È domenica mattina, e sei lì che giri per casa scalzo, alle spalle l’ennesima sera in cui hai annegato il precariato nell’alcol più economico. E poi sei a lutto. Ti hanno rubato il computer due settimane prima. Te lo sei fatto fregare. Come si fa a lasciare un computer in macchina? Non hai i soldi per comprarne uno nuovo, e chissà per quanto non potrai scrivere: la tua grafia è orribile, se scrivi a mano non si capisce niente. La tua compagna ti ha detto prendi il mio portatile, che problema c’è? Ma no, a lei serve più che a te. E poi vuoi vivere fino in fondo la tua umiliazione: farsi fregare il computer su cui c’erano i tuoi testi. Tutti. Raccolte di racconti, appunti, tesi, saggi, romanzi dimenticati. E gli ultimi due romanzi, quelli su cui puntavi. Nessuna copia di backup. L’ultimo ultimo non l’hai neppure finito. Però sei stato fortunato, ne avevi mandato una copia a un amico la sera prima. In pdf. Bisogna convertire in doc, lavoraccio ma si può fare. Se riesci a non pensare che hai perso tutta la cartella, le versioni precedenti, gli schemi, il materiale preparatorio, la scaletta della parte che resta da scrivere. Nella scena iniziale c’è un ragazzino che spacca un vetro e poi osserva lo spettacolo dei frammenti. Il tuo computer l’hanno fregato così: il vetro della macchina infranto, lo spettacolo dei frammenti. Ti sei pure chiesto se era una vendetta del ragazzino per la storia in cui l’hai coinvolto. Poi c’è il romanzo prima. Quello finito. Quello a cui hai lavorato un anno e mezzo durante un isolamento feroce: tu e la tua compagna in una casa al mare da cui il mare non si vede nemmeno un po’, venti euro al giorno in due per fare la spesa, lei che scrive su un tavolino, tu sull’altro, il vino a buon mercato e farsi da editor a vicenda.
E ora giri per casa, la domenica non ha di bello neppure il riposo: più che precario sei un semidisoccupato, non è il riposo che ti manca. Ti squilla il cellulare. Tua madre. O tuo padre. Neppure guardi sullo schermo. Tanto, che cambia. Non è tuo padre, non è tua madre. Una voce sconosciuta, sarà Vodafone o Tim o Sky: una serie di cose che non capisci, a casa tua non c’è linea, a meno che tu non voglia stare in bagno, in piedi, la testa fuori dalla finestra se è bel tempo, attaccata al vetro se fa freddo. Fa freddo. Stai per dire grazie, non mi interessa. Poi senti la parola Calvino.
Il collo fa un po’ male, anche le spalle: sei schizzato al bagno e ti sei incollato al vetro, speriamo non si rompa. Il Calvino, chi ci pensava più. Cioè ci pensavi, ogni giorno. Ma come a uno dei tanti fallimenti, figurati ormai è tardi, mi avrebbero già chiamato. La voce sconosciuta ti dice complimenti, lei è in finale. Io? Lei.
Il cellulare prende male, ti schiacci ancora di più contro la finestra. Un romanzo allucinato, davvero singolare, ci è piaciuto molto. La voce ti dice così, e ormai è tardi per le presentazioni, ti ha già detto il suo nome prima, quando non c’era campo. E comunque non sei felice, sei nel panico: e se si sono sbagliati? Se è uno scambio di persona? La voce sconosciuta ti spiega come funziona il premio, cose così. E di nuovo parla del tuo libro, lo elogia. Uno scambio di persona, sicuro. Dovresti investigare. Ma come? Mica puoi fare la figura del cretino e dire scusi, signora voce, è sicura che sono io quello che cerca?
C’è un’ape. Grossa, rumorosa, batte sul vetro, vorrebbe entrare. E tu hai la faccia contro la finestra, alla ricerca del segnale. Se il vetro si rompe, prima ti fracassi la testa contro l’inferriata, poi l’ape ti finisce. Se il vetro non si rompe, ti verrà un crampo al collo. La voce parla. Sconosciuta, augurale. E maschile, forse giovane, molto cortese. Un equivoco. Banale, crudele. Hai un’idea da Sherlock Holmes: dire il titolo del libro così, come niente fosse, e vedere che effetto fa. Ma qual è il titolo del libro? Com’è che ora non ti ricordi più nemmeno questo? Perché lo hai cambiato mille volte, ecco perché. E dovresti controllare sul computer, per sapere quale titolo ha la versione del Calvino. Ma il computer, il computer.
Stai zitto, il collo che fa male, le spalle contratte, il cranio sul vetro e l’ape che continua a picchiare, forse è come gli squali, sente l’odore del sangue e si eccita, forse è ora di smetterla di avere paura degli animali, non sei più un bambino. Butti lì frasi di circostanza, grazie per me è un onore, chi non vorrebbe essere in finale al Calvino, la giuria poi quest’anno è davvero. Speri la voce ti dica qualcosa, un titolo, il nome di un personaggio. Figurati. La generica vanità dei complimenti. Il terrore dello scambio di persona. L’errore fatale. Ti viene in mente un racconto di Svevo. Un tizio che per tutta la vita sogna di diventare uno scrittore, ma niente. Ormai vecchio, trova qualcuno che gli fa firmare un contratto per l’editore più importante in circolazione, gli dà persino un anticipo fantastico. Ma è solo uno scherzo. Uno di quelli di cui si muore. Perché va bene sopportare i rifiuti, la disillusione. Ma la speranza no. La speranza ti spazza via.
Attacchi, ti massaggi il collo. Non puoi sapere che è tutto vero, la felicità è lì a portata di mano: tra poco ci sarà la premiazione, e incontrerai lo staff del Calvino e ti sentirai come se avessi alle spalle un super agente letterario che ti vuole bene e non ti chiede nulla in cambio. Ti massaggi il collo. Che cosa gliene verrà, all’ape, di tutto questo battere contro la tua finestra?
Visita il nostro canale Youtube
Visita la nostra pagina Facebook
Visita la nostra pagina Twitter
Visita il nostro profilo Instagram