assaggi e critiche

Incipit finalisti del concorso Ogni desiderio

martedì, 21 Maggio 2019

SONIA AGGIO

NELLA SERA D’INVERNO

Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti,
io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote.
Dino Buzzati


Agnese ha la gonna raccolta nel pugno, il secchio stretto contro il fianco. Nel secchio, giuggiole verdi e rossastre.

Si lascia alle spalle il frutteto, attraversa il giardino all’italiana, prende il sentiero ombroso che porta alla villa. Quando si accorge dell’ospite apre la mano, la gonna le ricade sulle caviglie. Fruga nel secchio.

«Buonasera! Vuole assaggiare?» esclama. Tende la mano. L’ospite batte i tacchi, poi si piega verso di lei, intercetta un raggio di sole. Lei ammutolisce.

Il suo sguardo si impiglia nelle piccole cose: il frustino appeso al polso, un bottone dorato, il colletto aperto, la gola nuda, il battito lieve di una vena.Il maggiore Francesco Baracca guarda la giuggiola, la prende tra pollice e indice, la chiude nel pugno. Il guanto di cuoio manda un gemito.

È la tarda estate del 1917.


FRANCESCA COLAO

LA GIOSTRA

Ogni desiderio appartiene a un dio primigenio che si fa beffe degli uomini che si fa beffe di me. Tiro uno sputo nel secchio, e se lo becco, esprimo un desiderio. Un desiderio non si dice. Lancio un nocciolo di oliva nel secchio e, se lo becco, esprimo un desiderio. Ogni desiderio è un segreto. Se lo dici non s’avvera. Uso un torsolo di mela, un giornale accartocciato, all’occorrenza anche una lattina. Lungo il tragitto per andare al lavoro conosco la collocazione di tutti i secchi della spazzatura angolo per angolo, strada per strada. Interrogo i cassonetti come fossero sfere di cristallo. Se faccio centro, avverto un brivido che getta luce sul mio futuro. Annoto sempre i risultati sul mio taccuino e a fine mese costruisco un grafico. 

Mi concedo solo tre lanci per il responso. Tre canestri: giornata buona. Due canestri: così così. Un canestro: fare attenzione. Zero canestri: pericolo.

L’ultima settimana di febbraio non avevo azzeccato un tiro. Sette giorni su sette: pericolo.


FRANCESCO COZZOLINO

IL CIMITERO DI VILLA CEREZA

Il dottor Antonio da Silva si tolse gli occhiali, fece un’orecchia sulla pagina alla quale era arrivato e chiuse Il moto perpetuo. Guardò la tavola imbandita: era il servizio comprato in Olanda, doveva ancora avere i certificati di garanzia nel cassetto alto dello scrittoio. Se ci fosse ancora uno scrittoio, non ne aveva idea. Aveva lasciato Amsterdam nel novecentotrentotto e non era più tornato. Quando si decise per l’Argentina volle portarsi tutto dietro. L’orologio segnava le dieci e un quarto, decise che era ora: prese un lembo della tovaglia e lo spinse verso il centro della tavola; quindi fece lo stesso con gli altri tre lembi. Li strinse in pugno e salì in piedi sulla seggiola. La tovaglia si gonfiò fino a formare un fagotto e piatti e bicchieri si accumularono rumorosamente sul fondo. Il braccio si tese, diede uno strattone e il fagotto imprigionò le stoviglie. Infine, con una rotazione del busto se lo mise in spalla e allungò il piede nel vuoto.


VALERIA GARGIULLO

NOCCIOLINE

Stavo per scolare la pasta quando sul telefono è comparso un numero sconosciuto. Non sapevo chi cavolo chiamasse a quell’ora. Per un attimo ho creduto che fosse Fabio, ma se n’è andato. Di questo è stato chiaro. Ha ficcato le sue cose in un borsone e tanti saluti. S’è portato via pure le lamette nuove e un tubo di dentifricio. Alex mi chiede dov’è suo padre, e ogni volta gli rispondo con una bugia diversa.

Ho asciugato le mani sui jeans e ho preso il telefono. «Sta cercando ancora?», ha detto la voce alla cornetta.
Era una donna. Ho trattenuto la delusione in bocca.
«Mi sente?».
Ho risposto di sì.
«Allora cerca?».
Accidenti, certo che cercavo ancora. Manco avevo iniziato a fare i colloqui.

Quella s’è messa a raccontarmi che ha accudito bambini dai tre ai sei anni, e che ha ottime referenze. Io volevo solo chiudere la chiamata, e scolare la pasta.

«Può venire domani», l’ho buttata là.

D’un tratto la sua voce s’è fatta seria. «Deve sapere una cosa», ha fatto una pausa. «Sono nera».


MARIACHIARA LOBEFARO

EX NOVO

Una donna di classe: ho espletato tutte le procedure per potermi definire così. Al ristorante non mi getto sul cestino del pane, detesto le borse dai manici in plastica, i miei capelli non sono tinti, sono tonalizzati: sono più sottili e numerosi di quando ero un uomo, e il mio parrucchiere insiste per dei riflessi rossi che – credo – mi stanno piuttosto bene. Dico “credo” perché da tempo non ho più una visione d’insieme del mio viso. La mia faccia negli anni è stata tante cose, ma soprattutto è stata un campo di battaglia: aborrita, violata e infine mondata, resa conforme all’ingenua fede nel concetto di decenza. Ogni centimetro di questo viso mi è costato a tal punto (in termini sia personali che economici; e non sono mai stata una persona avara) da essere un microcosmo compiuto. Tra naso e bocca c’è la stessa distanza che tra Melbourne e il Camerun. La mia fronte, spaziosa il giusto, in realtà è atterrata senza far rumore da un pianeta lontano. L’avresti mai detto?


MARILENA LUCENTE

UN BACIO

Slacciava spaghi e fettucce come avrebbe saputo fare con i cordini dei corpetti. Quel modo di sciogliere i nodi, di sfilare i nastri, quasi le turbava. Erano pensieri sconosciuti, che si mostravano con un tremito. E dopo, quando la carta velina cadeva sul tavolo, incominciavano a venir fuori lenzuola, asciugamani, federe. Sembravano volare. Fino a quando Stefano Trabucco, commerciante ambulante di corredi da sposa, non li appoggiava sul braccio. Voli brevi, come l’ala di un angelo. Era per via delle mani: lunghe e curate che sembrano fatte per suonare. Anche la sua voce era diversa, sapeva di musica lontana, quando parlava di mussolina, pelle d’uovo, lino. Tutto era così bianco, con qualche sfumatura crema e avorio. “Dio come sono belle le lenzuola”, pensavano le donne sedute intorno al tavolo con le gambe incrociate che spingevano sotto la sedia. Ma qualcuna in cuor suo diceva: “Dio quant’è bello lui”. Frasi così andavano zittite subito. Dovevano comprare lenzuola per il matrimonio. E scacciare i pensieri che sapevano di peccato.


CLAUDIO MAGLIULO

NOI SIAMO IL VILLAGGIO IN CAMMINO

Ho sabbia nelle narici, nelle orecchie, sotto le unghie. Penso di avere sabbia anche nei polmoni e forse continuerò a sognare ogni notte il deserto e a svegliarmi per sempre in un letto di sabbia, con una duna per cuscino e le ossa che urlano dal freddo.
Mio fratello Germain, ci sei anche tu qui alle soglie d’Europa?

A Bruxelles! A Bruxelles!
Sono una freccia lanciata sul pelo dell’acqua e non mi guardo indietro, fratello.
Siamo in tanti, troppi. Le nostre facce nere nella notte nera sono solo altre porzioni di buio. La luce ci dissolverà all’alba. Preghiere e pianti di infanti, i ragazzi che chiamano maman sottovoce, tutto galleggia, o sprofonda.

Questa è la notte, Germain. Aspettiamo solo il tramonto per imbarcarci.
Il Mediterraneo è immobile e calmo come il cuore dell’uomo saggio, e adesso che sono alla fine di tutto, di questo sogno diventato incubo che chiamiamo Africa, e casa, sento che potrei trasformarmi in un cespuglio e lasciare che il vento mi passi attraverso senza portarmi via.


LORENZO MOSCARDINI

DI LÀ DAL MURO

Tommaso sapeva che i soldati austriaci erano schierati dall’altro lato del muro. Era forse l’unico sopravvissuto del suo battaglione e da ore e ore se ne stava immobile con la schiena appoggiata al solo muro rimasto in piedi di tutto il villaggio. Intorno a lui solo macerie, teste dilaniate e braccia senza vita che affioravano dalle montagne di calcinacci. Il sangue continuava a colare in terra, goccia dopo goccia, come se non dovesse fermarsi mai. Ogni tanto Tommaso sentiva delle voci di là dal muro, parole straniere che gli sembravano tutte uguali. Se ne stava lì, immobile, ad ascoltare il suo respiro. Non poteva muoversi, né tantomeno sporgersi da quel muro. Poteva solo aspettare, ancora.

Il sole cominciava a tramontare e i tenui raggi rossastri illuminavano ciò che rimaneva del paese mutilato. Vorrei dell’acqua, pensava tra sé e sé. Mi basterebbe un sorso d’acqua, anche solo un sorso, per bagnarmi la gola…


ALBERTO RAVASIO

LA TRANSESSUALIZZAZIONE FORZATA DI GUGLIELMO SPUTACCHIERA

(ovvero, Come imparai a non preoccuparmi e ad essere Pamela Anderson)

La donna-oggetto creata da sarti, acconciatori ecc., che ha come caratteristica il turgore delle forme (seni eretti, glutei sodi e così via), altro non è se non un fallo travestito da donna, o meglio una donna travestita da fallo.
Mario Mieli, Elementi di critica omosessuale

Una mattina di palta, Guglielmo Sputacchiera si svegliò col muso mollemente adagiato in un bel paio di tette: le sue. In cinque ore di sonno inquieto, gli erano sbocciate due zucche mammarie, obese e tese, identiche a quelle del suo oggetto del desiderio: la bagnina canotto Pamela Anderson. Ora non solo le possedeva, ma loro possedevano lui, in un tutt’uno simbiotico.

Da buon impiegato reificato, il suo primo pensiero non andò alle tette in sé, ma all’accoglienza che queste avrebbero ricevuto in ufficio, soprattutto dal Megacapo e dalla collegaglia. Fosse stato più coraggioso, o più veterocomunista, se ne sarebbe rimasto a casa, a sgonfiarsi i materassini, saltandoci sopra. Ma per un impiegato reificato come lui l’apparizione delle tette non era una ragione sufficiente per saltare un giorno di lavoro, anche perché, avendo un contratto capestro che scadeva ogni mezz’ora, se non si fosse presentato in ufficio alle otto, lo avrebbero cacciato, e sostituito con un robot, o con una pianta di cactus.