Giurie

A TORINO! AL CALVINO! di Damiano Zerneri

mercoledì, 14 Dicembre 2011

L’avevo di già conosciuta Torino. L’ultima volta ci capitai nel pieno dell’estate, quando le città riescono mezzo disabitate dalle partenze per la villeggiatura. E allora ti appaiono queste strade ortogonali quasi totalmente illuminate di bianco e giallo, come in un levante che nell’onda di calore finisce e cade dentro la pianura.

Uno può essere che non se l’aspetti una cosa del genere; dice che gli avevano raccontato una storia diversa. Eppure.

Buffamente di Torino solo questo residuava, il reperto: come se gli ultimi fotogrammi di diverse frequentazioni, peraltro la maggior parte nei mesi freddi, con le acque del Po che alla vista paiono di sasso, si fossero contratte in un agosto invece abbagliante uguale alla spiaggia di Orano dove lo Straniero eccetera.

 

Del Premio Calvino invece mi tornava in mente una cosa, un NuovoCorallo Einaudi degli anni ottanta/novanta con in copertina un bastimento che cola a picco e che s’intitola(va) “Navi di carta”, scritto da tale Gabriele Contardi.

Arribartando come d’abitudine cataste di libri a metà prezzo nelle rivendite sotterranee, in cerca distratta nel periplo delle bancarelle di bouquiniste della mia città – le quali, sia detto, in luogo del lungofiume che ci si aspetterebbe, si trovano di preferenza in margine ai giardini pubblici – incontravo spesso questo piccolo libro, il quale sul retro portava stampigliata la formula non alchemica: “un’occasione di lettura”. Solo i vecchi struzzi di Quarantotti Gambini mi comparivano sotto il naso con maggior frequenza e con simile stampigliatura.

 

Ovvio però che non è questo, non sono certo il triestino dimenticato né l’occasione di lettura. Piuttosto, leggendo la quarta di copertina rilevavo che Contardi aveva vinto a suo tempo il Premio Calvino.

Non so se con quel testo o con un altro, in questo momento non ho sottomano l’albo d’oro. Resta che io prima di allora il Premio Calvino non avevo idea di cosa fosse.

 

Queste le due cose che mi son trovato in saccoccia, cinque minuti dopo una telefonata a comunicarmi che qualcheduno assai illuminato aveva scelto me, tra altri, per la finale del concorso.

Dunque ero io, magari novello Contardi in pectore, e anche oltre [ma l’oltre lo avrei conosciuto dopo, leggendo i nomi di altri scrittori ora molto noti ma a suo tempo, come me adesso, soltanto cavati al mondo grazie a questo premio meritorio], che già strolegavo di fantastiche avventure da Barzamino. Prima di calmarmi infine.

 

Ma tutto questo è un preambolo, poiché spesso la vita, come un atto amministrativo, la si redige per preamboli anziché per competenza, com’è dei bilanci. Contrariamente a quanto si pensa, negli umani commerci i bilanci sono marginali, i preamboli invece frequenti, persino invasivi.

 

E comunque arrivato al sedici di aprile, e malgrado conoscessi Torino trattenendone appunto una visione non brumosa bensì meridiana, e nonostante Contardi barra Quarantotti, lo stato d’animo con cui mi son messo in viaggio era quello del giovane garzone boemo protagonista di quella storia pìcara dell’Europa centrale, il quale parte per la grande città dove poi, tra le altre cose, gli accadrà di servire il re d’Inghilterra.

 

Chiederebbero: non stavi più nella pelle? Mah, risponderei, non tanto quello… ripeto, la cosa è che mi bullicava dentro una certa curiosità della letteratura in azione, curiosità che è quella di colui che vive in un borgo lontano, ristretto in un maggese, e che forse ma dico forse vede una fettina di mondo soltanto quella volta all’anno che va alla fiera.

Ergo, pur avendo letto non dico molto, ma pur sempre abbastanza, non sapevo niente.

 

Mi rendo conto di avere in atto una lunga tirata di sfoglia, per cui cerco di rallentare e focalizzare l’attenzione sulle percezioni più vive dell’esperienza del premio Calvino [dell’esservi stato tra i dodici finalisti, quindi in una piacevole, ancorché scombussolante avanscoperta al gentile pubblico].

 

Nel corso della premiazione o presentazione o pubblica lettura o incontro, uno dei finalisti parlando di sé ha detto una cosa del tipo di essere pervenuto, tramite il premio, l’esservi trascelto nella scia del suo testo, al riconoscimento come scrittore.

 

Credo si riferisse quasi più ad una sorta d’inquadramento professionale, circoscrizionale, di prontuario, di libretto di servizio.

Certo nulla a che vedere coi tempi di Stalin, ove se non c’era qualcuno che ti metteva il timbro sulla tessera annonaria e/o esistenziale, attestando-ti in ciò la qualifica di scrittore, mica te la assegnavano la stanza nella casa delle lettere cittadina [suppongo un vero e proprio casermone zeppo di pennaioli, con cucine anguste, incerti i vettovagliamenti].

 

Sembra una cretinata questa qua del declinarsi pubblicamente quale scrittore, ma il dirsela in faccia una roba così, per esempio la mattina presso lo specchio radendosi la cotenna, fa tremare un poco l’anima, non si sa se per una vaga umiliazione o per il fatto di sentirsi indulgere in qualcosa che non ha concreta relazione con lo stare coi piedi per terra, come invece si converrebbe ad un uomo savio e ahimè di già parecchio adulto.

 

Alla tua età, dici al te riflesso nel vetro, stai a sognare queste cose: di fare lo scrittore… no anzi, addirittura di esserlo, controfirmato e vidimato. Sei solo un pirlone! [sembra di sentir parlare il mugghiante signor padre, vale a dire herr Hermann Kafka commerciante di chincaglieria].

Facile che a quel punto il terrore, fattosi intollerabile, faccia scappare di mano il rasoio di sicurezza e il sangue del malestro a gocciare rosso nella gora di acqua peli e schiuma sul fondo del lavandino.

 

Eppure è questo, molto semplicemente, forse anche puerilmente: che io, nella mia esperienza – giungendo al Calvino da selezionato, a sedermi in quella bella stanza dove meglio di me, e in accordo alla mobilia, avrei visto erti sulla seggia un Baretti, un Gozzi – metaforicamente l’ho pigliato a calci in culo a Hermann Kafka e a tutti quelli come lui, enti ectoplasmici ma urticanti, scoraggianti.

 

E dunque son venuto anch’io alla luce, liberandomi, stiracchiandomi in tutte le mie incertezze e farragini di scrittore che non vede, nella sua esperienza, manco il prossimo tornante.

Non so se si tratti tecnicamente d’una catarsi, ma in qualche modo ho rotto il follicolo e subito mi son sentito leggero.

Prima non possedevo idea, avevo una curiosità di foresto della città, degli eventi traverso i quali avrei poi finito col servire il re d’Inghilterra, mentre alla fine mi trovavo sapendo qualcosa, di me sotto forma di scrittore.

 

Suonerà melodrammatico? Patetico? Ma no, è stata una gran leggerezza. E poi comunque non è che debba mettere per iscritto l’intera mia vita per dar conto de’ moventi e della leggerezza e di tutta la dinoccolata fase post-parto (letterario).

 

Vengo a concludere, ricordando tutti coloro che fanno sì questo premio abbia luogo [in questo non mi riferisco ai giurati eh, quelli no, in particolare i famosi, che vendono tanto e gli cavano i film, dai loro libri – ci siamo capiti].

Coloro che mettono in azione la dinamo di questa macchina lavorando, remigando carte, leggendo e rileggendo, confrontandosi. L’hanno fatto regalando il loro tempo anche a me, che, figurati, laggiù dalle lontananze del mio tavolo di lavoro mai l’avrei immaginato… e invece.

Ricordando con riconoscenza quelli/e con cui ho avuto modo di parlare più a lungo, e anche chi ho conosciuto solo brevemente.

 

In questo, io francamente non so cosa mi aspetti dalla scrittura o da una eventuale, forse sideralmente lontana pubblicazione. Non lo so.

So per certo che è stato molto bello trovare persone che non avevo mai visto prima venire da me, stringermi la mano e dirmi che le cose che ho scritto gli erano piaciute. E questo senza schermi, senza gabbie coi capponi vivi appese in cima al palo della cuccagna, senza disegni, atteggiamenti, compiacimenti.

Semplicemente così.

Per me, ripeto, è stata come una piccola scossa che non dimentico. E di cui ringrazio tutti voi che fate questo duro lavoro per il Premio Calvino. Grazie.

L’ho già scritto che sono venuto alla luce?