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Carlo Loforti

mercoledì, 4 Aprile 2018

Intervista di Ella May – aprile / maggio 2016

Illustrazione di Davide Lorenzon

 

Carlo Loforti è nato e cresciuto a Palermo, dove lavora come creativo. Si è Laureato in psicologia, è sopravvissuto con dolore alla fine dei Cavalieri dello Zodiaco e ha imparato a riconoscere i borseggiatori ancor prima che escano di casa. Nonostante abbia soltanto ventinove anni, è il creatore della web serie Senza contratto e scrive per la rivista L’eco del nulla. Definirlo semplicemente un personaggio sui generis sarebbe riduttivo.

È stato uno dei finalisti della 28° edizione del Premio Italo Calvino e il 14 aprile [2016] è arrivato in libreria il suo primo romanzo, intitolato Appalermo, Appalermo! e targato Baldini&Castoldi. Un libro da leggere tutto d’un fiato, fresco e intelligente.

Il 13 maggio [2016] sarà ospite del Salone del Libro di Torino, assieme ad altri autori emersi dal palco del PIC.

 

N.d.R.: a novembre 2017 è uscito il suo secondo libro, Malùra, sempre per i tipi di Baldini&Castoldi.

 

1) Mimmo Calò è il personaggio centrale del tuo romanzo. Come lo hai creato?

Mimmo Calò ha vagato nella mia mente per diversi anni, alla ricerca di una storia. Lui c’era, la storia no, non ancora. Se n’è stato lì per ventisette anni, a lievitare; un mix di lieviti diversi sopiti dentro di me.

Era un personaggio spugnoso, assorbente ma anche capace di secernere. Paziente. Ha pazientato per ventisette anni; poi, trovata la sua storia, si è imposto sulla carta.

L’incontro più divertente di questi miei primi ventinove anni di vita, forse.

 

2) Il tuo protagonista indossa di frequente i panni del maschilista: parla delle donne come parla del pallone, due “cose” che possono farlo sentire tanto “un Dio” quanto “l’ultimo sfigato sulla terra”. Perciò ti chiedo: per te cos’è il calcio e cos’è la donna?

Più che maschilista io lo definirei “femminista in incognito”, quasi un infiltrato. È una certa deferenza nei confronti delle donne, il credersi inferiore, a renderlo così tanto (apparentemente) maschilista. È un maschilismo empirico, il suo. Mimmo approccia le donne come farebbe un meccanico con un’auto che non riesce a mettere in moto: fa le prove, argomenta scelte e strategie e, nel farlo, si diverte e cerca di capirci qualcosa.

Cos’è il calcio? Cos’è la donna? Quando saprò rispondere sarai la prima a saperlo, giuro. Al momento posso solo dire che con Appalermo, Appalermo! ho cercato insistentemente le risposte anche a queste domande.

 

3) La Sicilia che racconti fa pensare a una rivisitazione in una chiave ironica (o dovrei dire “comica”?) di quella vera: c’è dentro tutta la verità, ma rivelata sorridendo.

La Sicilia è comica. Tragica e comica, spesso contemporaneamente. Tragedia e commedia, durezza e leggerezza, nella loro continua alternanza, non hanno fatto altro che confondermi di continuo. Forse questo romanzo è nient’altro che il tentativo di mettere in ordine questi impulsi confusi proprio attraverso una risata liberatoria.

L’ironia mi è sembrato il modo migliore per canalizzare tutta l’energia che avevo bisogno di mettere su carta.

 

4) Hai scelto di usare un linguaggio parlato, popolare, dialettale. Hai lavorato per costruirlo così o ti è venuto fuori spontaneamente?

Quando io e Mimmo Calò ci siamo conosciuti, dentro alla mia mente lui mi parlava così. Non potevo non rispondergli a tono. È stato un atto dovuto, un esercizio di sincerità, addirittura scontato; non potevo voltargli le spalle mettendo filtri che sarebbero stati superflui.

Per questo, la scelta del linguaggio non è stata né pericolosa (almeno per me) né difficile. È stata l’unica scelta possibile.

 

5) Il caso, il destino e il libero arbitrio: tre elementi basilari su cui poggia l’intreccio del tuo libro, che ci porta a riflettere sul prezzo che costa, a volte, dire di no.

È vero, la storia di Mimmo, per quanto condizionata da sfortuna e caso, è in realtà impregnata di libero arbitrio. Calò è un uomo che crede in se stesso (forse troppo) e nel coraggio delle proprie scelte (nella maggior parte dei casi sbagliate). Sono le sue decisioni a innescare gli ingranaggi del destino, non viceversa.

Per quanto riguarda il suo rifiuto di sottomettersi al sistema del pizzo, mi piace pensare che per scelte di questo tipo non ci sia un prezzo da pagare. Ovviamente possono esserci delle conseguenze, però mi piace pensare che un giorno il coraggio di non cedere all’estorsione verrà percepito sempre più come un riflesso condizionato e inevitabile, e non come qualcosa che comporti a sua volta un costo da pagare. Solo allora, quando la legalità verrà vissuta come una reazione/azione inevitabile piuttosto che come un sacrificio, saremo a buon punto nella lotta alla mafia.

 

6) Nel tuo romanzo Palermo è coprotagonista a tutti gli effetti. Che rapporto hai tu con questa città?

Io Palermo la vivo in due modi. Primo: come una donna che mi rendo conto di non amare più, ma che non riesco comunque a lasciare. Secondo: come la donna con cui spero di trascorrere la mia vecchiaia.

 

7) Cosa ti ha spinto a inviare il manoscritto al Premio Italo Calvino?

La consapevolezza di essere estraneo alle logiche dell’editoria. Prima di partecipare al concorso non avevo rapporti con questo mondo e per un perfetto sconosciuto è molto difficile attirare l’attenzione delle grandi case editrici. Il Premio Italo Calvino è oggi, in Italia, uno dei pochi percorsi davvero utili per riuscire a sbloccare l’ingranaggio. E poi Calvino è stato l’autore della “nobile leggerezza”; visto il tono del mio romanzo, a chi altri potevo inviarlo?

 

8) Cos’ha significato per te partecipare al PIC?

Mi ha permesso di dialogare con le case editrici, mi ha dato la possibilità di confrontarmi con un primo vero pubblico. E poi mi ha fatto sentire a casa, protetto da tutte le persone che vi lavorano e che si sono prese di cura di me dall’invio del testo fino al post pubblicazione.

 

9) A questo proposito: tu cosa hai potuto imparare durante il percorso che ti ha portato alla pubblicazione?

Ho imparato tanto, spero. Ho capito che fare l’autore non è barricarsi dietro una roccaforte di parole e stereotipi, ma mettersi in gioco per il bene del proprio testo. Ho capito che pubblicare un libro è fatica, una splendida fatica da affrontare insieme a molte altre persone che spesso la pensano diversamente da noi (ed è questo uno dei punti più interessanti). Ho lavorato con un editor, Corrado Melluso, che è riuscito a smascherare tutte le mie “pigrizie autoriali”, aiutandomi a risolverle. Ho visto il mio testo crescere, migliorare, trovare la propria quadratura. Non è stato come me lo aspettavo, è stato meglio.

 

10) Cosa ti rimarrà, sopra ogni altra cosa, di questo tuo romanzo?

L’amicizia con il mio personaggio. I sorrisi divertiti delle persone che lo stanno leggendo. La nostalgia dei giorni in cui lo stavo scrivendo.