assaggi e critiche

CESARE SINATTI e LA SPLENDENTE

mercoledì, 29 Giugno 2016

CESARE SINATTI

CESARE SINATTI, nato a Fano nel 1991, si laurea in filosofia a Bologna nel 2013 con una tesi sull’immortalità dell’anima nel Fedone. Attualmente sta terminando il corso magistrale in Scienze Filosofiche nella stessa università. Ha trascorso un anno di studi all’Università di Chicago.

Finalista al Premio Calvino XXIX e vincitore con La splendente (ex aequo con Elisabetta Pierini).

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

Prova straordinaria di un giovane autore che rivela una conoscenza profonda della mitologia, dell’epica e della tragedia greca. Ciò che sorprende in questo inusuale romanzo è la capacità di far rivivere in maniera originale personaggi che sembravano per sempre fissati in una certa icona, in un profilo marmoreo, come Elena, “la Splendente” del titolo, come Achille, Ulisse, come Paride, come Patroclo, Agamennone, Menelao, come Penelope e Clitemnestra o di riprenderne altri meno noti come Palamede o Epipola (un’antesignana di Clorinda). Far rivivere e rimodellare, pur tenendo conto delle fonti anche meno note (tra cui Ditti Cretese, Darete di Frigia, Quinto Smirneo probabilmente, e tanti tanti altri). Con una scelta personale forte, l’autore sceglie episodi dall’epos omerico e extraomerico, alcuni anche poco noti ma documentati, e li cuce con libertà e rigore in una ricostruzione di affascinante bellezza. I caratteri dei personaggi – i nomi eccellenti del mito, e altri poco rimasti più che citazioni nelle biblioteche classiche – vengono ricostruiti in termini di grande freschezza, con un’originalità mai forzata e invece psicologicamente (e miticamente) coerente. I fatti, o quelli che possiamo definire tali secondo la tradizione, vengono rispettati. Cambia l’interpretazione, il punto di vista, e così vediamo un Achille emotivo e timoroso di morire, pur nel suo desiderio di gloria, dominato dalla protettrice figura di Patroclo (capovolgendo l’interpretazione shakespeariana del Troilo e Cressida), un Ulisse, sì astuto, ma amante soprattutto della pacifica vita familiare e del lavoro nei frutteti di Itaca, un amletico e umbratile Menelao, un Paride dallo sguardo di scorpione, una torva Clitemnestra – soprattutto, però, una donna svuotata, − invidiosa della sorella Elena, un’Elena remota e insieme dolce col prescelto Menelao, un algido Palamede, perfetta eminenza grigia di Agamennone (forse, quest’ultimo, il più somigliante all’immagine omerica). La Splendente è, come si è già accennato, Elena, creatura indecifrabile presente nella reggia di Sparta e poi inseguita da Menelao prima a Troia e poi in Africa (la celebre versione per cui Paride avrebbe avuto accanto a sé un mero fantasma) senza che il lettore goda di maggiori certezze, e fino a una conclusione struggente e poetica. La costruzione delle scene raggiunge anch’essa un alto livello, grazie a un approccio profondo e visionario. La scena dei due Atridi alla ricerca del tempio diruto prima della partenza per Troia è un buon esempio: l’autore riesce a rendere il lettore partecipe del silenzio dei boschi insieme spiazzante e numinoso, a immergerlo nel mistero di un qualche senso da trovare, a farlo raggelare alla profanazione di Agamennone. Così come le mura (titaniche, archetipiche) di Troia, dietro le quali gli eroi ragazzini precocemente invecchiati ravvisano l’indefinita minacciosità degli “altri”, sono realmente il confine del mondo. Tanto più che dietro il narrato c’è l’eco potente di ciò che resta accennato di sfuggita o solo alluso, le storie di un mondo assai più antico, il magma di un passato dove l’evocazione di mostri o giganti mantiene un’autenticità e una forza che riconosciamo dentro di noi.

Questa nuova declinazione di una materia classica ha il pregio di farla tornare vivente (un’operazione che può ricordare quella di Christa Wolf, con le dovute differenze ovviamente, soprattutto di focus, che nella Wolf è puntato sulla condizione della donna e sul nesso guerra/maschio) e di potere, attraverso di essa, toccare in maniera universalizzante i grandi temi della violenza e della morte cui fanno da contraltare la bellezza, l’amore soprattutto domestico e l’amicizia. La lingua è accurata, incisiva, non senza qualche contenuta scintilla lirica. Va ancora sottolineata la grande capacità compositiva dell’autore che mette in campo decine di personaggi, tutti ben individuati, dei quali non perde mai le fila, dando sostanza a un complesso, variegato e mosso manufatto. Lo ribadiamo: non siamo di fronte a una gratuita opera erudita − e lo diciamo senza alcuno sprezzo per l’erudizione −, ma a un’opera che sa parlare di oggi in maniera obliqua e, quindi, tanto più efficace. La narrazione sa insomma valorizzare la dimensione paradigmatica del mito, ovvero della “parola importante”, in riferimento alle nostre profondità interiori: dove l’epos di morte e di vita, di orrore e di bellezza mantiene, al netto da ogni banalità retorica, una forza viva che ci parla dentro. A partire dal dare voce alle nostre delusioni e solitudini, alle paure e sofferenze di cui gli eroi si fanno portavoce.

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Elena e Clitemnestra”

Era seduta sulla radice nodosa di un ulivo e strappava i petali di un fiore. Lanciava alla sorella occhiate nervose, chinata tra i fiori e le erbe selvatiche. Avevano visi così simili. I lineamenti scolpiti con cura, come dalla mano di un artigiano meticoloso e preciso alla ricerca di una forma perfetta, il naso ricordava quello delle statue di Artemide ed Atena. La bocca giovane e piena formava in entrambe una curva impercettibile verso il basso, rivelando una concentrazione segreta attorno a qualche pensiero ricorrente.

Lei sapeva bene quale fosse il proprio. Era la grazia, l’incanto senza pecche della sua gemella. Aveva solo otto anni, come lei, ma possedeva qualcosa in più, anche se avevano lo stesso viso, lo stesso corpo. Lo stesso uovo le aveva messe al mondo, ma a Elena aveva fatto il dono della luce. Aveva il sole tra i riccioli biondi come il croco, un chiarore stellare negli occhi azzurri. Le minuscole pupille nere erano incapaci di dilatarsi, come se tutta la luce fosse già nelle sue iridi celesti, irraggiate da lampi di smeraldo.

Tutta la chiarezza era andata a sua sorella. Clitemnestra aveva capelli neri e radi, non si avvolgevano in riccioli perfetti ma crescevano crespi, come i fili male intrecciati di qualche lana grezza. Rifiutava di farli crescere lunghi come quelli splendenti di Elena, per vergogna. I suoi occhi castani, così comuni, non avevano alcuna luce e la sua pelle aveva imperfezioni, piccoli nei e macchie appena visibili, dove quella bianca, marmorea di Elena non ne aveva alcuna…

La detestava… La gente di Sparta le guardava con occhi diversi. Per Elena c’era solo meraviglia e rapimento. Si era diffusa dalle bocche dei servi la storia del cigno e di sua madre Leda, ed Elena era stata da tutti riconosciuta come figlia del padre degli dei. Clitemnestra l’aveva vista camminare a braccia aperte nella pioggia, nei boati dei temporali estivi, accogliendo le gocce sul suo viso immobile, e aveva creduto che Elena parlasse con suo padre.

Per lei gli dei erano muti. Non aveva mai udito una voce, nei templi, in risposta alle preghiere e ai sacrifici e se ne vergognava. Le sembrava di non essere parte di quel mondo mutevole, dove gli dei camminavano con gli uomini, il mondo di storie e miti da cui proveniva sua sorella.

COSA NE HA DETTO CHRISTIAN RAIMO:

christian-raimo

Christian Raimo

Il libro di Cesare Sinatti, La splendente, è qualcosa di veramente inedito nel panorama editoriale italiano: una rilettura dell’epica classica in un romanzo solenne ma al tempo stesso capace di secolarizzare il mito, di rendere umani i semidei, e di escludere l’elemento divino, il Fato, di “tagliare il cielo”. È una lettura che fa impressione per la documentazione, l’acribia della ricostruzione delle storie omeriche e del resto dell’immaginario antico, che non rende La splendente un libro derivativo o erudito, né un’opera semplificante: il romanzo si snoda piuttosto come un romanzo di guerra che riflette come un paradigma antelitteram tutte le storie di conflitti che sono state narrate dalla guerra di Troia in avanti.

La maturità poetica e stilistica di Sinatti fa sì che non ci sia un compiacimento né postmoderno né bellettristico, e che anche la lezione di un Calasso o di un Baricco siano state assimilate insieme a quella delle serie tv che si sono cimentate con l’epica. Con un’ispirazione che verrebbe da dire nicciana, dove dalla contrapposizione tra apollineo e dionisiaco scaturisce una trasvalutazione dei valori: la possibilità di narrare una generazione di semi-dei oltre-uomini che sono tali perché “umani troppo umani”.

ADIL BELLAFQIH e BARATRO

mercoledì, 29 Giugno 2016

DSC_9582-editate

ADIL BELLAFQIH

ADIL BELLAFQIH è nato nel 1991 a Sassuolo dove vive. Si è laureato su Stephen King, con una tesi disciplinarmente trasversale. Sta frequentando il corso di laurea magistrale in Filosofia a Parma. Ha pubblicato diversi racconti in occasione di vari concorsi letterari e ha tutta l’intenzione di vivere della sua scrittura.

Finalista al Premio Calvino XXIX con Baratro.

 

COSA NE HA DETTO IL COMITATO DI LETTURA:

La vicenda è ambientata in un’Italia ormai desertificata dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse naturali in un anno imprecisato del XXI secolo. Gli Stati Uniti d’Europa hanno da poco sostituito le scuole pubbliche con “centri di impiego preliminare” e chiunque non sappia o non voglia adeguarsi ai “principi del Mercato, della Crescita e della Finanza” o sia sospettato di ordire piani sovversivi contro di essi viene sottoposto a una procedura riabilitante nel CRIL (Centro di rieducazione alla democrazia e al libero mercato), una sorta di cattedrale nel nulla. Si tratta di un’idea di notevole capacità e qualità visionarie. Naturalmente la lingua che si parla nel CRIL è una neolingua orwelliana: qui democrazia significa libertà, e libertà significa unicamente libertà di perseguire con ogni mezzo il profitto (l’elemosina o l’aiuto disinteressato in questo quadro sono, non c’è bisogno di dirlo, disvalori). Gli ospiti del centro – ingegnosamente immaginato dall’autore – sono sottoposti ad esercizi in vista del suo fine rieducativo: dispongono di denaro (grazie a contratti a tempo determinato) con cui giocare al gioco del profitto (ma ogni mezzo è lecito purché non si infranga il dogma del mercato). In questo gioco c’è chi vince e c’è chi perde, c’è chi sale e c’è chi scende (anche fisicamente, finendo nei sotterranei dell’edificio). Il cuore del Centro sono i punti commerciali dove ognuno può acquistare ciò che desidera o è indotto a desiderare. Massima importanza per il controllo dei comportamenti degli educandi sono i mezzi informatici, che garantiscono la totale panotticità del sistema. In questo universo parallelo finisce, quasi per caso, il famoso hacker Zombi 243. È lui il protagonista attorno al quale si annodano tutte le complesse vicende della trama e attorno a cui ruotano tutti i personaggi, singolarmente individuati. Egli mira semplicemente a sopravvivere, lavorerà per la struttura di comando nel Reparto Mobilitazione Informatica, accetterà di fare l’infiltrato presso il gruppo di sovversivi (i Trumlin), ma poi affascinato dalla personalità del loro capo, Leo, passerà dalla loro parte, si innamorerà di Wolf, dimenticando la moglie… Le cose, naturalmente, non sono così semplici come appaiono e la congiura dei Trumlin è destinata inevitabilmente a fallire (si rivelerà come nient’altro che uno stress test): Leo riuscirà, comunque, per pochi minuti a incitare le masse degli educandi alla rivolta, alla giustizia e alla vera libertà. Peccato che per libertà gli educandi intendano quella di appropriarsi delle bramate merci. Conclusione amara. Tutto finirà in un massacro degli illusi rivoltosi, e qui finisce la prima parte del romanzo (“Età dei giganti” ed “Età degli eroi”). Nella seconda parte (Età degli uomini” e “Diluvio – Tempo di libertà”), Max (ovvero Zombi 243), fortunosamente salvatosi, da classico antieroe/giustiziere, compirà la sua vendetta solitaria fino alla distruzione del CRIL e al rocambolesco salvataggio dell’amata Wolf.

Baratro può essere definito un testo distopico o lo si può ascrivere direttamente alla fantascienza: come spesso nei testi di genere sussistono elementi che evocano l’uno e l’altro aspetto senza imporre etichette esclusive. Tanto più che le fonti dirette o indirette sembrano tante e varie (da Claudio Vergnani a Italo Bonera, dal Pasolini nero al Titus di Julie Taymor). Fonti comunque utilizzate in termini mai ovvi o imitativi nella costruzione complessa di un grande affresco; e per quanto fantasie distopiche non manchino nell’odierna narrativa di genere italiana, il giovane autore mostra una notevolissima autonomia e originalità. In sostanza si tratta di una prova persuasiva.

Le psicologie dei personaggi sono definite con cura, e alcune figure appaiono molto belle – quelle di Wolf e di Leo, la stessa Beatrice King; il protagonista Max ha connotazioni meno scontate di quanto si sarebbe potuto attendere dall’immaginario sull’hacker. I dialoghi sono ben condotti, cosa non facile. Certo si tratta di un quadro nero, disincantato, ma l’autore riesce a non esaurire le soluzioni – per quanto estreme – nell’effetto facile, e mostra un ottimo controllo delle suggestioni di volta in volta evocate (l’atroce, il grottesco…). Dove poi graffia con brillante intelligenza è nel grande affresco politico-economico, mai scontato o banale, in chiave di intrigante macchina per pensare.

Lo stile piano vede il ricorso a buone soluzioni narrative (la descrizione onirica dell’accecamento del protagonista, l’aggancio tra conclusioni e inizi dei vari paragrafi), e la mole di oltre cinquecento pagine è gestita con abilità: il testo corre fluido e incalzante. Sicuramente più compatta appare la prima parte, fino alla tentata rivolta, mentre nella seconda alcuni episodi avrebbero potuto essere alleggeriti (la tavolata carnevalesca) o tagliati (la scena burattinesca degli intellettuali, per esempio): la tendenza ad allargarsi è probabilmente normale data l’età dell’autore e le consuetudini della narrativa di genere, anche se può naturalmente auspicarsi un maggiore controllo nello scrivere “per sottrazione”.

Comunque tutto traghetta verso un finale consono, e in fondo atteso. Dove gli aspetti di improbabilità – le eliminazioni finali, incrociate e compulsive dei personaggi apparsi in scena, la soluzione della macchina del tempo – non risultano spiacevolmente incongrui. E in particolare la conclusione conciliante della macchina del tempo che permetterebbe alla giovane incinta di salvarsi dall’esplosione potrebbe appartenere in realtà al mondo tutto interiore di fantasie del protagonista morente.

 

UN BRANO PER APPREZZARLO:

“Il sogno di Max, ovvero l’hacker Zombi 243”

Elisa è appoggiata allo stipite della porta e lo fissa…

Max è seduto alla sua scrivania, arroccato dietro i quattro monitor allineati sul ripiano pieno di blocchi di appunti, cifrari e dispositivi di monitoraggio. Lì dietro c’è tutto quel che gli serve per manipolare la cascata di zero e uno che compongono il magico mondo dell’informatica. Una logica dicotomica tanto semplice quanto pericolosa: destra o sinistra, giusto o sbagliato, niente vie di mezzo.

«Devo lavorare», dice a Elisa continuando a digitare … sulla tastiera. Ci sono stringhe di codice davanti a lui, numeri e simboli che nella sua mente formano immagini, connessioni, ma tutto si riduce sempre a zero e a uno.

«Te lo sei scordato?» chiede Elisa incrociando le braccia sotto il seno.

Max si volta per guardarla e si accorge di non essere nel suo corpo. Almeno, lui non è lo stesso Max seduto alla scrivania. Vede coi suoi occhi, ma allo stesso tempo vede fuori di sé. Sta sognando…

«Cosa mi sono scordato?» chiede il Max seduto alla scrivania. Alla luce dei monitor il suo volto appare scavato …, i suoi occhi infossati…

«Che non tutto è nero o bianco, che non ci sono solo buoni e cattivi, che non c’è solo giusto o sbagliato. Che non ci sei solo tu. È logica fuzzy».

«Non ho tempo per questo. Io ho bisogno di farlo, lo capisci?»

… lui la logica fuzzy la conosceva eccome… C’erano teorie che …proponevano un tipo di approccio sfumato: tra il caldo e il freddo c’era il tiepido, … tra lo zero e l’uno c’erano un’infinità di possibilità intermedie. La realtà era sfumata, precaria, ma se lo era la realtà “vera”, perché doveva esserlo anche quella virtuale?

I pensieri gli si solidificano davanti. Può vederli scorrere tra lui ed Elisa, lo attraversano senza lasciare residui. Lì dentro, nel profondo dell’incubo, tutto è pensiero.

«Io ho bisogno che tutto sia zero e che tutto sia uno», dice il Max asserragliato dietro i monitor. Si è fatto gobbo e scuro e rachitico. «Ho bisogno di una realtà che funzioni. Devo farla funzionare…»

«È il mondo che non funziona!» urla… «io lo faccio funzionare!»

 

COSA NE HA DETTO ANGELO GUGLIELMI:

angelo-guglielmi

Angelo Guglielmi

Baratro andrebbe rivisto nella scrittura, ma possiede un’eccezionale forza visionaria che gli consente di parlare della situazione politica ed economica in cui vive il mondo occidentale senza ricorrere ai facili toni accusatori e di denuncia.

L’idea di raccogliere i renitenti allo stile di vita occidentale in un centro dove si insegna loro che libertà=mercato e democrazia=capitale mi sembra geniale. E geniale mi pare anche l’idea di collocare i renitenti sequestrati in un edificio che sorge in una zona desertica (in modo da rendere difficile la fuga), ma lussuoso come un albergo a cinque stelle. Qui gli ospiti, preliminarmente muniti di una certa quantità di denaro da spendere in un fornitissimo supermercato, vengono stimolati a trafficare e a comprare, a fare scambi e a rubare, possono anche ottenere prestiti (ma a tassi usurari). Possono vincere o perdere. I più perdono e di giorno in giorno i loro alloggi diventano sempre più grigi, sporchi, cadenti. Un piccolo gruppo costituito dai più consapevoli decide di ribellarsi con l’aiuto dell’abilissimo hacker Zombi 243. Ma la direzione non ha difficoltà a vincere e sterminare i sovversivi. L’hacker però sopravvive, sia pur provato e quasi cieco. A questo punto non gli rimane che la vendetta e con la sua sapienza informatica riuscirà alla fine a distruggere il centro di rieducazione.

Il romanzo appartiene chiaramente al genere fantascientifico di tipo orwelliano con evidenti richiami al nostro presente. Il testo è sovrabbondante, va asciugato e rivisto, ma rivela un autore capace di tenere in equilibrio una struttura complessa con personaggi fascinosi e psicologicamente credibili. È giovanissimo e certamente meritevole di riconoscimento.