Giurie

SENZA CALVINO di Fabrizio Pasanisi

lunedì, 23 Luglio 2012

Quante volte sono passato sotto la casa di Italo Calvino, a Roma. Quante volte ho parlato di lui con il libraio da cui si serviva, e dove anch’io entravo perché vendeva con lo sconto, e credo venda ancora, i libri appena usciti. Quante volte ho pensato: “Che peccato, non legge più i libri degli altri”. O, almeno, non lo faceva più per professione.

Non ho mai avuto il coraggio di disturbarlo. Come non ho avuto mai il coraggio di disturbare un altro italiano, come lui romano di adozione, un altro protagonista della nostra cultura che per la mia formazione ha contato come Calvino, Federico Fellini. Una volta ho scritto un articolo nel quale provavo a fare un paragone tra i due, visti gli stessi esordi segnati dal realismo del dopoguerra, vista la stessa capacità di guardare il mondo attraverso gli occhi di un bambino, e poi l’amore per le fiabe, e la capacità visionaria di entrambi. Quando sono scomparsi, mi sono subito mancati, perché ritengo fossero ancora nel pieno della loro forza espressiva, e perché l’idea che un giorno, prima o poi, avrei potuto conoscerli, beh, era una cosa per me importante.

Quando è stato istituito il Premio Calvino, ho subito pensato che avrei voluto parteciparvi. Mi ero chiesto se questo concorso dedicato agli inediti, e quindi in linea con il “secondo mestiere” di quello straordinario autore, potesse riprenderne realmente la voce, la volontà. Scoprire nuovi scrittori, dare loro un’opportunità in un Paese dove per andare avanti devi conoscere qualcuno, devi essere “segnalato”, “raccomandato”.

La prima domanda che Stefano Salis, il conduttore della premiazione, ha rivolto a noi finalisti è stata:

«È la prima volta che partecipi al Premio Calvino?».

La mia risposta sarebbe stata semplice, secca:

«Sì».

Però ho subito pensato:

“E se mi chiede perché non vi abbia partecipato prima?”.

Scrivo da sempre. Romanzi, abbozzi di romanzi, racconti per lo più inediti si sono accumulati nei miei cassetti, o tra i miei file. Ho trovato riscontri più che incoraggianti alle mie opere, mi sono industriato a inviarle a qualche editore, scelto con cura, accompagnandole con lettere di presentazione di personaggi illustri. Sembra che non basti mai, è sempre difficile trovare interlocutori.

Brutta sensazione, e la nostalgia per Calvino, per il ruolo di Calvino, per il peso di Calvino, cresce. Significa rimpiangere, oltre che una grande mente, un’Italia che non c’è più? Forse.

Eppure. Eppure, come nei Lunapark di Federico Fellini che si aprono all’occhio dello spettatore, l’altra sera…

È il 4 di maggio, tra poche ore sarà il 5, una data cara alla storia, anche alla letteratura. E in un luogo splendido, di una splendida Torino, per qualche minuto, per un paio di ore, si parla di letteratura. Un gruppo di benemeriti di un’Italia che per fortuna esiste ancora si è messo insieme, nel nome di una passione comune, nel segno di quell’autore che amano in tutto il mondo e che è rimasto tra noi con i suoi libri, per dare a qualcuno, giovani, meno giovani, un segno. La festa che si svolge, alla premiazione del Calvino, presso il Circolo dei Lettori di Torino, sta lì, in quell’idea di possibilità che tanto piaceva proprio a Calvino. L’Oulipo, l’idea che la cultura, l’arte, la letteratura, possano tendere sempre avanti, ogni volta alla ricerca di nuovi percorsi, di nuove sfide. Non soltanto di testimonianze, ma di segni, di azzardi, di idee. Quando qualcuno dei giurati ha sottolineato che la mia opera era una via di mezzo tra un saggio e un romanzo, e non chiariva sempre questo confine, ho pensato ad alcuni tra i miei scrittori di riferimento, a Robert Musil o a Karl Kraus, ho pensato a Vladimir Nabokov, che costruisce un romanzo da un saggio, ricavandolo dalle note esplicative di un poema (Fuoco pallido); e ho pensato a lui, a Calvino e ai suoi amici, all’Oulipo, all’idea che precede il testo, che vincola il testo.

Nella sala del Circolo dei Lettori si è parlato di Italia, e si è parlato di letteratura. Non capita spesso. Lo si è fatto tra l’altro con una storia intrisa di nostalgia ambientata negli anni Cinquanta, con lo scontro tra poliziotti e supertifosi (violenti) del calcio, con la rievocazione fiabesca di mondi lontani e vicini, quelli della guerra civile, quelli di un Paese sconfitto dalla storia, che aveva soltanto nell’umanità più diffusa e più semplice il proprio fulcro, il proprio sostegno, il proprio avvenire…

Ho provato anch’io a parlare di letteratura. Di meta-letteratura, di una letteratura che diventando tale rifletta su sé stessa. Ho parlato di Thomas Mann e Bertolt Brecht, di due vite eccezionali, per complessità e profondità, per il contrasto che si può cogliere mettendole vicine, per la miriade di personaggi, di personaggi altrettanto famosi, che le hanno riempite. Per il rapporto di due scrittori, di due coscienze critiche, con la Storia.

E proprio Thomas Mann e Bertolt Brecht sono entrati per qualche momento nella sala del Circolo dei Lettori di Torino, coinvolti in un premio che li riguardava, ma non era per loro. Hanno accennato alla loro vita Renato Barilli e Massimo Carlotto, Federica Bonani ha letto con partecipazione una pagina di Lo stile del giorno, il titolo del mio romanzo ripreso da una frase di Thomas Mann, che indicava così gli autori legati alla moda, a un gusto imperante ma pronto a essere superato da un altro, destinati a non lasciare traccia di sé.

Poi Stefano Salis mi ha chiesto perché abbia scelto loro, perché proprio loro…

Ho risposto prima di tutto perché non esisteva un’opera, anche saggistica, dedicata al confronto tra i due. Ho detto altre cose, non ricordo bene, ma quello che ricordo è che, mentre parlavo, ho cominciato a rivivere una scena, da spettatore, accaduta circa un secolo fa. Si svolse ad Augusta, nel 1920. Augusta (Augsburg) è una città della Bassa Baviera, non lontana da Monaco, da cui dista circa settanta chilometri. È la città natale di Bertolt Brecht, mentre Monaco era diventata la città di Thomas Mann, trasferitovisi da Lubecca.

La scena è la stessa in cui ci troviamo noi, è quella di una conferenza, è quella di un dibattito. A parlare, dietro il tavolo dei conferenzieri c’è Thomas Mann. Si è recato ad Augusta per leggere alcuni pagine del romanzo cui sta lavorando (non è per niente finito, vi sta ancora lavorando eppure è lì a leggerne alcuni brani). Quel libro si chiama La montagna incantata, e diventerà una delle opere principali dell’intero Novecento. Tra il pubblico c’è un giovane, ha poco più di vent’anni. Si chiama Bertolt Brecht. Non ha nessuna voglia di stare lì, ad ascoltare quella noiosa lettura in cui si parla di un altro giovane incapace di affrontare la vita per quella che è, incapace di scegliere, di decidere. Un giovane che davanti alla prospettiva poco rassicurante di muovere i propri passi nel mondo comune, preferisce restarsene nella reclusione di un luogo magico, incantato, in un ristretto universo in cui il tempo, l’amore, la morte, sono tre entità mischiate tra di loro, in modo indissolubile. Nel sanatorio, dove la malattia è di casa, è possibile conoscere il mondo esterno molto meglio che mischiandosi a esso, come notava Marcel Proust quando parlava dell’Arca di Noè in balia del diluvio.

Brecht ascolta, ma vorrebbe essere altrove, su un albero di susino, tra le correnti di un fiume che lo trasportano a valle, in mezzo alla natura a chiudersi nella propria ribellione, nella propria negazione verso quella realtà ufficiale, verso la cultura rappresentata da Mann, dal conferenziere perfettamente vestito, lucido, impettito, con la voce suadente, potente, ammaliante. Eppure deve stare lì per scrivere un articolo, per un giornale locale, sulla serata. Perciò si agita sulla sedia, si lascia andare in avanti come farebbe qualsiasi giovane annoiato e, alla fine, non si reca neanche dall’autore per un saluto, per una domanda, per un breve confronto. Per un omaggio.

Mann e Brecht non si strinsero la mano, in quell’occasione. Lo avrebbero fatto in seguito, ma non lì, anche perché Mann non poteva sapere chi fosse Brecht, né, ovviamente, cosa sarebbe diventato.

Questa storia sarebbe piaciuta a Italo Calvino, che oltre ai suoi romanzi, oltre ai racconti, ci ha lasciato pagine e pagine di riflessioni sulla letteratura e i suoi protagonisti. Al suo posto, però, ci sono alcune persone che, spinte dal sentimento più puro, la passione, hanno permesso che si ritornasse ancora una volta a parlare di letteratura. Benemeriti, sognatori tra i tanti, illusi? Difficile dirlo, è certo però che dobbiamo essere loro grati, per quello che fanno, per come lo fanno, per come hanno trattato noi e le nostre opere, con tatto, con rispetto, con grande competenza, presentandole nel miglior ambiente, nel miglior modo in cui potessero essere presentate, e lasciando capire a noi stessi e al pubblico presente che si tratta di semi, pronti a fiorire. Non so se pensando a loro, ai lettori del Premio Calvino, oppure a noi scrittori in cerca di un esordio, noi otto finalisti alla ribalta per un giorno, che mi vengono in mente le ultime parole del saggio di Marcel Camus sul Mito di Sisifo:

“Bisogna immaginare Sisifo felice”.

Noi, tutti insieme, come Palomar che nuota verso il sole. Noi, Sisifo.