preghiera laica senza pretese. Una cosa del tipo vedete un po’ quello che potete fare.

Ha funzionato, perché la telefonata è arrivata due giorni dopo, il lunedì, verso le quattro del pomeriggio. Di tutto quello che è venuto poi – Torino, il Circolo dei Lettori, la Premiazione, la gioia condivisa con gli altri finalisti – e che è stato strabiliante, ho ricordi piuttosto confusi. So che mi ha fatto provare la gioia enorme di condividere lo stesso distretto di senso di Alice e Margaret, sia pure da uno spazio distante e periferico come quello che posso permettermi di occupare.

Quando sono rientrata a casa la prima cosa che ho fatto è stata tornare di fronte alla foto per ringraziare. Loro erano sempre lì, con il bicchiere di champagne in mano, a festeggiare il Nobel e il Natale. Non c’è correlazione tra quell’immagine e tutto quello che è successo, lo so. Una parte di me ne è consapevole. Ma non è la parte che preferisco. Quella che preferisco si è scelta con attenzione i penati da invocare. Non solo due scrittrici ardenti, ma due scrittrici saldate tra loro in un abbraccio che dichiara che l’amore moltiplica il talento. Dice tanto sul modo in cui si proiettano in quello che scrivono, e tanto di quello che voglio tentare di essere anch’io.

Resteranno sul muro, perché ne avrò bisogno.

Nicolò Cavallaro, Le lettere dal carcere di 32 B

mercoledì, 26 Luglio 2017

26 agosto 2016
«Perché non lo mandi al Calvino?»
«Buono ’sto hamburger. Vuoi assaggiare?»

11 maggio 2017
«Ti faccio la domanda più stupida. C’è un dress code?»
«Mah, guarda…»

13 maggio 2017
«Prendo questa.»

9 settembre 2016
«Sono a meno di metà. Angoscia alla Black Mirror. Ah, ho trovato un typo.»
«Un che?»

28 settembre 2016
«A te quando fanno sapere qualcosa del Calvino?»
«Non prima di maggio, penso.»
«Maggio? Ma che so’ matti?»
«Tanti iscritti… I lavori di lettura durano praticamente un anno. A maggio dovrebbe uscire una selezione. Segnalati e finalisti.»

9 maggio 2017
«Ho appena ricevuto una bella notizia. Ho una sorta di impegno di riservatezza per altre due settimane, ma almeno a te vorrei dirla. Non vedo l’ora di vederti.»

10 novembre 2016
«L’ho finito. Mi è piaciuto.»
«Contento. È un po’ una pezza, eh?»
«Super pezza. Non sai nulla della sua storia, se qualcuno lo ascolta, in che carcere è, se è un pazzo in manicomio. Che lui sia maniacale lo vedi dal modo in cui scrive. La parte del puzzle, di come conta i pezzi… aiuto.»

27 marzo 2017
«Ho saputo poco fa. Vorrei sentirti, e sentire da te come stai. Quando ne hai la voglia, chiamami. Ti mando un abbraccio fortissimo.»
«Trasformata in paziente, paziento.»
«Forza, mostriciattolo.»

30 maggio 2017
«Andiamo avanti. E continuiamo con Nicolò Cavallaro. Le lettere dal carcere di 32 B.»

24 maggio 2017
«Tu come stai messa? Fai un salto a Torino?»
«Macché… il 30 ho una presentazione.»

30 maggio 2017
«Una cosa leggera.»
«Caldo, eh?»
«Minchia.»
«Bresaola e rucola va bene?»
«Benissimo, grazie.»

24 maggio 2017
«Ma è una notizia incredibile. Ma non ci posso credere! Ma voglio venire a Torino… Ma come possiamo organizzarci? Fammi pensare, devo prendere due giorni.»
«Aspetta. Ferma.»

7 aprile 2017
«Come va lì in “albergo”? So che l’operazione è andata bene.»
«Sto molto meglio. In attesa di esiti. Tu?»

31 maggio 2017
«Uscendo dal portone, guardi alla tua destra. È quello lì. Saranno trecento metri.»
«Poi che mi consigli?»
«Fai il lungopò, i Murazzi, e sei già nel salotto.»

30 maggio 2017
«Ragazzi, io non ho mangiato un cazzo. Va bene qualunque cosa.»

1 giugno 2017
«Entro in doccia. Abbastanza tranquillo. Considera che da lì a quaranta minuti ci vengono a prendere in albergo e ci portano alla premiazione. Acqua, mi insapono… Non so come, do un colpo al portabagnoschiuma portashampoo di metallo. Mi casca preciso sull’alluce. Un male bestia. Due madonne, mi guardo il piede e l’alluce è viola. Penso, porca puttana, cazzo, mi sono rotto il piede a un’ora dalla premiazione. Mi sciacquo, metto il piede sotto l’acqua ghiacciata, lo muovicchio. L’alluce è gonfio. Penso, dai, se fosse rotto adesso mi farebbe malissimo. Vaffanculo, intanto metto il calzino; stasera quando torno se ne parla.»

24 maggio 2017
«Mostriciattolo, tu lo sai cos’è il Premio Calvino.»
«Certo che lo so.»
«Sei seduta, sei comoda?»
«In sala d’aspetto.»

13 maggio 2017
«Sei sicuro?»
«Sicurissimo.»
«La pochette è un must. Non faccio uscire nessuno da qui senza pochette.»
«No. La pochette non la voglio.»

30 maggio 2017
«Com’è andata?»
«È andata bene. Adesso sono fuori con finalisti e calviniani. Poi ti racconto.