Diari

GIULIO NARDO – CARO GUIDO, LA TUA VANITÀ NON MI FU VANA

lunedì, 23 Luglio 2018

Forse, a vivisezionar le memorie, tutte quelle passioni che s’asserpolano tra le budella, o le budella stesse?, si finisce coll’averci le golose interiora sparse sul tavolo; e niente, le si stimano e le si spiluccano un po’, a caso… del resto, il corpo che le conteneva, cioè che le dava un senso – be’ è tutto un macello, è a pezzi, sotto un’aura scialitica. Però forse, quel tòcco lì, sì, è lo spunciotto più buono, e allora lo infilzo, lo ingoio: e tra le fauci me lo ripappo, e ghiottamente, e via un altro. Così è la memoria, questa memoria qui.

Diario di una carriera. La carriera non c’è. O meglio, rettifichiamo: esiste una mitica previsione, la storia inchiostrata s’una carta impiastricciata. Tant’è: finché una bocca non chiama il nome, la cosa che tal nome designa (ma che!) manco a immaginarla sussiste. La cosa senza nome è semplicemente la cosa non pensata; sicché, perché chiamarla?

Una chiamata; to’, è per me? Cioè, per me per quel Guido Alfano che…? (Quattro giorni; e poi pàffete in fronte, che m’ero scordato del premio! No no, mica impegnato! Solo, smemorato.) E qui certo, e sì e sì, le belle risposte, pensai bene di libarne a sazietà, come scialacquando tra le mani un’affettuosa fisarmonica, o una catena di omini di carta, e gnor sì!, in punta di lingua!, copiosamente, e cauto!, timidamente, e lesto! – ma, mi sa, che tartagliai solo qualche liso sintagma: m’impappinò un rombo d’aeroplano, tipo un nugolo d’api, che balenò, e intanto un lampo filò dritto, filò rapido, e fine della discussione. Di già? (È fatta, ratta ratta; che il tempo non si perda.) Ed ora, ché il rombo è passato, com’è silenziosa la cucina. Lo spazio si racqueta. Una bava del tardo aprile s’attortigliava per le tende come un fruscio ed io, ch’ero ancóra lì, imbaucàto da chissà quale arcobaleno, io forse fluttuai come la bolla dentro una livella. Ancóra lì, ancóra un attimo; il cervello s’accese; e poi, via di sarabanda! Di là dalla camera, dove mia sorella spalmava scale all’organo, sopraggiungevano quelle note monotone, ma per la passione mi parevano senz’altro note di un guazzabuglio, gli spruzzi di Versailles, saboè fioccanti da quella mia ilare e polivocale bizzarrìa dell’anima; meraviglioso!, quanto le immaginazioni si sperticavano fino al soffitto mentre una mano scialava, da una lauta cornucopia, parole sonaglianti e bionde come pioggia della Danae, o dello zafferano. Ma ancóra un attimo… Poi, mi calmai, mi schiantai sulla scranna: e riecco, l’organo continuava i suoi giri, e su, e giù; ma la fanfara, dov’era? Quella gloria d’ottone, tutta in testa… La visione, tutt’era scorsa. Di già? Di già. Gli occhi peregrinavano, e i pensieri orbitarono obliqui mentre una mano errava sopra il tavolo, e s’aggrappava, un’unghia scivolando sul decanter dell’acqua, tra le molliche e il pane, gli scampoli del pranzo, finché scoccò sul bicchiere e fece tin: e mentre sorridevo, mentre la contemplavo, l’acqua, dapprima smorta, scintillò (un attimo) e ballonzolò; e quel tin era tutta la mia musica. Chi l’avrebbe mai detto? Quel Guido Alfano, che… – Tin! Punto; e a capo.

Due mesi, e sono ancóra qui; ma dato che il cervello è distratto, un dito tiene pigro un segno sul libro, due fioretti di Petronio ciarlano al muro e intanto il bel pensare s’incricca sulla ventola, e vola via. Infatti, ora il cervello c’ha la sua bella epopea! Se il corpo è sempre questo, sai quale progresso si mescé di sotto: perbacco, questo venticello sottile sottile, il ventidue di maggio f’un gran chiasso, un gran groppaccio in gola, e non per la cravatta, che stava buona buona al suo posto; ma dico invece l’ambaradan nel fegato… poiché ho due polmoni di canarino, cioè poco avvezzi ai larghi respiri: sicché quando si fu alla ribalta, quando si disse il mio nome e cognome, poi il nome e il cognome di quell’altro, il mio compare lì (Guido Alfano, dico; ma guarda un po’!), come ci ruzzolò, a me e a lui, il cuore in un fragoroso patatràc! Che pasticcio, in mondovisione! Ma potei dare fiato a tutta la tromba del sermone, e proprio in quello: – Ecco – (pensavo, mentre la bocca diceva altro; cioè mi distraevo)

– ’Sto Guido Alfano è un buono a nulla, e per poco anch’io, come lui… Ah, ma se Guido Alfano ha toppato, di certo l’autore no! – E mi sa che lo dissi, questo sì, a voce alta. Volgiamo in celia la lezione? È meglio. Anche la cerimonia è passata. Mezzanotte? Prima di riserrare la finestra, ragionai un po’ sui coppi di Torino: – Ma guarda un po’! Caro Guido, la tua vanità non mi fu vana! – Insomma, per quel giorno il mito era abbastanza: chiusi la luce e mi ficcai a letto. Ma non avevo sonno.

LORETA MINUTILLI – COSA INDOSSERÒ ALLA PREMIAZIONE?

lunedì, 23 Luglio 2018

Ho sempre avuto uno strano rapporto con l’abbigliamento.

A quattro o cinque anni, prima di uscire di casa dovevo assicurarmi di essere vestita come una

principessa. Gli elementi fondamentali del mio outfit erano una gonna che svolazzasse in un cerchio se giravo su me stessa, una borsetta piena di strass e un’indefinita quantità di collane, braccialetti e ninnoli di plastica. Nonostante i comprensibili sforzi dei miei parenti per conciarmi in modo più sobrio, avrei rifiutato di muovere un passo nel mondo esterno senza sentirmi adeguatamente sontuosa. Ci sono poi stati gli anni della prima adolescenza, in cui mi convinsi, quasi da un giorno all’altro, che l’attenzione ai vestiti non si confacesse alla figura di intellettuale tormentata che aspiravo a diventare. Così smisi di occuparmi di quello che indossavo, un po’ per snobismo, un po’ perché in fondo temevo di rendermi ridicola, di non essere abbastanza carina per sfoggiare gli accessori che mi piacevano. Poi sono cresciuta, ho deciso che la possibilità di essere ridicola non mi dispiaceva poi troppo e ho ripreso a fermarmi davanti alle vetrine dei negozi di abbigliamento, a indossare gonne e fiocchetti e a ignorare ogni possibile sguardo critico.

 

Curiosamente, la parabola del mio rapporto con i vestiti coincide grosso modo con il percorso delle mie velleità letterarie.

Avevo circa sei anni quando ho deciso che da grande sarei diventata una scrittrice famosa. Essere una scrittrice non mi bastava, dovevo avere anche la gloria – a volte specificavo anche, famosa in tutto il mondo. Da bambina volevo scrivere le cose che leggevo: libri d’avventura, storie fantastiche. Passavo pomeriggi a deciderne gli intrecci e a delinearne i personaggi. Poi, più o meno quando ho smesso di agghindarmi come una madonnella prima di uscire di casa, ho attraversato uno strano periodo in cui scrivevo solo liste: di nomi, di oggetti, di piante. Costruivo interi alberi genealogici per famiglie sulle quali non avrei mai scritto una riga. Iniziavo splendidi romanzi fantasy di cui oggi mi restano due paragrafi in una lunga serie di file word da meno di 20 kbyte ciascuno. È stato anche il periodo in cui ho iniziato a scrivere racconti, attività decisamente meno spaventosa a cui dedicarsi, e ad inviarli a qualche concorso letterario. Non avevo la costanza né la determinazione necessarie a portare avanti un progetto più impegnativo. Solo quando mi sono iscritta all’università e il mio armadio si è riempito di gonne a balze e fascette per capelli ho deciso che, per la prima volta, non avrei permesso né alla sensazione di inadeguatezza né al desiderio di rincorrere altre idee di ostacolare la storia che avevo appena iniziato.

Così, per la prima volta, ho scritto un romanzo. Ho plasmato un personaggio dall’inizio alla fine e ho messo a tacere tutto il resto fino all’ultima riga.

È dunque comprensibile se quando ho saputo che quel mio romanzetto era arrivato in finale al Premio Calvino, superata la sensazione di incredulità e sorpresa e accettato l’inevitabile corso degli eventi, uno dei miei primi pensieri è stato: cosa indosserò alla premiazione?

 

Non mi sono sentita superficiale per questo: negli anni sono scesa a patti con la vanità, almeno riguardo al mio aspetto esteriore, e ho allegramente vagliato le possibilità che il mio guardaroba mi offriva per una serata importante. Alla fine ho scelto il vestito che avevo indossato anche alla laurea. Ho pensato subito che forse anche per questo, poco prima che iniziasse la cerimonia, ho cominciato a provare esattamente le stesse sensazioni dei momenti prima del mio discorso alla seduta: il timore irrazionale che ci fosse un errore, che fossi capitata per caso in quella situazione tanto più grande di me, che gli altri ne sapessero molto più di me mentre io ero irrimediabilmente impreparata e tutti stavano per scoprirlo. Questa paura poteva essere giustificata nel corso di un esame di laurea, ma perché avrei dovuto provarla in un contesto in cui, in fondo, avevo già vinto qualcosa?

La verità è che mi rendevo conto in quel momento più che mai di quanto scrivere mi rendesse incredibilmente più vanitosa che indossare vestiti e scarpe col tacco. Non ero troppo diversa dalla me stessa seienne che puntava a diventare famosa in tutto il mondo. Mi sono aggrappata all’orlo azzurro del vestito e la stoffa mi ha ricordato che alla seduta, alla fine, era andato tutto bene, che non c’era ragione di aver paura. Ho anche capito però che quell’ansia era più profonda, che sarebbero stati necessari più anni e più eventi per poter dire senza vergogna che sì, mi piace scrivere e mi piace che la gente legga quello che scrivo.

Ho lasciato andare la stoffa e ho fatto un respiro profondo: era il momento di iniziare ad accettare la vanità.

 

 

RICCARDO LURASCHI – L’OMBRA DEL PADRE

lunedì, 23 Luglio 2018

È stato un caso? o è stato il Fato, o qualche altra divinità presiedente ai destini umani, a provvedere che la telefonata del messaggero Marchetti giungesse pochi minuti dopo la fine della messa di suffragio per mio padre?

Una cerimonia frettolosa, nella cappella umida e scura di antica antichissima chiesa cittadina, ornata e ricca di dipinti marmi arredi ma fredda, ma scostante, il prete che tira un po’ via e recita a macchinetta le giaculatorie del suo ufficio, che sbriga la pratica insomma, assecondato dalle beghine col golfino dal colore indefinibile, abbottonato sul davanti, sussurranti implorazioni a occhi bassi, socchiusi. Assecondato anche, ma con tonante entusiasmo che sconfina a momenti nella frenesia, dai due gemelli sessantenni, alti e grossi come granatieri ma fermi, per funzioni mentali e cognitive, agli otto-dieci anni; di messe non se ne perdono una e sono buoni come il pane ma un po’ mi intimoriscono quando bruscamente, a scatti (tutto in loro, i pensieri infantili come il parlare, come i gesti, è a scatti, a strappi che succedono all’ingorgo, all’inceppamento) mi invitano ad accostarmi all’altare per ricevere dal sacerdote l’ostia consacrata. Io non voglio ricevere l’ostia consacrata e dunque dico no con la testa e accennando un debole sorriso, ma loro insistono imperterriti con questo scatto ripetuto del braccio nel gesto del vigile all’incrocio che intima agli automobilisti apatici o distratti o imbranati di circolare, così rinculo fino al muro ma loro insistono ancora e io faccio segno di no anche con le mani e già le beghine hanno levato la testa e fremono un po’ nel golfino ma ecco che per fortuna il prete dice con tono alto e fermo “Preghiamo” e i due, come azionati da una molla, si girano verso di lui e iniziano a recitare la preghiera, le sillabe sacre sparate come fucilate.

Comunque adesso ero fuori, nella strada inondata di sole e la giornata primaverile tiepida e luminosa così simile al 23 aprile di nove anni fa, quando mio padre si spense, mi fa ripensare a lui, alla sua lunga e intensa vicenda terrena compiutasi in una camera d’ospedale molto pulita, bianca, ben attrezzata, gli innumerevoli attimi vissuti confluendo lì, in quel letto reclinabile elettricamente, per assumere il loro misterioso significato, perché è la morte che – chiudendo il cerchio – illumina retrospettivamente l’esistenza umana. Il corso di tali intricati e frastornati pensieri è stato dunque interrotto dal messaggio di Marchetti: l’annuncio della finale e i complimenti e i ragguagli, in tono pacato e cortese, addirittura delicato, quasi il messaggero volesse attutire l’effetto della notizia, riportandomela con tatto.

Riagganciato il telefono, il filo dei pensieri su mio padre si riannodava. Ma ora tra me e lui, così lontano, per sempre lontano, c’era il Calvino, vale a dire l’inizio di qualcosa, il riconoscimento pubblico della mia scrittura, una qualità, una modalità esistenziale che lui non potrà mai sapere. La cosa mi addolora, perché so che sarebbe stato orgoglioso, ma accanto a questo sentimento ne è sorto un altro, indefinibile, fatto di sollievo e di rimorso: viene dalla consapevolezza che la lotta con la sua ombra è finita.

 

 

 

ADIL BELLAFQIH – UN GLITCH DI MATRIX

lunedì, 23 Luglio 2018

Negli episodi precedenti

 

(Musica random di Hans Zimmer)

Squilla il cellulare. Numero sconosciuto.

«Pronto?»

«Pronto, sono Mario Marchetti…»

Stacco. Torino sotto un sole feroce.

Stacco. Circolo dei lettori.

«Ora è il turno di Adil Bellafqih con Baratro…»

Applausi, flash, improvvisazione al microfono.

Stacco. Camera dell’hotel, notte insonne.

«Io non faccio arte. Io racconto storie.»

 

Sigla

 

Stazione di Sassuolo sotto il sole feroce di un feroce venerdì. Il treno arriva, giallo e stanco. Una colonia di vecchi si rifugia nel buio della sala slot in fondo al piazzale. Un ubriaco cerca di montare un cesto dell’immondizia prima di afflosciarsi a terra.

Squilla il cellulare. Numero conosciuto.

«Pronto, sono Mario Marchetti…»

Stacco. Città di Torino, ore 12,15.

Piove come se tutti gli angeli del paradiso avessero deciso di spremere le loro lacrime. La pupa mi cammina accanto, tenendomi il braccio (scenderemo insieme milioni di scale?). Il vento è un serial killer armato di rasoio, uno Sweeney Todd con gli occhi iniettati di freddo. Per fortuna una ragionevole dose di pericolo fa bene alla salute.

Stacco. Circolo dei lettori, premiazione, ore 17,00. Ma possono essere le 18,00 o le 23,00. Il tempo è un’illusione. L’ora di pranzo una doppia illusione.

Intrappolato in una bolla di umidità inizio a sfaldarmi sotto il giubbotto di pelle, strizzo la mano della pupa accanto a me e balbetto oscuri rituali propiziatori.

(… ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn…)

Aspetto il mio turno e vivo un déjà-vu. Ci sono già passato. Un glitch di Matrix. Solo che questa volta è ancora meglio.

Guardo la pupa, sorride e annuisce e mi stringe la mano. Andrà bene, penso. Tutte le cose servono il Vettore, penso.

Guardo il ciondolo a forma di leone appeso al collo. È Griever, il pendente del protagonista di Final Fantasy 8 (il mio videogioco preferito di quand’ero piccolo così). L’ho comprato a cinque euro a una fiera del fumetto. Sul retro sono incise le parole Sleeping Lion Heart e subito sotto Made in China.

Mi chiedo se sono un cuor di leone o se sono Made in China.

«Ora è il turno di Adil Bellafqih con Il Grande Vuoto…»

Applausi, flash, improvvisazione al microfono. E il suo sorriso, tra la folla.

Alla tua salute, bambina, penso.

 

つづ

 

Titoli di coda

 

Scena dopo i titoli di coda

 

Squilla il cellulare. Numero sconosciuto.

«Pronto?»

 

LAURA ARICÒ e MAURIZIO BONINO – NOI SIAMO QUADRUMANI E FELICI

lunedì, 23 Luglio 2018

Orgasmo di Calcutta. Non esattamente il pezzo più adatto da ascoltare in un Istituto Superiore. E del resto neanche la ragazza è immaginabile fuori da un manga.

Altissima e magra, le calze nere un pò strappate e i codini, sfida con ostilità la fila interminabile di coetanei davanti a lei.

E se mi metto davvero a nudo

Dici che ho sempre voglia di scopare

Servirebbe un secondo più all’anno

Per fare un respiro profondo

Per rilassare le spalle

Tanto tutte le strade mi portano alle tue mutande

Il ragazzino, sprofondato nella sedia a rotelle, la guarda con occhi leggermente socchiusi.

Le parole guidano il suo sguardo sugli short della ragazza, lei scuote la chioma metà rosa e metà nera. Metà in orizzontale.

Rovisto nella borsa per cercare l’orario. Non lo trovo, come al solito, e il cellulare si illumina senza emettere suono. Torino. Finalmente Tecnocasa mi ha trovato un alloggio?

– Pronto.

– Sono Mario Marchetti, presidente del Premio Calvino. Lei è Valentina Drago?

– No. Cioè sì. La risposta non è proprio il massimo.

– Il vostro romanzo è in finale.

La campanella suona, i ragazzi sciamano fuori dal bar passandomi accanto. La ragazza-manga mi comunica che deve andare in bagno. Parla senza emettere suono.

Parla anche Marchetti, ed è la prima volta che qualcuno parla davvero di qualcosa che ho scritto. Qualcuno che con i libri ci lavora, che incontra scrittori veri, a pranzo, a cena.

Metto via il cellulare e non ho capito nulla della premiazione, deve essere a maggio.

– Non diventerai mai una scrittrice – aveva sentenziato mia madre.

Tecnicamente parlando in effetti potrei diventarne metà, dato che noi siamo quadrumani. Chiamo la mia mano sinistra, o destra, Maurizio Bonino.

– Non rispondi al telefono?

– Sono al telefono. Sto parlando con te.

– Perché non rispondi al telefono?

Non è il caso di insistere. Ricorda scontri per una parola. Quella sensazione implacabile di essere nel giusto ma incompresi, l’ascolto impaziente, poi quello scarto in avanti, e il sollievo di avere trovato la soluzione più estrema ed efficace.

Valentina è nebulosa, come al solito, continua a sproloquiare, è evidente che vuole comunicarmi cosa la agita, ma non ci riesce. Questo mi innervosisce.

– È qui sotto il mio naso – controllo il telefono a fianco della vecchia Mitchell – non c’è nessuna chiamata.

Lei parla del bustino comprato al Balon sabato, quello nero. Ricordo, certo. La bruna con la frangia che glielo allaccia.

Passa un’eternità, e finalmente esce la parola che spiega tutto. Calvino.

Esco sul marciapiede assolato. Urlo.

Strano però. Marchetti dice di avermi chiamato. Odio le compagnie telefoniche. Tutte. Un regalo epigenetico dall’estinto monopolio Telecom, un’era geologica così lontana che non pare neanche appartenere alla mia vita.

Un tarlo si insinua nella mia euforia. È uno scherzo?

Non di Valentina, lei è incapace di inventare scenari realistici e situazioni semplici. E non ama gli scherzi prevedibili. Siamo in equilibrio omeostatico. Come Goldrake.

Io uccido i personaggi, lei fa di tutto per salvarli. Io costruisco macchine complesse, lei si immerge nei sentimenti umani, anche a rischio di annegare. Io tolgo parole non pertinenti, lei semina brandelli antropocenici.

È qualcuno che le ha fatto uno scherzo. Qualcuno che non ha apprezzato la Milonga, o il Flamingo, o l’Omeocrazia come distopia non omologante.

No. Non è possibile. Nessuno conosce certi dettagli. Il suo pseudonimo ci protegge.

Lascio il lavoro per festeggiare. Con la mia mano destra, o sinistra, Valentina.

Nel breve tratto a piedi piangerei, se non fossi comunque la metà dal senso pratico.

La osservo scendere dal tram. Birra, panini e arachidi per gli scoiattoli.

Seduti nel prato di fronte agli imbarchini scrutiamo il fiume. Torino è lontana dal mare, ci sono ancora le automobili, oggi.

Passano i minuti. Corpi atletici di uomini e donne in tute sgargianti su strani mezzi a due ruote compaiono da lontano. I Velox stanno arrivando.

Noi siamo immobili, congelati dal presente. Non capita spesso di essere felici.

Un nuovo felice bilancio

lunedì, 23 Luglio 2018

Anche quest’anno possiamo dirci soddisfatti. Il Premio Calvino ha superato i trent’anni senza dimostrare rughe. La Premiazione ha visto come sempre una grande partecipazione e − cosa che ci sta soprattutto a cuore − è riuscita a dare visibilità agli autori che abbiamo selezionato con tanta cura e passione nei mesi precedenti. Il riconoscimento degli editori ne è la prova.

Ringraziamo per il loro contributo i giurati, i lettori, gli editor e gli agenti letterari che si sono impegnati insieme a noi.


GIÀ SEI FINALISTI DELLA XXXI EDIZIONE (2018) HANNO TROVATO UN EDITORE:


Adil Bellafqih pubblicherà Il grande vuoto con Mondadori
Riccardo Luraschi pubblicherà Il Faraone con Castelvecchi
Loreta Minutilli pubblicherà Elena di Sparta con Baldini&Castoldi
Marinella Savino pubblicherà La sartoria di via Chiatamone con Nutrimenti
Filippo Tapparelli pubblicherà L’inverno di Giona con Mondadori
Bruno Tosatti pubblicherà Talib con Tunué

E anche La fine dell’estate di Serena Patrignanelli, menzione speciale alla XXX edizione, ha trovato casa e uscirà con NN. Sempre della XXX edizione, sarà in libreria l’11 ottobre Come si sta al mondo di Davide Martirani pubblicato da Quodlibet. E così arriviamo a sei finalisti del 2017 acquisiti, quattro dei quali già sugli scaffali delle librerie.


TUTTI CI HANNO SCRITTO IL LORO “DIARIO DEL CALVINO”, COM’È TRADIZIONE.

Se siete curiosi, andate qui


E SE VOLETE SAPERNE DI PIÙ SUI TESTI FINALISTI CERCATE “CADILLAC”

La rivista in collaborazione con il Premio ha preparato un numero speciale dedicato alla XXXI Edizione del Premio Calvino.


Bando della XXXII edizione

sabato, 30 Giugno 2018

Premio Italo Calvino 2018-2019

Bando della XXXII edizione

  • – iscrizioni chiuse –

1) L’Associazione per il Premio Italo Calvino, in collaborazione con la rivista “L’Indice”, bandisce la trentaduesima edizione del concorso letterario per testi inediti di scrittori esordienti.

2) Si concorre inviando un’opera inedita di narrativa in lingua italiana: romanzo, racconto o raccolta di racconti, in ogni caso di lunghezza complessiva superiore alle sessantamila battute, spazi inclusi.

Le indicazioni sulla formattazione (caratteri, impaginazione, rilegatura ecc.) si trovano sul sito www.premiocalvino.it, nella sezione Istruzioni per l’iscrizione.

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